L’interrogazione orale è un’occasione preziosa per osservare le metamorfosi che la tensione provoca negli alunni – l’ho constatato migliaia di volte, in questi anni di insegnamento. Molto più di un compito in classe, in cui ci si mette in gioco in solitudine e il tempo più ampio a disposizione consente a chi vi si sottopone di diluire la tensione, di programmare le operazioni, di architettare un ragionamento, l’interrogazione, a torto o a ragione, sembra il regno delle prove immediate, incancellabili, inappellabili, in cui ci si gioca, oltre che il voto, una reputazione dinanzi al resto della classe.
Taluni reagiscono con precipitosità, mitragliando risposte, le prime venute in mente, non importa in quale forma, non importa se incongrue, rasentanti l’oscurità o il delirio: a spaventarli sono il silenzio, l’attesa. Altri, al contrario, si chiudono in un mutismo disperato. Piuttosto che sbagliare, preferiscono tacere; coltivano il sospetto che tutte le risposte tranne una siano errate: o che non esista nessuna risposta giusta, nessuna. Il loro rifiuto di esprimersi ha del metafisico. I primi sembrano pensare che vi sia del buono in ogni parola (posizione anche questa non priva di una sua suggestione filosofica), i secondi che solo nel tacere si trovi una possibile, precaria salvezza.
Scorgo i loro piedi agitarsi, sento il tamburellare delle loro dita sulla cattedra, vedo le mani aggranchiarsi in improbabili torsioni barocche, sento il vibrare di quei movimenti incontrollabili trasmettersi dalla sedia al pavimento alla mia sedia a me, ne percepisco l’eco nelle cavità dell’addome. Lo stress escogita quel diversivo per trovare uno sfogo: si concentra in un arto, in un’estremità d’arto, in una falangetta, la squassa senza che il resto del corpo se ne accorga, senza che l’alunno ne sia cosciente. Talvolta, quando la mia attenzione si sposta su un altro alunno, quello da cui ho appena ottenuto una replica purchessia, scaricato provvisoriamente di tensione, tornando a guardare attorno a sé scopre con stupore quel suo pezzo d’arto che continua a scuotersi, e gli pare, forse, una creatura impazzita, dotata d’una vita propria: ne blocca allora il movimento, dopo un momento di esitazione, poi cerca subito negli arti dei compagni movimenti analoghi, per trarne consolazione.
Allievi più previdenti corrono ai ripari presentandosi alla cattedra con palline di gommapiuma, che premeranno a ritmo sempre più sostenuto, o con coppie di sferette tintinnanti, che cercheranno di muovere a cerchio nei palmi, senza però riuscirvi, esasperando gli altri e finendo per esasperarsi: li vedo concentrarsi nel gesto, dimentichi quasi dello scopo per cui hanno sottratto le sferette a madri o sorelle, e li sento ribattere con balbettii casuali, persi nella necessità di eseguire prima di tutto l’esercizio di destrezza paziente.
Ma sono le manifestazioni cutanee le più sorprendenti. E non mi riferisco ai pallori improvvisi, o agli improvvisi rossori, o a quel colore terreo che si accompagna spesso a un restringimento degli occhi e a un sigillarsi di labbra che paiono definitivi. Penso piuttosto a quegli alunni – alunne, il più delle volte – che, all’apparenza tranquilli, non agitano dita o piedi, non accumulano bava disseccata ai lati della bocca, non lacrimano come alla notizia d’un lutto: d’un tratto però si coprono, sul collo, sulla gola, di macchiette rosse, che da principio si potrebbero scambiare per irritazioni di pori, o acne, ma ben presto si dilatano, lungo la superficie del collo, fino a toccarsi e a formare un tutt’uno, e sembra a questo punto che vadano alla deriva sulla pelle più chiara come zolle di un continente primordiale. L’interrogato non se ne accorge, resta impassibile – avvertirà forse un lieve brucìo, una sensazione di calore indistinto – ma sul suo collo – e sulle spalle, noto in tarda primavera – un bradisismo incontenibile provoca geografie sempre nuove, che fisso inebetito.
Altri ancora, trattenendo dentro di sé lo sfogo della tensione, si gonfiano. Li vedo arrotondarsi attorno agli occhi e alla bocca, sul collo; le loro dita si dilatano, come per un blocco della circolazione del sangue, e si fanno cianotiche, plumbee. Anche il ventre prende a gonfiarsi, a premere.
Quello che vidi quella mattina, però, sconfinò dai disordini a cui gli anni di insegnamento mi avevano abituato. Chiamai Mantovani alla cattedra, usando, come di consueto, il tono più accondiscendente, e allungando il miglior sorriso del mio repertorio. Mantovani si alzò, con le gote piene di un sospirone represso, e trascinò la sedia troppo piccola per lui fino alla cattedra. Vi si sedette con circospezione, sul bordo, a gambe strette, e attese.
«Tutto bene?» chiesi, e modulai un altro sorriso dei miei.
«Benissimo» disse lui.
Era solo. Mi capita, talvolta, di interrogare un solo alunno alla volta, soprattutto quando il tempo è scarso, il colloquio si annuncia laborioso, la valutazione è decisiva per la media, o semplicemente non sento l’affanno dei tempi troppo stretti, delle inderogabili scadenze della fine del quadrimestre. So che per alcuni la solitudine alla cattedra è un sollievo, perché non impone il confronto con compagni più zelanti, mentre per altri è una sofferenza, una condizione di abbandono in cui non si possono condividere le torture con nessun altro.
«Vuole che venga su qualcun altro a farle compagnia?» chiesi perciò. La frase, che era scherzosa, serviva solo a far percorrere la classe da un brivido di gelo, a ricondurre alla lezione presente quelli che già indulgevano a fantasticare o – con discrezione, certo – si curvavano a studiare altre materie.
Mantovani mi guardò storto, come se gli avessi proposto di tradire un amico.
«Non vuole? Chiamo io qualcun altro, allora?» insistetti, placido.
«No».
«Non si sente solo?».
«No».
«Come vuole».
Aprii il libro, in cerca di ispirazione. Scartai subito alcune domande troppo minuziose, poi altre troppo estese. Ecco, eccone una possibile, ampia, ma non generica – il genere di domanda a cui io, se mi fossi trovato nei panni di Mantovani, avrei voluto rispondere. Gliela porsi con un sorriso, e nel farlo suggerii già mezza risposta.
Lui però reagì sbiancando; per converso, i globi oculari gli si iniettarono di sangue, e le labbra virarono al violaceo. Biascicò qualche parola sconnessa, non del tutto incoerente, sembrò lasciarsi guidare dai miei aggiustamenti, riprender fiato, decongestionarsi; ma al secondo quesito ricadde nella confusione, ammutolì, si avvitò con ostinazione attorno a un concetto sbagliato, si fece aggressivo, e tornò livido.
Gli osservavo le vene del collo rilevarsi, risalire sopra gli zigomi e disegnargli la fronte.
Prima gli si gonfiarono le gote, poi la trachea, poi gli occhi. Gli vidi le mani ingrossarsi come guanti pompati da un compressore, l’addome dilatarsi, il petto espandersi.
I suoi compagni lo osservavano oscillanti tra la curiosità e un residuo di esasperazione. Qualcuno, per la verità, ridacchiava dinanzi a quello spettacolo, ma come di un fatto buffo – un cartello di insulti appeso alle spalle di un ignaro, o una chiazza di urina che si dilata sui calzoni di un fifone.
Quando vidi che Mantovani cominciava a levitare, tentai di afferrargli un braccio.
«Fermo, che fa?» gli dicevo, con il tono più rincuorante.
Quello tratteneva il respiro e non reagiva.
«Dove va? Guardi che non è il caso» insistevo.
Ora lo tenevo per un piede. Il suo capo giungeva a sfiorare la controsoffittatura ingrigita di polvere e decorata di matite, gomme da masticare e chissà che altro. Mantovani s’era gonfiato fino a riempire del tutto la felpa sformata e i pantaloni extralarge, e ora quegli indumenti lo stritolavano e rischiavano di aprirsi in squarci.
«Fermo, non se ne vada!» gli intimai, sempre sotto di lui, quando capii che stava galleggiando verso la finestra. «Chiudete, chiudete!» dissi a quelli dei banchi più vicini. Ma quelli, con un sorriso di scherno, non si mossero, e finsero di studiare su grossi libri che certo non erano della mia materia.
Mantovani ballonzolando si avvicinò alla finestra, batté e rimbalzò sulle pareti e sugli stipiti attorno, poi, prima che potessi chiudere, infilò la finestra e sparì fuori.
Mi guardai attorno: ma gli occhi degli altri allievi sembravano comunicarmi solo una vaga riprovazione.
La stessa espressione vidi nei colleghi a cui, allo scoccare dell’ora, corsi a raccontare della sparizione dell’alunno.
«Tipico» mi disse la Menadritto, di Storia dell’Arte. «Tipico di lui».
«Davvero?» dissi.
«Ci ha provato anche con me, il mese scorso. Ma sono stata svelta a chiudere la finestra, cosa credi?».
Ma qualcosa, un’esitazione lieve nella sua voce, mi fece supporre che mentisse, per non esser da meno di me.
«Però anche tu…» mi bisbigliò Santorsola, di Storia e Filosofia. «Sempre lì, a insistere, a rigirare il coltello nella piaga…».
«Io?».
«Tu, tu. Cosa pretendi da loro?».
«Qualche concetto non peregrino».
«E ti par poco? Non stupirti, poi, se quelli si gonfiano come pustole e spariscono dalla finestra. Al posto loro, farei lo stesso».
«Non dirmi niente, non voglio sapere niente!» reagì invece la Castagnoli Sanza, di Religione. Si raccontava che davanti a lei, l’anno prima, un alunno si fosse dissolto, proprio durante una disamina delle virtù teologali, e non se ne fosse ancora fatta una ragione.
«Ascolta me» mi bisbigliò invece Cannavazza, di Fisica. Mi aveva preso a braccetto e mi tirava lontano dagli altri colleghi che all’intervallo si ammassavano attorno alla macchinetta del caffè. «Due giorni fa scopro che Tosi, giù all’ultima fila, dorme e anzi russa e borbotta nel sonno mentre spiego la legge di Hooke. Lo richiamo, quello si scuote, apre gli occhi, mi guarda inebetito. Che fai, dormi? gli dico. Lui farfuglia qualcosa, i suoi vicini ridono. Che c’è da ridere? mi spazientisco. Niente, niente, fanno loro. Sai quanto mi danno sui nervi quando ridono e non vogliono dire perché. Per farla breve, decido lì per lì di punire Tosi con un’interrogazione alla cattedra, anche se non è giorno di interrogazione. Lo chiamo: Tosi, Tosi! Lui, che si è appena addormentato di nuovo, leva il capo, lo sguardo appannato. Tosi, venga su, insisto. Ormai non posso rimangiarmi la decisione davanti alla classe, non credi? Su, Tosi, su, sveglia! strillo. Lui si alza, si avvicina, si butta su una sedia lasciata libera da un compagno. Comodo? gli chiedo, ironico. Tosi mi guarda, dice: Sono giorni difficili. Proprio così dice. Poi aggiunge: In media un’ora al giorno. Che cosa? chiedo. E lui: L’igiene personale.
«Credo che mi pigli per i fondelli, e lo bersaglio di domande. Lui comincia a farfugliare risposte. Di quello che dice non capisco quasi nulla, se non alcune parole del tutto incongrue, che mi innervosiscono sempre più. Lo insulto. Lui ribatte a occhi chiusi, stravaccato come un sibarita, con una specie di beatitudine da ubriaco nello sguardo. Hai bevuto? Ti sei drogato? gli chiedo di brutto. Professore, non vede? mi dicono allora i suoi compagni, tra le risate: Sta ancora dormendo! È uno che parla e fa cose nel sonno, dicono, in gita non ha fatto chiudere occhio a quelli della sua stanza! Sta dormendo! Allora allungo una mano, per scuoterlo, poi decido di colpirlo sul volto con uno schiaffo – leggero, bada. Lui reagisce al colpo con un’indignazione teatrale, con le mani si protegge il volto come se si aspettasse una scarica di pugni. Tosi, vada a posto! gli grido allora, un po’ per l’esasperazione e un po’ per farmi sentire. Vada, vada a dormire al suo banco! Tosi si alza, barcolla, incespica nei banchi, e mi pare di sentirlo russare mentre seguendo una traiettoria intricata si avvicina poi si allontana poi si avvicina di nuovo e finalmente giunge al suo posto.
«Si ricorderà qualcosa di tutto questo? chiedo al suo compagno, che giocherella con un paio di forbici. No, prof, sillaba lui, e distrattamente si serra il labbro inferiore tra le due lame. Magari gli sembrerà di avere sognato, insisto. No, prof, no, ribatte quello, che ora punta alle proprie narici, guidato da una noia che si intuisce profondissima».
«Interessantissimo» dissi a Cannavazza, «ma permetti che uno studente che si gonfia e sparisce dalla finestra sia più degno di nota di un morto di sonno».
Cannavazza lasciò il mio braccio, e mi fissò ferito.
Venne l’ora di tornare a casa, finalmente. Camminavo scrutando per aria, e cercavo di scorgere tra le nubi basse il corpo di Mantovani, ma non vidi nulla, se non le solite formazioni di taccole, chiassose e incoerenti. Forse, mi dicevo, forse è riuscito ad aggrapparsi a una grondaia, e non ha preso il volo. Forse è sul tetto della scuola, e aspetta di sgonfiarsi per tornare a terra. Forse è già volato a casa, evitando il traffico, e sta raccontando ai suoi la sua versione dei fatti.
«Smetti di stare alla finestra» mi disse mia moglie più di una volta, quella sera. La infastidiva che continuassi a sbirciare sopra i tetti, come se Mantovani fosse stato là fuori, ad aspettare che qualcuno lo tirasse giù.
Mi allontanavo sbuffando dalla finestra, ma, quando lei non mi guardava, tornavo a spiare fuori, furtivo.
Al telegiornale, nessuno fece cenno alla scomparsa del mio allievo.
«Buon segno, no?» rise mia moglie.
«Non vuol dire» ribattei. «Magari non se n’è accorto nessuno, ma Mantovani è ancora là fuori».
«Ti è mai capitata prima una cosa del genere?» mi chiese dopo cena, mentre le massaggiavo i piedi sul divano.
«No, non proprio. Qualcuno forse si è alzato di poco, dalla sedia, ma di poco, appunto, e non saprei se è stata una mia impressione o se è accaduto davvero».
«Si gonfiano. Tu li interroghi, e loro si gonfiano».
«Così pare, anche se…».
«Test».
«Scusa?».
«Smetti di interrogare, e passa ai test scritti. Vedrai che nessuno si gonfierà più».
Ci avevo già pensato per conto mio, quel pomeriggio, ma feci una faccia perplessa, per non dargliela vinta.
Ma quella notte, svegliatomi di scatto, scorsi Mantovani aleggiare come una vescica piena d’elio nella mia camera, ai piedi del letto.
«Che fa lì?» bisbigliai, per non svegliare mia moglie.
«Prof, so le risposte» cantilenava lui, «so le risposte, quelle giuste».
«Buon per lei. Ma non qui, e non ora».
«Adesso, adesso. Dunque, allora…».
«Mantovani, la prego».
«Lei professore, ce l’ha su con me» disse quella vescica, con la stessa cantilena.
«Ma no, non è vero».
«È vero, lo notano in tanti».
«Ma no, ma no» cominciavo a cantilenare anch’io.
Mantovani galleggiava per la stanza, nella penombra, curiosando attorno, annusando. Indugiava a rovistare tra la biancheria che avevamo sparsa un po’ a caso la sera prima, nella fretta di coricarci al caldo.
«Cerca qualcosa?» gli dissi.
«No, no. Se lasciassi in giro le mie mutande come fa lei, mia madre mi ammazzerebbe».
«Be’, il disordine è uno dei diritti della maggiore età. Ci arriverà anche lei, se studia».
Mantovani prese a farmi boccacce, con lo scopo – credo – di spaventarmi. Ma io, che mi sentivo al sicuro dentro un sogno, non gli diedi soddisfazione. Dopo alcuni tentativi smise e fissò mia moglie.
«Chi è quella, la sua ganza?».
«Mia moglie».
«Non sapevo che era sposato».
«Fosse, Mantovani. Non sapevo che fosse sposato».
«Comunque. Carina. Dorme?».
«Lo vede bene che dorme, Mantovani».
Lo sguardo gli si illuminò di un’espressione bieca. «Com’è nuda?».
«Oh, ragazzino! Domani a scuola facciamo i conti!».
«Domani mi do malato. Sua moglie nuda, dicevamo…».
«Ehi, stia fermo con le mani!».
Mentre strabuzzava gli occhi su mia moglie, si stropicciava i genitali.
«Non posso, non posso fermarmi!» tornò a cantilenare. «È uno dei diritti dell’adolescenza! Mi lasci fare, non mi ci vorrà molto!».
«Smetta, o la boccio!».
«Per così poco, professore!» cantilenava lui, preso in uno svolazzare altalenante.
La mattina dopo, come era prevedibile, Mantovani non si presentò. Chiesi se qualcuno lo avesse visto – e questa frase fece sorridere alcuni alunni, che si misero a fissare il soffitto, in una parodia di trasognatezza. Per due ore, così, mi soffermai su spiegazioni puntigliose e tornai su vecchi concetti che non meritavano di essere riesumati. Man mano che mi addentravo nella discettazione, guidato da un rassicurante senso di routine, tornai a pensare che da sempre le mie lezioni trattano di persone morte: e non solo quelle dei secoli andati, che definir morte è perfino eufemistico, ma anche e soprattutto quelle che quand’ero giovane vivevano ancora, scrivevano, studiavano e pubblicavano, o comparivano in televisione, in bianco e nero. Tutte morte, anche quelle che mi ostino a citare con una sorta di pudico affetto a studenti che non le hanno mai sentite nominare. Morte, tutte, mi dicevo, rabbrividendo.
Dopo quelle due ore indugianti, era giunto il momento dell’interrogazione. Lo temevo forse io più di loro, gli studenti. Ne chiamai due alla cattedra. Una ragazza impallidì subito, l’alito le si fece fetido, le vene presero a gonfiarsi bluastre sotto la pelle esposta. Avrei potuto giurare di vederle cadere i capelli, le sopracciglia, le ciglia anche. L’altro alunno fu semplicemente colto da una dissenteria che lo fece uscire a precipizio tre volte, dopo avergli provocato orribili ribollimenti nell’addome. Poiché rischiava di passare sulla turca del bagno dei maschi la maggior parte dell’ora, decisi di verificarne la preparazione per telefono, dopo essermi accertato che non si fosse portato dietro nessun libro o quaderno di appunti. Lo misi in viva voce, in modo che potessero ascoltare tutti. Le sue risposte strozzate, mescolate a mille altri rumori, mi furono sufficienti per formulare un giudizio.
Ma forse, ragiono oggi osservando mia moglie, c’è una spiegazione a tutto questo, e non sta tanto nella predisposizione degli altri a reagire in vari modi alle mie domande, ma in me – in ciò che chiedo, nel come lo chiedo, nella mia voce, insomma. Mia moglie mi rimprovera, talvolta, con quel tono leggero che potrebbe essere solo scherzoso ma anche solo apparentemente scherzoso – mi rimprovera di essere inquisitorio anche durante le normali conversazioni fuori da scuola: con garbo mi accusa, senza dimenticare di sorridere, di interrogare i miei interlocutori. Riconosce che non lo faccio apposta, e parla di deformazione professionale, vergognandosi anche un po’ di usare un’espressione tanto trita. La prima volta che me lo disse, ci rimasi male, giacché mi ero sempre vantato di saper tenere separate scuola e vita, e di essere un uomo vivo prestato alla scuola, più che un insegnante ora in servizio ora fuori. Con il tempo, però, e su suo invito, non ho più potuto ignorare che sì, converso come se tenessi una lezione, e talvolta mi interrompo a metà di una frase, quasi volessi saggiare la capacità altrui di continuare, di completare. E talvolta – lo ammetto, visto? – pongo domande di stile inquisitorio, anche a lei, anche – per dire – a letto, a pranzo, o mentre uno lava i piatti e l’altro li asciuga. Lei ne ride, come di un mio difetto che mi rende buffo: ma altri, meno in intimità con me, ne sono rimasti urtati, e hanno finito per non parlarmi più.
Ecco, quando parlo, quando chiedo un’informazione o un parere, qualcosa nel tono, o nel timbro della mia voce, qualcosa di nascosto nel ricciolo ascendente dell’intonazione che si fa interrogativa, nell’onda vibrante che si fa strada nella mia laringe provoca una reazione fisica inaspettata: un gonfiore, appunto, o un rossore; movimenti inconsulti degli arti, tremolio di pupille, essiccazione delle fauci, essudazione, forse necrosi di parti periferiche.
Insomma, sto provando da più di un’ora a suscitare in mia moglie questo genere di reazioni: parlo del più e del meno, mentre entrambi leggiamo in poltrona, e qua e là, con simulata occasionalità, insinuo una domanda, o lascio in sospeso una frase. Mia moglie mi presta attenzione, anche se è evidente che preferirebbe non essere interrotta nella lettura del suo libro: e noto che ad ogni quesito, ad ogni sospensione il suo corpo ha dei lievi moti. Un occhio distratto potrebbe attribuire questi moti appena percepibili a dei naturali assestamenti degli arti o a un flettersi dei muscoli, ma io sento che si tratta invece di effetti consequenziali. Solo la decennale dimestichezza impedisce a mia moglie di reagire in maniera più scomposta, come fanno i miei alunni quando li interrogo, o come certi sconosciuti, che quando mi sentono parlare mi fissano smarriti, e si sentono inspiegabilmente torcere.
«Ora basta, però» mi impone con una certa dolce impazienza ad un tratto.
«Basta?».
«Lo stai facendo apposta».
«Dici?».
«Mi fai ballare le palpebre. Smettila, non è piacevole».
«D’accordo. Scusa».
Scuote la testa, come se avesse a che fare con un bambino, e riprende a leggere. «Fallo con tua madre, se proprio ci tieni».