Qualcosa da finire
di Luca Martini

Ha detto di chiamarsi Roberto, o Alberto, già non me lo ricordo più.
Mi ha stretto la mano con energia senza nemmeno guardarmi in faccia e ha biascicato le lettere del suo nome con la freddezza di chi vende qualcosa di indispensabile, senza far caso a chi compra, perché tanto sa che comprerà lo stesso.
Io, dal canto mio, mi sono messo a fissargli le scarpe. Nere, lucide, pesanti, come le carni che mi porto addosso da un mese a questa parte. Anche il vestito che gli tirava all’altezza dell’addome era scuro, un grigio senza vita che si adattava perfettamente sia alle sue calzature che al mio umore.
Aveva una mano grande e dura, di chi non è abituato a lavorare in giacca e cravatta.
Ci siamo seduti tutti attorno a un tavolo rettangolare, nella saletta della televisione, senza chiudere la porta. Parlava a voce bassa, come se le sue parole potessero svegliare qualcuno.
Dopo che abbiamo iniziato a parlare una donna senza un’età precisa ha cercato di entrare nella saletta della tv, forse per riposarsi o per ingannare il tempo. Ma quando ci ha visti tutti lì, seduti intorno all’uomo nero, si è subito premurata di uscire, scusandosi a mezza voce di qualcosa che non ho capito. Eravamo io, mia madre, mia sorella e Irene.
Mi sono preso il compito di parlare per tutti. L’ho fatto d’istinto, per attenuare la luce scura e fastidiosa che quell’uomo emanava. Ho cercato di sorridere, di mettere a proprio agio Roberto o Alberto, e sono stato capace di tenermi il sorriso stampato sulle labbra per minuti interminabili. E mentre lo facevo faticavo a seguire i suoi discorsi burocratici.
Poi, mentre stavo scivolando in una indolenza spessa come l’orrore del momento che mi toccava vivere, è comparsa un’infermiera sulla soglia. Ha impugnato la maniglia e, dopo aver sorriso di circostanza, ha cambiato faccia.
«Scusate, chiudo la porta», ha detto parlando con una voce profonda, quasi maschile.
Solo a quel punto me ne sono reso conto.
Guardavo la porta, mentre l’uomo nero continuava a parlare sfogliando vecchi fogli ingialliti battuti a macchina. Fissavo la maniglia, quando ho avvertito dall’altra parte, nel corridoio, un rumore di ruote che cigolavano, di qualcosa senza peso che saltava sulle giunture delle piastrelle.
Ho capito che stavano portando via il corpo senza vita di mio padre.
Ho immaginato l’incedere lento della barella, tra medici annoiati e parenti buttati fuori dalle camere, che si facevano il segno della croce e assistevano in anteprima al film che avrebbero vissuto anche loro di lì a poco. Mi pareva di vedere il lenzuolo bianco steso sul suo viso giallastro, lasciato ampio, in modo da non farlo aderire a quei lineamenti che la malattia, più veloce di una gioia inattesa, aveva reso appuntiti e aguzzi.
Il suo naso, i suoi denti finti, i suoi occhi perduti, l’espressione mite, i capelli radi.
Sotto quel lenzuolo c’era quello che era rimasto di mio padre e qualcuno di cui ignoravo il volto lo stava portando via per sempre.
Dopo qualche istante la stessa infermiera di prima è tornata e ha aperto la porta, accennando un sorriso al mio indirizzo, qualcosa di diverso, stavolta, un sorriso di pietà, la cosa più umana che avessi visto da un mese a quella parte.
Intanto l’uomo nero aveva tirato fuori dalla borsa di pelle un grande catalogo fotografico.
«Come la facciamo la bara?»
«Cosa?»
«Come la volete la bara? Ce ne sono tante, tutte verniciate ad acqua e tutte ignifughe», si è premurato di rassicurarmi. A quelle parole ho sorriso. Dentro di me ho pensato: che significa ignifuga? Mio padre vuole essere cremato, che me ne faccio di una cassa antifuoco?
Io e mia sorella abbiamo scelto quella di noce scuro, la più semplice, mentre mia madre continuava a singhiozzare tra la braccia di Irene, che la sosteneva e l’ha sostenuta per tutto il tempo in cui mio padre è rimasto in ospedale. Se non ci fosse stata lei non credo che mia madre ce l’avrebbe fatta. Si conoscono dai tempi dell’università e insieme hanno condiviso tante cose. Ora Irene le rendeva l’affetto che tre anni prima mamma le aveva donato, fondendosi al suo dolore per la morte del marito. Mi sono incantato a spiare mia madre avvolta nel suo dolore più intimo, quello che non manifestava con i singhiozzi o le parole ma con le mani che rimestavano nel vuoto, attraverso strani movimenti senza senso, come se fosse alla ricerca di una stretta che di colpo era divenuta impalpabile. Non era rassegnata, era perduta. Ed è allora che ho compreso la sua fortuna, quella di aver avuto la possibilità di perdere tutto: amore, speranza, fatica. Già, una possibilità, quella che mio padre le aveva concesso dormendo ogni sera al suo fianco per tanti anni. Ho abbassato la testa e mi sono toccato d’istinto l’anulare, a rigirare quella fede che non c’era più ma che sentivo ancora stretta attorno alla pelle, e che un segno bianco mi avrebbe ricordato per sempre, un tatuaggio di quella che un giorno era stata una vita compiuta.
Mia sorella era una statua. La sua apparente freddezza era esemplare, forse esagerata. Non si scomponeva, non si lasciava andare allo sconforto, non parlava. Indicava a mia madre dove firmare, annotava gli orari e le cose da fare per il funerale su un taccuino e prendeva pure nota delle spese da sostenere. Non credevo avrebbe reagito così ma, in fondo, capivo che non la conoscevo affatto. Dietro di me un albero di Natale non ancora disfatto mi ricordava il regalo appena ricevuto. Prima di finire di compilare i moduli Irene ha appoggiato sul tavolo un caffè preso alla macchinetta automatica e insieme al bicchierino di plastica mi ha portato anche una carezza inattesa.
Dopo aver parlato per quasi un’ora l’uomo nero si è alzato e ci ha dato appuntamento al giorno seguente.
«Un abito scuro andrebbe benissimo».
«Le faccio avere il vestito del matrimonio», ha detto mia madre.
«Perfetto», ha risposto Alberto o Roberto, ma io dentro di me sapevo che non era possibile. Ricordavo le foto di papà sull’altare, pesava almeno cento chili. La malattia gli aveva ridotto il corpo della metà. Ma sapevo come fare. Avrei dato un Tavor a mia madre, l’avrei fatta riposare e nel frattempo, insieme a mia sorella, avremmo cercato il vestito più striminzito di mio padre. Scuro, ovviamente, ma quello non era un problema visto che mio padre possedeva soltanto abiti scuri.
Quando se n’è andato, l’uomo nero ha ripetuto lo stesso rituale di quando è entrato: ha fatto il giro delle condoglianze, ci ha salutato e ha stretto la mano a tutti, sempre quella mano, sempre quei calli duri e fastidiosi. Stavolta, però, mi ha guardato negli occhi.
«Se domani con il vestito riesce anche a farmi avere un acconto gliene sarò grato».
Lo sapevo che c’era un motivo.
Io e mia sorella siamo arrivati alla camera mortuaria la mattina dopo, quando le dieci erano passate da pochi minuti. Io avevo portato con me la borsa da viaggio di papà. Dentro ci avevo messo l’abito blu da vice direttore di banca, la camicia azzurra e la cravatta commemorativa dei venticinque anni di servizio che amava tanto. Mia sorella è andata a parlare con gli infermieri per accordarsi sulle modalità della cremazione. Io, invece, sono rimasto seduto davanti alla porta della camera dove mio padre giaceva a fissare il laccato bianco degli stipiti. Alle dieci e trenta è arrivato l’uomo nero, gli ho dato la borsa di papà e una busta con l’acconto che mi aveva domandato.
«Grazie. Ora parliamo della cremazione».
«No, guardi, ci sta pensando mia sorella, ne parli con lei».
Ha annuito e ha fatto per entrare nella camera mortuaria.
«Posso vederlo?»
Il pensiero mi ossessionava.
Sono andato a trovare mio padre ogni giorno per ventinove giorni, tutto il tempo del suo ultimo ricovero. La mattina in cui se n’è andato con lui c’erano mia madre e mia sorella. Poco prima delle dieci mi hanno telefonato, dicendomi di fare presto che la fine era vicina. Io ero al lavoro, nel bel mezzo di una inutile riunione, ma ho mollato tutti e ho cercato di fare prima che potevo. Purtroppo sono arrivato tardi. Mamma era disperata e mi ha abbracciato in mezzo al corridoio, davanti alla porta della camera di papà, e io ho iniziato a singhiozzare. Mentre la stringevo tra le braccia guardavo mia sorella che si teneva la mano destra sul viso. Ho cercato con gli occhi di chiederle se era davvero così e lei, senza nemmeno rispondermi, ha abbassato le palpebre.
Quel pensiero mi ossessionava. Non esserci stato quando papà abbandonava ciò che rimaneva del suo corpo mi faceva sentire male. Non l’avevo visto, non avevo nemmeno avuto il coraggio di entrare e di guardarlo esanime sul letto, e non riuscivo a perdonarmi per questo. L’unica cosa che avevo visto e toccato con le mani era stato il letto, l’impronta giallastra che le sue povere membra avevano impresso nel materasso sfondato. Un avvallamento disperato, una depressione dolorosa, un giaciglio senza futuro.
«Se vuole. Ma non è ancora stato preparato».
«Non importa».
Mi ha aperto la porta e mi ha fatto entrare dentro la camera mortuaria.
Ho deglutito, stretto gli occhi e dischiuso le labbra. Lui ha sollevato il lenzuolo e io me lo sono trovato davanti, nell’espressione che ha assunto quando ha esalato l’ultimo respiro.
Nonostante tutto, non ero ancora pronto a quello spettacolo straziante.
Il viso era tutto macchiato e sembrava respirare ancora.
Non era mio padre quello, non gli assomigliava nemmeno. Continuavo a guardarlo senza riconoscerlo, senza ricordarmi nemmeno come fosse prima di ammalarsi. Allora ho tirato fuori dalla tasca della giacca una fotografia di qualche anno prima e un paio di occhiali da vista. Era sereno, ritratto in vacanza, con la camicia di jeans e le dolomiti a fare da sfondo alla sua pace un poco triste. Muovevo lo sguardo dall’istantanea alla salma, in un ping pong di occhiate incredule.
Continuavo a non riconoscerlo.
«Posso metterglieli?»
«Certo», mi ha risposto l’uomo nero indicandomi con la mano il corpo di papà.
Così mi sono avvicinato, facendo attenzione a non toccare la sua pelle per evitare di sentirne il gelo, e gli ho infilato gli occhiali.
Ecco, finalmente c’era qualcosa che mi ricordava papà.
Ho recitato un Padre Nostro e ho fatto cenno all’uomo nero di coprirlo. Gli ho dato la foto, che avrebbe usato per il santino, poi gli ho preso il braccio con energia, strattonandolo verso di me. Lui si è spaventato.
«Fate in modo che assomigli all’uomo che era in questa foto», gli ho detto con un tono che era più una minaccia che una richiesta.
«Non si preoccupi», mi ha risposto posando la sua mano sulla mia. Ho lasciato la stretta e ho dato le spalle a mio padre. Sono rimasto fermo in quella posizione per qualche minuto, incapace di muovermi, stanco e pesante come un macigno.
Quando sono uscito dalla camera mortuaria ti ho vista seduta sulla panca, da sola, circondata dalla luce come se fossi sul palcoscenico di un teatro.
«Sara».
Tu non sapevi cosa dire. Tenevi le mani in tasca e ti sei accorta subito che non stava bene. Allora le hai sfilate e hai cercato di usarle per venirmi incontro, come per aggiustare un ponte che era stato interrotto da un guastatore nemico.
«Mi dispiace, Guido, l’ho saputo soltanto stamattina».
Ti ho abbracciata con la curiosità di un diciottenne che accarezza per la prima volta una ragazza che desidera da tempo.
«Non dovresti essere a scuola?» ti ho domandato scostandomi dal montone che avevo già segnato con le ossa sporgenti delle mie mandibole.
«Ho preso un giorno di malattia».
Ho guardato i tuoi occhi e ho ripercorso i mesi che ci hanno visti distanti, separati senza preavviso da una cena come le altre.
«Come sta Marcello?»
Hai respirato forte e hai girato lo sguardo verso la porta della camera.
«Non stiamo più insieme».
Non ho commentato, ma dentro di me ho gioito, con quell’ultima parte della mia anima ancora sensibile all’amore, la stessa che vent’anni fa ci ha portati insieme sull’altare. Faceva caldo quel giorno, così come oggi fa un freddo cane. Ho pensato che i nostri testimoni di nozze si sono tutti separati e mi è venuto da sorridere. Ma non l’ho fatto.
Mia sorella è comparsa sulla porta con il giaccone già allacciato. Ti ha salutata in fretta e mi ha fatto cenno di seguirla, indicando con l’indice l’orologio.
«Devo andare, devo svuotare l’armadio della stanza di papà e raccogliere le sue cose».
«Vuoi che venga con te?»
L’hai detto senza pensarci, con la spontaneità decisa che mi ha fatto innamorare di te. Ho fatto di no con la testa e ti ho sorriso con il capo inclinato sulla destra, per inquadrare al meglio la tua figura.
Mi servivi come l’aria che mancava in quella camera fredda, senza speranza.
«Guido».
Mi sono fermato, aspettando le tue parole.
«Posso telefonarti?»
Ti ho detto di sì e ho abbozzato una smorfia di pianto. Tu mi hai stretto la mano, e quando l’hai fatto ho sentito una scarica elettrica traversarmi il corpo. Ho ricacciato indietro le lacrime e ho guardato la tua spalla, quella su cui poco prima mi ero appoggiato. Ci ho visto riflessa la mia radiografia, un’immagine impressa con chiarezza, proprio sul tuo giaccone: le ossa rotte, niente di incurabile. Ti ho puntato lo sguardo negli occhi e ho avuto la certezza che tra noi c’era ancora qualcosa da finire.
Quando sono uscito stava incominciando a nevicare.
Ti ho vista camminare da dietro, diventare sempre più piccola, entrare nel parcheggio, salire in macchina, quell’automobile che io ti avevo regalato e della quale volevi liberarti non appena fossi andata via di casa. Mi ha fatto piacere sapere che non l’avevi fatto. Mia sorella è andata in macchina a prendere una sacca vuota e io sono rimasto lì, sui gradini, da solo.
Ho sentito la testa svuotarsi, ho incominciato a muoverla seguendo la neve che cadeva senza fretta.
Ho fissato il cielo carico di ghiaccio e ho pensato alle scarpe che avrei messo al funerale di papà.

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