Elogio di Scott e Zelda
di Monica Dall’Olio

Con grande stanchezza un giorno le chiese con parole diverse: “E allora dove te ne vai, da che parte?”. “ Verso la vita,” disse lei, “Verso la vita”.
Scott e Zelda s’incontrano al Country club di Montgomery, in Alabama. Scott è un sottufficiale dell’esercito americano che è acquartierato al campo Sheridan; aspetta l’ordine d’imbarco per l’Europa. Ma è l’estate del 1918 e la grande guerra finirà prima. Zelda ha diciotto anni, Scott ventitré.
Zelda è una ragazza che non vuole “pensare alle pentole e alla cucina”. Vuole avere “le gambe lisce e abbronzate per andare a nuotare d’estate”. Zelda “vuole quello che vuole quando lo vuole”. Scrive, dipinge, sfila come modella. Ogni volta che una qualsiasi ragazza dell’alta società decide di abbagliare il mondo, scrive Scott, a Broadway c’è un fiasco in vista.
Scott è di St.Paul, Minnesota; la madre è una cattolica irlandese, il padre un gentiluomo del Sud. A St.Paul, casa Fitzgerald è nella strada dei ricchi, là dove il selciato degrada verso un quartiere più modesto. Una casa al di sotto della media su una strada al di sopra della media, scrive Scott, che a St.Paul è un eroe del rugby. È per il rugby che sceglie l’università di Princeton. Ma quasi subito, dopo l’ammissione, si frattura una caviglia e dalla squadra si deve dimettere.
Scott ha scelto Princeton anche perché quella è la scuola dei “signori”: Francis dice che se ne vuole andare per mettere alla prova la sua personalità con un mucchio di gente nuova. A Chicago s’innamora di Ginevra King, la ragazza più popolare della città. I due hanno un flirt, poi Ginevra sposa un altro.
Scott viene bocciato a un esame di storia per una insufficienza su Napoleone; l’università lo espelle. Accusa il colpo. Negli anni a venire, accumulerà nella sua biblioteca personale oltre trecento volumi che hanno come argomento il generale francese.

Pochi mesi dopo, durante il soggiorno a Montgomery, Scott conosce Zelda. Finisce il servizio militare e si fidanza con lei: bianchi lunghi guanti che lacrimavano dalle sue braccia. Con i trenta dollari che la rivista “Smart Set” gli paga per la pubblicazione di un racconto, Scott le regala un ventaglio di piume viola.
È di questi anni la foto che lo ritrae coi capelli bagnati di brillantina, mentre sfiora la mano di Zelda. Lei indossa una collana di minuscole perle, si stringe nel collo del cappotto bordato da una striscia di pelliccia bianca. Sempre un luccichio di cold cream sotto i suoi occhi, di rossetto umido sulle labbra… Hanno le facce piene, gli sguardi un po’ smarriti come di solito negli adolescenti.
Scott ha scritto un romanzo. Lo invia agli editori, ma questi lo respingono; accumula un totale di centoventidue rifiuti. Zelda rompe il fidanzamento. Deve essere una donna franca e leale, se per farlo deve mettersi a ringhiare con chiunque, scrive Scott. Che dopo la rottura con Zelda, rimane ubriaco per tre settimane. Torna a St.Paul, riscrive il romanzo, gli cambia il titolo: “Di qua dal paradiso”. Un editore lo accetta. “Non posso pagarla molto”, disse il direttore all’autore, “ma posso farle della buona pubblicità”. “Non posso pagarla molto”, disse l’inserzionista al direttore, scrive Scott, “ma posso darle dei bellissimi annunci”. Pochi giorni dopo l’uscita del libro, Scott sposa Zelda. Il romanzo vende quarantamila copie in un anno.

Scott e Zelda abitano a New York, giorni e notti della metropoli tesi come fili di telefono cantanti. All’improvviso sono diventati ricchi e famosi. Attraversano la Quinta Avenue salutando dal tetto dell’auto scoperta, gettando manciate di soldi ai passanti. Se ne vanno a zonzo per Manhattan con indosso dei ridicoli pantaloni alla zuava bianchi. Fanno cose pazze, insensate, che forse si fa fatica a capire, ma che ai ragazzi come loro piacevano un sacco. I ragazzi americani avrebbero tutti voluto essere come Scott e Zelda, perché facevano quello che volevano quando volevano; sembravano destinati a essere per sempre liberi e invincibili. Se ne andarono a dormire tranquillamente sul dolore altrui, scrive Scott.
Una foto di quel periodo li ritrae in abito da sera. Scott in smoking e papillon tiene in mano il cappello alla rovescia; Zelda, vestita di bianco, incrocia sul grembo le piccole mani nodose. Sullo sfondo, s’intravede la scalinata di un palazzo signorile, il foyer di un teatro forse.
In pochi anni, Scott e Zelda attraversano l’Europa: Francia, Italia, Inghilterra. Ritornano negli Stati Uniti. A St.Paul, Zelda dà alla luce Frances Scottie. Ma nel Minnesota resistono poco tempo. La rozza cittadina era come un gran pesce appena tratto dalle acque del Mississippi e ancora guizzante e saltellante sulla riva. Si stabiliscono a Long Island. Nella casa di Great Neck organizzano delle megafeste.
Le parole che meglio descrivono quello che, in quegli anni, succedeva intorno a loro, sono le famose battute pronunciate da Scott e Hemingway. Penso che i ricchi siano diversi da noi, dice Scott. La sola differenza è che hanno i soldi, replica Hemingway. Parole, queste, che qualcuno sostiene furono in realtà pronunciate dalla scrittrice irlandese Mary Colum, durante una cena comune ai due scrittori. Ma questo non ha importanza; perché anche se fossero estranee alla storia di Scott e Zelda, sono parole che minutamente descrivono l’atmosfera che si respirava a Great Neck. Quando compera le sue cravatte, scrive Scott, deve chiedere se il gin le stingerà.
C’è una foto di quegli anni che ritrae Scott, Zelda e Scottie in salotto. Posano davanti all’albero di Natale. Si tengono per mano e slanciano una gamba di lato, coordinando il movimento come le ballerine di fila a teatro. La faccia di Scott appare gonfia. Zelda ha un bouquet di fiori appuntato alla maglia e le calze di seta lucida. Scottie si morde un labbro imbronciata; con una mano si afferra il lembo del vestito. I regali sono a terra, sparpagliati sotto l’albero addobbato. Sembrano una famiglia normale, una famiglia che fa venire in mente gli ultimi dolci rimasti sul piatto.

Le due storie fondamentali di tutti i tempi sono Cenerentola e Jack l’uccisore di giganti, scrive Scott, lo charme delle donne e il coraggio degli uomini.
Ripartono per l’Europa; si stabiliscono a St-Raphaël, sulla Costa Azzurra. I soldi cominciano a scarseggiare; è l’inizio della fine, ma loro non lo sanno ancora. Scott lo intuisce appena. Quel settembre 1924 seppi che era successo qualcosa, scrive, che non si sarebbe mai potuto riparare. Zelda lo ha tradito con un giovane aviatore. Ora è tutto così inutile come ripetere un sogno, scrive Scott.
Esce “Il grande Gatsby”; è un successo. Scott è acclamato come l’ultimo dei grandi romanzieri americani. Hollywood gli offre sessantamila dollari per un soggetto. Riprendono a viaggiare. Vivono tra i Pirenei, Lione, Marsiglia, Capri, Pisa, Roma, Genova, Parigi, Antibes. Scott beve, finisce arrestato per ubriachezza molesta. Ritornano negli Stati Uniti: Washington, California, Messico, Texas. Affittano una villa immensa che si affaccia sul fiume Delaware. Sembra esserci sempre una persona sorda in ogni stanza in cui mi trovo ora, dice Scott. Guadagna duemila dollari a racconto ma i soldi non gli bastano mai. La sceneggiatura che ha scritto per Hollywood si è risolta in un flop colossale.
Ripartono per l’Europa. Genova, Nizza, Parigi, Cannes, ancora Parigi, St-Raphaël. Nel Ventinove, l’anno del crac di Wall Street, Scott e Zelda sono di passaggio in Africa: Algeri, Biskra, El-Kantara. Non mettetevi in testa che l’America sia un grande paese solo perché possiamo fare indossare a un mucchio di studenti di scuola media la tuta da ginnastica, scrive Scott, e far loro sillabare “banane” per i cinegiornali. La vita di Scott e Zelda gira a vuoto.
Una foto li ritrae in macchina. Scottie, di pochi anni, siede al volante. Zelda mostra un viso aperto, pelle lattea, gli occhi s’intravedono appena nascosti sotto il cappello. Sul cofano dell’auto sventola una bandiera americana. Nel paesaggio sullo sfondo c’è uno specchio d’acqua immobile. Era un lago a forma di tazza da tè, scrive Scott, con un fondo di ninfee e una liscia superficie di crema verde.
 Un’altra immagine li riprende in piedi sul ponte di una nave. Scottie stringe una valigia con sopra stampato un adesivo. Zelda tiene in grembo una bambola di pezza vestita alla marinara. Scott sorride, smagrito, i lineamenti affilati.

Zelda decide che vuole diventare ballerina. Prende lezioni di danza, ma lo sforzo fisico al quale sottopone il suo corpo non più giovane è troppo pesante: ha un collasso nervoso. La ricoverano nel sanatorio svizzero di Montreux; ne esce pochi mesi dopo. Corre l’anno 1931, giù nella profonda camera blindata della terra. Zelda e Scott ripartono verso altre destinazioni europee: Annecy, Monaco, Vienna, Parigi, Digione, ancora Parigi, infine Montgomery.
Muore il padre di Zelda. Zelda ha il secondo collasso nervoso. La trasferiscono nel sanatorio di Baltimora. Scott va ad abitare con Scottie a Rodgers Forge.
Scott non lo sa, ma nel frattempo Zelda ha scritto un romanzo. Di nascosto da lui, ha spedito il manoscritto al suo agente. Piccoli occhi neri abbottonati alla sua faccia: quando Scott lo apprende, s’infuria. Perché Zelda ha usato dei personaggi che compaiono anche nel romanzo al quale sta lavorando, il romanzo nel quale ripone ogni promessa, che deve risollevarlo dalla crisi. Solevo portarti a uno stato di nervosa eccitazione che assomigliava vagamente all’intelligenza, scrive.
Ottiene da Zelda alcuni tagli e il romanzo viene pubblicato. Sulla copertina, due burattini-danzatori volteggiano sopra un campo fiorito che forse è la cresta del mondo; un globo frastagliato del quale si vede solo la cima coperta da un cielo arancio. Vacillarono bruscamente e fanciullescamente insieme, scrive Scott.
Zelda esce dal sanatorio e partono per le isole Bermuda, il vento che frugava le mura alla ricerca di vecchia polvere. Zelda si dedica alla pittura. Il romanzo di Scott, “Tenera è la notte”, vende solo quindicimila copie. Zelda ha un terzo collasso nervoso. Avrebbe voluto strisciargli in tasca ed esservi al sicuro per sempre, scrive Scott di lei. E Zelda entra per sempre in sanatorio.

Scott viene colpito da un attacco di tubercolosi.
È un male, questo, che da sempre lo tormenta. Beve molto. Negli articoli scritti per la rivista “Esquire”, dichiara di sentirsi un fallito; Hollywood lo tiene a distanza. Scott cade e si frattura una spalla. Una notte scivola in bagno; rimane a lungo svenuto nella vasca, si ammala di artrite. Il confuso mondo visto da una giostra messa su; la giostra si fermò di botto, scrive Scott.
In sanatorio Zelda disegna bambole di carta; le taglia, ricavandone delle sagome giocattolo per Scottie. Una rappresenta una donna che le assomiglia, con indosso solo la biancheria intima. Un’altra ha sembianze maschili, il viso di Scott. Per questa bambola, Zelda s’inventa dei vestiti. Uno è il corpo della Nike di Samotracia, con indosso una camicia maschile, le ali che si allungano sulle spalle: sotto la cintura ricade la veste drappeggiata della Nike.
La MGM mette Scott sotto contratto per diciotto mesi. Richiamo per uccello: che, che, che mangi? Scott smette di bere. Lavora a diverse sceneggiature. Quella che gli sembra la più riuscita viene alla fine smontata e riscritta dal produttore. Scott ricomincia a bere. Beve di seguito per tre settimane; lo ricoverano in crisi etilica.
A Hollywood per lui non c’è più lavoro. Il nostro motto è “far fuori chi genera la feccia”. Comincia un nuovo romanzo, s’interrompe. Scrive dei racconti. Scrive lo scenario di “Babilonia rivisitata”. Si fissa in testa che vuole sceneggiarlo per l’attrice Shirley Temple. Shirley Temple dice che non ha alcuna intenzione di interpretare il film. Scott riprende a bere. Mandate su in stanza un fattorino grassoccio e una frusta, scrive.

Chiunque dotato di un certo talento è capace di esprimere l’azione o perfino l’emozione, separata dalle attività del suo tempo, scrive Zelda, ma presentare la maturazione di una tragedia umana prodotta dalle condizioni sociali è una grande impresa. Per me, tu l’hai fatto bene, scrive Zelda a Scott.
Ella non sarà mai capace di costruirsi una casa, scrive Scott di Zelda, guidata, comandata, organizzata dall’esterno, è un individuo utilissimo, ma la sua idea e il suo fine dominanti sono la libertà senza responsabilità, che è come l’oro senza il metallo, la primavera senza l’inverno, la gioventù senza la vecchiaia. La sua compagna, da quando Zelda è entrata in sanatorio, è Sheilah Graham, giornalista mondana.
Nel novembre del 1940 Scott ha un attacco di cuore. Smette di bere. Sta male. È costretto a letto; ma deve finire il suo ultimo romanzo, una storia ambientata a Hollywood. Scrive incalzato, sapendo di essere alla fine. Muore il 21 dicembre. La salma rimane qualche giorno in obitorio; nessuno va a riconoscerne il corpo. Congratulazioni per il brillante sfoggio di natura umana!
Otto anni dopo, al sanatorio dello Highland Hospital di Asheville, dove Zelda è ricoverata, scoppia un incendio. Il corpo sfigurato di Zelda viene recuperato sotto le macerie. Tutti i miei personaggi si uccisero a vicenda nel primo atto perché non riuscivo a trovare altre battute bieche da far dire loro, scrive Scott.

“Bene, che cosa vuoi fare”.
“Baciarti”.
“Sono tutta sporca”.
“Non baci gente quando sei tutta sporca?”.
“Io non bacio la gente. Sono nata prima di quella generazione. Ti troveremo una ragazzina che potrai baciare”.
“Non ci sono ragazzine carine. Tu sei l’unica che mi piace”.
“Io non sono carina. Sono una donna difficile”.

 

* Il testo in corsivo è tratto da I taccuini di Francis Scott Fitzgerald (Einaudi, 1980).

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