Quando pensi a una ragazza, quando ci pensi così tanto che ti dimentichi di tutto il resto, quando ci pensi senza sosta e ripeti di continuo il suo nome, perdi ogni istinto di sopravvivenza.
Ti succede, quando pensi così tanto a una ragazza, di essere distratto, terribilmente distratto. Inizi dimenticando di portare fuori l’immondizia. In meno di una settimana ti ritrovi la cucina così piena di sacchetti per la raccolta differenziata che non riesci più a cucinare.
A quel punto raccogli tutta la spazzatura ed esci di casa, ma appena il portone si chiude alle tue spalle ti accorgi di aver lasciato dentro le chiavi. Ti succede, quando non riesci a toglierti una ragazza dalla testa, di inciampare molto più spesso: in appartamento, per strada o al lavoro. Tante sbucciature non le avevi nemmeno da bambino. Vicino alla tempia porti due cerotti a x, una cosa buffa che fino a quel momento avevi visto solo nei cartoni animati giapponesi. Hai scorticato il palmo della mano destra e, nonostante la fasciatura, ti fa così male che non riesci neanche ad appoggiarlo sul volante. Quando la mano guarisce sei felicissimo di riprendere l’auto. Ma la tua testa è ancora piena di pensieri, così al ritorno dal lavoro non vedi un tram che arriva da una perpendicolare, vedi solo una grande luce quando ormai non puoi più evitare l’impatto. Tu non ti sei fatto niente, il tram non si è fatto niente, nemmeno i passeggeri si sono fatti niente e il tramviere ti lascia andare. L’auto, con la fiancata semi-distrutta, riesce a portarti fino al garage sotto casa, poi decide di morire. Il carrozziere e il meccanico dicono che ci sono oltre duemila euro di danni, ma tu sei vivo, non ti hanno fatto la multa e non hai perso punti della patente. E in realtà stai pensando a tutt’altro, stai pensando a un sms che ti ha mandato quella ragazza. Un sms che lascia ben sperare. Non che ti abbia scritto qualcosa di importante, è il fatto stesso che te l’abbia mandato che ti fa ben sperare.
Passano i mesi, gli incontri con la ragazza rimangono radi, non hai fatto passi in avanti, c’è un ostacolo che non ti ha fatto fare passi in avanti, sapevi di questo ostacolo fin dall’inizio, ma speravi lo stesso di farla innamorare. Non ci sei riuscito e nel frattempo stai rischiando ripetutamente di morire, da pedone adesso, perché non hai i soldi per far riparare l’auto.
Avresti anche deciso che questa volta non ti frega nulla di morire, ma è la situazione a essere arrivata a un punto morto: non ce l’hai fatta e non ce la farai mai, non puoi continuare a prenderti in giro. Mentre prima il pensiero della ragazza, oltre a cercare di ucciderti, ti dava forza, ora, senza smettere di cercare di ucciderti, ti provoca dolore, un dolore che non sai come sopportare.
Ti è già capitato qualcosa di simile, almeno due volte.
Avevi diciassette anni, stavi in campeggio in montagna e c’era un’altra ragazza, Dina, con la quale eri sicuro di metterti insieme. Poi era arrivato il tuo fratellastro, quello di Milano, il figlio del marito di tua madre, e Dina si era fidanzata con lui. Eri riuscito a rimetterti in piedi, tre giorni dopo, ascoltando una canzone al bar del campeggio. Era Una musica può fare di Max Gazzé. Tu e un tuo amico, anche lui in crisi per qualche motivo che ora ti sfugge, avevate fatto una corsa sul suo scooter, lungo un sentiero di montagna, cantando a squarciagola la canzone di Max Gazzé, e il dolore era svanito.
Ancora prima, a quindici anni, avevi dato appuntamento a quella compagna di classe che ti piaceva. Vi eravate incontrati alla villa comunale del paese. Ti eri dichiarato e lei aveva risposto di no, che non ci voleva stare con te, e poi aveva aggiunto una quantità di parole alle quali non eri riuscito a prestare attenzione. Si era alzata e tu eri rimasto solo, su quella panchina, al centro esatto della villa. Eri rimasto lì forse un’ora, anche se aveva iniziato a nevicare.
Ti pesava, soprattutto, doverla vedere ogni giorno a scuola, a pochi banchi dal tuo. Tornavi a casa e non sapevi cosa fare, passeggiavi nervoso tra le stanze.
A volte, se tua madre e suo marito non c’erano, prendevi a pugni il muro fino a quando le nocche iniziavano a sanguinare. Se c’erano, ti chiudevi a chiave in camera e ti infilavi ripetutamente, senza mai andare troppo a fondo, un ago nel palmo della mano. Dopo una settimana o dieci giorni, avevi ascoltato l’intro di Money dei Pink Floyd, il rumore della slot machine e il giro di basso, e tutto era passato.
Ora la tua vita è cambiata. Non vivi più in un piccolo paese del sud, vivi a Roma, non sei più un adolescente, vai per i trenta, ma il tipo di dolore è lo stesso. Agli aghi e ai pugni contro il muro non ci pensi nemmeno, pensi invece che una canzone potrebbe far sparire il dolore o almeno potrebbe renderlo sopportabile. Ti chiedi quanto ci vorrà a trovare la canzone giusta, ormai non ascolti più tanta musica, ma l’adolescenza e la post-adolescenza ti hanno lasciato in eredità centinaia di cd. Duecentocinquantasei dischi originali più un centinaio masterizzati, per essere precisi. Prendi una settimana di ferie, non esci dal tuo appartamento, inizi ad ascoltare i cd, un minuto a traccia. Il primo album che metti su è «Pink Moon» di Nick Drake, ma non riesci a smettere di pensare che Nick Drake si è suicidato. Ascolti «The room is on fire» e «Is this it» degli Strokes, ma lasci entrambi a metà perché la voce strascicata e lamentosa di Julian Casablancas ti dà ai nervi. Ascolti «The Eraser» di Tom Yorke, «In the court of Crimson King» dei King Crimson, «Acid Eaters» dei Ramones. Ascolti «Satan Circus» dei Death in Vegas, nel quale per un attimo ti sembra di aver trovato la canzone giusta, la versione live di Scorpio Rising, che però, dopo che l’hai ascoltata un paio di volte per intero, si rivela un abbaglio. Ascolti «London Calling» dei Clash, «Led Zeppelin» e «II» dei Led Zeppelin,
«Le Vibrazioni» e «II» delle Vibrazioni, «Let it be» dei Beatles, «Elephant» dei White Stripes. Ascolti il «Best of» dei Mano Negra, il «Best of» dei Sigue Sigue Sputnik, il «Best of» degli Articolo 31, «Tourist» dei St. Germain, «Zero» dei Bluvertigo, «XXX» dei Negrita, «Terra» dell’Officina Zoe’ e poi i nomi si confondono. Alla fine della giornata metà del tuo soggiorno è piena di cd sparpagliati e senza custodia, che sistemi gli uni sugli altri, in pile ordinate, senza preoccuparti di infilare i cd nelle custodie corrispondenti, mentre continui a soffrire per quella ragazza. Dopo ore con il culo sul pavimento, di fronte allo stereo, ti siedi sul divano. Ti fanno male le costole, all’improvviso non riesci a respirare, sei spaventato, hai paura che ti stia per venire un infarto. Ciò nonostante, quella sera riprendi a fumare.
Rimani praticamente chiuso in casa per tre o quattro settimane, perdi la cognizione del tempo, esci solo un paio di volte per fare la spesa: birra, acqua e cibo a lunga conservazione. Ascolti per ore i cd, sempre seduto sul pavimento, di fronte allo stereo. Alla fine delle tre o quattro settimane li avrai ascoltati tutti, tutte le tracce, un minuto per traccia. All’inizio della seconda settimana, di mattina, ti telefona Claudio, il tuo datore di lavoro. Non è arrabbiato, sembra preoccupato. Tu rispondi: «Non so proprio quando torno, se torno, puoi licenziarmi se è un problema». Lui rimane in silenzio. Tu riagganci.
Quella sera stessa Claudio richiama. Urla, non riesci a capire quello che dice. Lo inviti a calmarsi. Riprende fiato, fa: «Non puoi abbandonarmi così, sei un traditore, quanto ti hanno offerto?» All’inizio non hai idea di cosa stia dicendo, poi scuoti la testa e ti chiedi come gli sia venuto in mente che, in un periodo di crisi come questo, ti abbiano offerto un altro posto di lavoro. Claudio continua a parlare, ti offre prima duecento, poi trecento euro in più al mese. «Sono solo stanco, ho bisogno di tempo» dici. «Col cazzo che ti do più soldi, non farti rivedere!» urla lui. «Sei una merda!» urla prima di riagganciare.
Continui ad ascoltare i cd, il resto del tempo lo trascorri soprattutto dormendo. Mangi poco, fumi molto, bevi un paio di birre al giorno. Hai un mal di testa molto leggero, ma costante, forse dovuto alla musica. Mantieni un’igiene personale dignitosa, non rispondi alle chiamate degli amici.
Alla terza o quarta settimana Claudio chiama di nuovo. Rispondi per curiosità. Sei seduto sul pavimento, di fronte allo stereo. Al lato di una delle due casse ci sono i pochi cd, una trentina, che non hai ancora ascoltato. Claudio ti chiede scusa, dice: «Ti chiamo da amico». Ti sembra di sentirlo singhiozzare. «Non riesco ad andare avanti così» dice, «non è solo il lavoro, ti ho sempre considerato un amico.» «Tu non lo sai» continua, «ma una famiglia, avere una famiglia, non è facile. E poi al lavoro… tu sei l’unico che mi capisce.» Tu non hai idea di cosa Claudio voglia dire, ma rispondi: «Certo, ti capisco, ho solo bisogno di un po’ di tempo». «Prenditi altri quindici giorni» ribatte, «ma promettimi che tornerai.» Ti affretti a dire: «Torno, torno, certo che torno, torno presto» perché ti sembra che abbia ripreso a singhiozzare e ti senti in imbarazzo per lui.
Per qualche minuto dopo la chiamata pensi a Claudio. Pensi a tua madre che ti spiegava che le disgrazie degli altri servono a farci apprezzare le nostre vite, anche se lei si riferiva agli storpi, che è ancora peggio. Pensi che la cosa più triste è che questa perla di saggezza gliela aveva rifilata un prete.
Pensi che non sai nulla di Claudio, che non hai mai visto i suoi figli, hai visto solo una volta sua moglie, al negozio, ma non te ne ricordi il viso. Ti deprimi. Poi torni a pensare a quella ragazza che stai cercando di dimenticare, hai di nuovo quella sensazione di soffocamento, ti accendi una sigaretta, tiri nervosamente, riprendi a respirare. Metti senza convinzione i cd dell’ultima pila: la colonna sonora di Grease, la colonna sonora di American Graffiti, la colonna sonora di The Dreamers, la colonna sonora de Il giardino delle vergini suicide. Credi davvero di aver trovato la canzone giusta ascoltando Boys Say Go! da «Speak & Spell» dei Depeche Mode, un’illusione che dura poco. Dopo «Definitive» degli INXS, «Riot on an ampty street» dei King of Convenience e la «Carmen» di Bizet nell’esecuzione del 1964 della Filarmonica di Vienna diretta da Von Karajan, il mal di testa non è più così leggero. Ti sforzi di ascoltare la «Sinfonia n.38» di Mozart, gli «Improptu» di Chopin suonati da Arrau, «Love, Angel, Music, Baby» di Gwen Stefani, «Under my skin» di Avril Lavigne, «Let go» di Avril Lavigne, «Le Onde» di Ludovico Einaudi, una raccolta di Rino Gaetano, una raccolta di Lucio Battisti, una raccolta delle Orme, una raccolta degli Skiantos. È già mattina quando ascolti «Hai paura del buio?» degli Afterhours, «Dragostea compilation», «Striscia la compilation», «Hit Mania Dance 2009» e «Anche i pigri nel loro intimo fanno sport» del Piccolo gruppo intimo.
È stato tutto inutile. Dopo tre o quattro settimane e l’ascolto di trecentocinquantasei album, mentre sei ancora seduto a terra di fronte allo stereo, l’immagine che hai davanti agli occhi – che in realtà visualizzi non appena chiudi gli occhi, un’immagine che riempie tutto, come se fosse un affresco che occupa un’intera parete, non la parete del tuo soggiorno, ma quella di una basilica rinascimentale – è l’immagine di quella ragazza. Ricordi l’assoluta certezza di felicità che lei ti dava quando eravate insieme.
Non ti arrendi, decidi che in qualche modo con quella ragazza dovrai farla finita. Una canzone, una sola canzone e te ne dimenticherai, hai ancora fiducia.
Non sai come hai fatto a non pensarci prima, andrai in quel locale che hai frequentato per tutto l’autunno, il Vicious. Al Vicious, anche se è pieno di ragazze carine e fanno quel cocktail molto alcolico e molto buono di cui non ricordi mai il nome, ci vai soprattutto per la musica. Soprattutto per la musica della Red Room. Lì mettono questi brani che non conosci – o perché sei troppo vecchio o perché hai sempre ignorato la scena indie rock –, ma che riesci a ballare anche per due ore di fila, senza mai allontanarti dalla pista. Ti piace così tanto quella musica che un paio di volte ti è capitato, prima della chiusura, di fermarti a parlare con i dj e di chiedere informazioni sulla scaletta. Ora distingui qualche gruppo e qualche canzone.
Dormi tutto il giorno, ti svegli alle 18:00 e vai da Le Figarò, il tuo parrucchiere di fiducia di origine campana. Tornando a casa ti fermi dal macellaio e al supermercato. Ti fai la barba, passi il latte detergente sul viso. Fai una doccia. Mangi controfiletto di vitellone danese e pomodori pachino. Riposi un’altra ora e mezza. Ti lavi i denti, infili i jeans che ti piacciono di più, la maglietta nera con la scritta The end e un pullover blu. Ti metti le lenti a contatto, usi una crema fibrosa modellante per capelli, indossi il piumino a sigaretta e sei pronto a uscire.
Salendo sul tram ti viene in mente che la direzione che hai preso è la stessa che prenderesti per andare a trovare quella ragazza.
Fai lo sforzo di concentrarti su altro. Incolli il naso al finestrino semi-appannato e osservi i capannelli di giovani africani e di giovani sudamericani davanti ai bar di via Prenestina. Non riesci a sentirli, ma dalle loro smorfie capisci che parlano ad alta voce e che ridono sguaiatamente. Ci sono poche ragazze e sono tutte vestite come prostitute. Vogliono fare colpo sugli uomini, ma non hanno abbastanza soldi per vestirsi bene e non sanno truccarsi, ti dici senza crederci. Stai riuscendo in parte a non pensare a lei, ma ti accorgi che non è quello il punto. Non ti fa male pensare alla sua assenza, ma avvertire la sua assenza. Non avveniva lo stesso con le altre. Confronti i tuoi stati d’animo: con lei e senza di lei. Senza di lei ti senti come l’autore di quel libro, I cammelli polari, che nelle ultime pagine, dopo aver perso la sua compagna e la figlia della sua compagna (a cui vuole bene come se fosse sua figlia), dice di se stesso: «Pensava alla vita volatagli via: la futura. Si sentiva prigioniero di un carcere aereo, ubiquo, immateriale, che proveniva dal futuro, dove ogni movimento sarebbe stato impedito e qualunque evento si sarebbe verificato in una zona a lui morta».
Scendi dal tram a Porta Maggiore. Vedi un gruppo di stranieri davanti al distributore di sigarette della piazza. Parlano spagnolo. Si portano dietro delle bottiglie di plastica. Studenti, pensi. Quando hai già imboccato via Giolitti ti volti a guardarli. Si stanno muovendo verso San Lorenzo, nella direzione che dovresti prendere se volessi andare a trovare quella ragazza. Due di loro rimangono indietro. Lui spinge lei contro il muro, con dolcezza. Si baciano. Tu pensi a una frase stupida che hai letto su un blog: «Non esistono amori impossibili, esistono solo persone che non vogliono rischiare».
Pensi che forse c’è ancora un modo per conquistare la ragazza che abita a San Lorenzo, ma subito provi un profondo senso di imbarazzo. Chini la testa e torni sui tuoi passi.
Non c’è nessuno davanti al Vicious. Bussi, ma non rispondono. Guardi attraverso il vetro, ma è troppo buio per distinguere qualcosa. Quando inizia a piovere, controlli l’ora e ti rendi conto che le volte precedenti eri arrivato più tardi. Ti potresti riparare sotto la tendina del locale, però rimani immobile. Ti metti a pensare al perché non ha funzionato con la ragazza di San Lorenzo. Non prova niente per me, è semplice, pensi. Pensi che l’ostacolo non c’entra nulla in realtà, lei non ti ama, è solo questo. Siccome hai di nuovo quella sensazione di soffocamento, ti accendi una sigaretta.
Aprono dall’interno. È uno dello staff. Di solito controlla che gli avventori siano in lista o che abbiano il braccialetto per l’ingresso. È di colore, indossa un completo e ha un’aria molto distinta. Ti sorride. Siamo ancora chiusi, ma se vuoi puoi entrare, dice. Quella dovresti spegnerla però, aggiunge, indicando la sigaretta.
Appena entrate lo perdi di vista. Ti guardi un po’ intorno, non lo trovi. Non riesci a capire dove sia finito perché, anche se ci sono vari ambienti, il locale è piccolo. Non ti eri mai accorto di quanti specchi ci fossero. Con le luci accese l’atmosfera è completamente diversa. Così illuminato assomiglia a uno strip club.
Al bancone il barman non c’è. Prosegui fino a una saletta con dei divani di pelle rossa. Nell’angolo opposto all’entrata ci sono un uomo e una donna che parlano. Alla tua destra due ragazze che fumano. Hanno il trucco finto sfatto e i capelli finto disordinati. Sulle loro teste capeggia un cartello No smoking. Decidi di sederti accanto alle ragazze e di accendere un’altra sigaretta.
Cerchi di ascoltare la coppia in fondo alla sala, ma il tono delle voci è troppo basso. Lui tiene in mano un block-notes e ogni tanto prende appunti. Non guarda quello che scrive, continua a fissare la donna dritto negli occhi e a sorriderle. Lei, ora la riconosci, lavora per il locale. Accavalla le gambe muscolose ma snelle, gambe da ballerina. Ha dita lunghe e unghie estremamente curate, con cui a intervalli regolari sfiora le ginocchia dell’uomo. Per passare il tempo, mentre aspetti che il Vicious si riempia, fai un gioco. Sostituisci alle parole che non puoi sentire un dialogo che hai avuto un paio di mesi prima con la ragazza di San Lorenzo.
La donna con le gambe da ballerina accarezza l’uomo e dice: «In amore vince sempre chi si allontana».
L’uomo con il block-notes le sorride e risponde: «Non è sempre così».
La donna con le gambe da ballerina si sporge in avanti, tira via una ciocca di capelli dalla fronte e dice: «Mi fa piacere quando qualcuno mi dedica una canzone o una poesia».
L’uomo con il block-notes rimane in silenzio, prende appunti e dice: «Sì, ho capito», ma ha lo sguardo stranito, come se avesse qualcosa di troppo grosso per la testa, e come se non sapesse cosa farci, anche se la testa rischia di scoppiargli.
La donna con le gambe da ballerina avvicina le labbra all’orecchio dell’uomo e sussurra qualcosa. Dopo essere tornata ad appoggiare la schiena sul divano e aver invertito la posizione delle gambe accavallate, aggiunge: «Sei l’unica persona a cui l’abbia mai detto».
L’uomo con il block-notes sa che il segreto della donna non è così importante, ma il fatto stesso che abbia deciso di condividerlo con lui lo fa ben sperare. Allora sbatte le palpebre e scoppia a ridere per la felicità.
Mentre l’uomo con il block-notes ride, ti viene da chiudere gli occhi. Le settimane passate ad ascoltare cd ti hanno sfiancato. Quando ti risvegli, nella stanza non c’è nessuno. Le luci sono così basse che ti viene il dubbio di esserti perso la serata e di essere rimasto chiuso per sbaglio nel Vicious. In realtà sono passati pochi minuti. Torni nel corridoio centrale. Ci sono non più di una decina di persone, che entrano ed escono dalle tre sale. Raggiungi il bancone, dove il barman sta sistemando dei bicchieri. Gli chiedi il cocktail di cui non ti ricordi il nome. Lui ti passa il listino, con un sorriso che ti mette a tuo agio. Dice che può prepararti qualsiasi cosa, anche se non è segnata lì, basta che te ne ricordi il nome. Ecco è questo, dici, Vicious Extremly.
Ti allontani con il cocktail e fai un giro per il locale. Rivedi l’uomo con il block-notes. Accanto a lui c’è una ragazza che sta facendo delle foto. Mentre torni verso il bar urti un tipo strano. Porta dei pantaloni di pelle, una giacca sbottonata e un eye-liner pesante attorno agli occhi. Lo segue un biondino, truccato anche lui, con una scollatura tanto profonda che sembra avere la t-shirt strappata. Si fermano davanti all’uomo con il block-notes e alla ragazza con la macchina fotografica. Dopo una breve discussione, i due ragazzi truccati tornano di corsa verso l’entrata. Tu vai al bar. Trovi un altro barman. «E il barista di prima?» chiedi. Gli hanno telefonato, è dovuto scappare, ti dice. Senti il bisogno di qualcosa di più forte di un Vicious Extremly. Speri che anche lui possa farti un cocktail che non c’è sul listino.
Mentre la gente comincia ad affluire, rimani appoggiato al bancone a bere l’Invisibile più buono che tu abbia mai provato.
La musica ambient che si diffonde nel corridoio centrale non ti distrae dai tuoi pensieri, anzi, favorisce il ricordo di quando avevi provato a scrivere una poesia per la ragazza di San Lorenzo. Subito dopo che lei ti aveva detto quanto le piacesse che le dedicassero delle poesie, eri corso in libreria e avevi comprato quel libro, Gli strumenti della poesia. Te lo eri studiato in pochi giorni e ti eri esercitato per quasi due mesi. Alla fine avevi capito che ti ci sarebbero voluti così tanti anni per scrivere dei versi che reputassi anche vagamente degni della ragazza di San Lorenzo che lei avrebbe fatto in tempo a sposarsi, ad avere dei figli e a vederli sposati a loro volta. Avevi pensato allora di dedicarle una poesia di qualche grande poeta. La ricerca si era rivelata più difficile del previsto. Ti eri accorto che tra le moltissime poesie d’amore che sono state scritte, pochissime si possono dedicare a una ragazza che ancora si deve conquistare. Innanzitutto ci sono un’infinità di poesie ruffiane (Neruda) o che si rivolgono a donne che già amano il poeta (ancora Neruda) o che servono solo a soddisfare l’ego del poeta (sempre Neruda). Poi ci sono poesie che iniziano come celebrazioni della bellezza della donna amata, ma proseguono come celebrazioni della bellezza del mondo e si concludono inevitabilmente come invettive contro la crudeltà della vita (Rimbaud e Leopardi). Dopo che avevi escluso le brutte poesie (tutti i cattivi poeti e metà della produzione di quelli buoni), le poesie insincere (tutte le poesie d’amore dei buoni e dei cattivi poeti e metà di quelle dei poeti eccellenti) e quelle troppo disperate (la quasi totalità della rimanente lirica amorosa dei poeti eccellenti) erano rimaste: le scene d’amore dei drammi di Shakespeare, che – avrebbe potuto obiettare la ragazza di San Lorenzo – pur essendo scritte in versi, non sono poesie;
il primo verso di una poesia di Montale («Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida»), poesia che però prosegue come un inno all’amicizia e che quindi avrebbe potuto generare equivoci; un verso di Walt Whitman («Eravamo insieme… tutto il resto del tempo l’ho scordato») che eri stato sul punto di recitarle, ma che poi avevi temuto le potesse sembrare troppo superficiale e, infine, ¿Que es poesia? di Gustavo Adolfo De Bécquer (¿Qué es poesia?– dices mientras clavas/ en mi pupila tu pupila azul/ ¿Qué es poesia? ¿Y tu me lo preguntas?/ Poesia… eres tu.), che sarebbe stata perfetta – per la sua semplicità, per la sua sincerità, per il destino tragico dell’amore di De Bécquer – se gli occhi della ragazza di San Lorenzo, per quanto incantevoli, seducenti e meravigliosi, non fossero stati inequivocabilmente castani.
Ti risveglia dai tuoi pensieri una mano sulla spalla. È la fotografa che avevi visto accanto all’uomo con il block-notes. Ti chiede se può fotografarti. Tu rispondi: «Sì, certo. Ma prima toglimi una curiosità: cosa volevano quei ragazzi strani, quelli truccati?»
Lei ride, dice: «Non sono ragazzi strani, sono gli organizzatori della serata. Comunque niente. Io e lui» indica l’uomo con il block-notes che fa la fila alla cassa del bar «stiamo facendo un articolo sul Vicious e non ci eravamo messi d’accordo per le foto. Loro non volevano che fotografassimo le persone, ma li ho convinti».
Mandi giù l’ultimo sorso di Invisibile.
«Gli ho spiegato che non fotografo persone, fotografo fantasmi» continua lei e ti mostra il display della macchina digitale.
Nelle prime foto la gente è sfuocata, in quelle successive è semi-trasparente.
L’ultimo fotogramma ritrae, nel mezzo del corridoio centrale, una gamba alla quale non è attaccato alcun corpo. Non ci sono altre persone nella foto. Sullo sfondo il bancone del bar, intorno il corridoio vuoto, al centro questa gamba, quasi un’ombra, che sembra calzare uno stivale femminile, con un fiocco o un fiore all’altezza della caviglia.
«Cos’è?» chiedi.
«Te l’ho detto, fotografo i fantasmi» ti risponde, ridendo di nuovo. Poi si allontana di qualche passo, ti scatta una foto e senza salutarti si perde nella folla che ormai ha invaso il locale.
Trascorri le due ore successive nella Red Room, la musica è come te la ricordavi e ti aiuta davvero a non pensare alla ragazza di San Lorenzo. Balli tutte le canzoni, senza fermarti. I ragazzi e le ragazze che ti circondano ti mettono di buon umore. Sorridono, bevono e, come te, non si fermano un attimo. Come al solito non riconosci i brani, a un certo punto ti sembra che un paio di pezzi siano di un gruppo, o di una cantante, di cui hai visto qualche video e che si chiama Kap Bambino. Sono passate le tre quando il dj mette su una canzone di cui conosci sia il titolo che gli interpreti.
È Black Sheep dei Metric. Quando ancora la cantante ripete il titolo del brano, con un timbro basso e aspirato, di una sensualità che fa molto seduzione del male, tu rischi di scivolare e ti accorgi di avere una scarpa slacciata. Mentre la leghi sollevi appena la testa e vedi uno stivale rosso da donna, con la riproduzione rosa di una farfalla all’altezza della caviglia. Lo stivale segue il tempo della batteria che si è sostituita alla voce femminile. Salendo con lo sguardo, ti aspetti di trovare una gamba mozzata che balla al centro della pista. Invece, vedi lei.
Indossa un tubino nero, che lascia molto scoperte le gambe e aderisce perfettamente al corpo sottile. La parte superiore del vestito contiene a malapena i seni, pieni e larghi come te li ricordavi. Arrivi a guardare il suo viso nel momento in cui, ammiccando verso di te, canta quella che è la prima vera strofa della canzone: «Hello again, friend of a friend, I knew you when/ our common goal, was waiting for, the world to end». Non sai perché, ma quelle parole ti suonano come una minaccia.
Lei è Natalie, la ragazza con cui hai perso la verginità. Tu sei calabrese, lei è napoletana. Vi siete conosciuti a Maratea, in Basilicata, dove andavate al mare con i genitori. Tu avevi diciassette anni, lei sedici. Natalie andava ogni domenica in chiesa, aveva ottimi voti a scuola ed era una delle migliori allieve che il suo conservatorio avesse mai avuto. Le sere a Maratea le trascorrevate rovesciando cassonetti, spaccando finestre e rubando motorini che poi abbandonavate o lanciavate dai dirupi. Lei diceva di aver bisogno di una valvola di sfogo, tu la assecondavi. Facevate l’amore nel suo appartamento, quando i genitori andavano a ballare il liscio in un paese vicino. Esclusa l’estate non potevate vedervi, i suoi erano molto rigidi, la costringevano a stare tutto il giorno al pianoforte o sui libri. Suo padre ti odiava. Al mare, ogni volta che vi osservava fare il bagno insieme – lei faceva il bagno solo se c’eri tu, altrimenti rimaneva per ore a prendere il sole sul lettino –, eri sicuro che stesse elaborando un piano per ucciderti.
Dopo aver trascorso l’estate con lei ti rimaneva sempre un senso di insoddisfazione. Come se il vostro rapporto non fosse all’altezza delle aspettative dei mesi precedenti.
Fatta eccezione per l’attrazione fisica, che ti sembrava crescere estate dopo estate e forse era quello che davvero vi teneva insieme.
Al suo primo anno di università, il tuo secondo, eri andato a trovarla a Napoli, ma avevi rifiutato l’invito a dormire a casa sua. Le avevi detto che ti sentivi in imbarazzo, in realtà temevi che fosse un piano del padre per farti fuori.
Lei diceva di non essersela presa, ma tu sapevi quanto fosse legata alla famiglia. Dopo un mese era venuta a Roma. Avevate programmato un fine settimana insieme, ma alle otto di sera del venerdì, all’improvviso, Natalie aveva detto che doveva tornare a Napoli, perché i genitori non le avevano dato il permesso. Sapevi che era una scusa, che aveva detto ai suoi di essere andata a Roma a trovare un’ex compagna di classe. Ma l’avevi lasciata andare.
Vi eravate insultati al telefono per due settimane, accusandovi l’un l’altra di immaturità. Poi, pacificamente, avevate concluso di non essere abbastanza presi per poter portare avanti un rapporto a distanza. Da allora, non vi eravate più sentiti.
Natalie si avvicina. Ti bacia sulle guance e ti fa segno di seguirla verso il bar.
Ha la pelle bianchissima come all’inizio di ogni estate (non ti spieghi come riuscisse ad abbronzarsi tanto senza mai scottarsi), lo stesso accenno di lentiggini sul naso, lo stesso piccolo spazio tra gli incisivi.
Ti dice che vive a Roma da qualche mese, che è venuta al Vicious col suo ragazzo, che però era stanco ed è andato a dormire. Precisa che non è una storia importante.
«Una ragazza, con una macchina fotografica… mi ha fatto vedere la tua gamba… cioè, una foto dove c’è solo la tua gamba» le dici.
«La ragazza dei fantasmi! Hai visto la foto?»
«Sì, ma come…»
«È facile, basta dilatare il tempo di esposizione» dice lei, fissandoti come se fossi sul punto di sparire.
Siete di nuovo nella Red Room. Mentre ballate, Natalie avvicina il mento alla tua spalla. Senti il calore del suo respiro. «Mi ha fatto davvero piacere rivederti» dice.
Solo ora la sua voce ti sembra la stessa della ragazza con cui hai passato tante estati. La vedi su una panchina del porto, la notte prima della tua partenza. Ha sedici anni, i capelli lunghi e biondissimi. Affonda le unghie nei tuoi fianchi. Ti sta facendo male, ma non hai il coraggio di dirglielo. Con la stessa identica voce di adesso continua a ripetere: «Promettilo, devi prometterlo». Tu non sai cosa ti ha chiesto di prometterle, forse che non la tradirai, forse che le telefonerai ogni giorno. Vi rivedrete l’estate seguente, dopo mesi di silenzio. E sarà diverso, nonostante le apparenze sarà diverso. Te ne accorgi ora, dieci anni dopo, mentre ballate nella Red Room. Mentre per un istante credi di poter dimenticare la ragazza di San Lorenzo. Appena prima di capire che in certi labirinti non si può tornare indietro. E che i deserti immaginari sono altrettanto pericolosi di quelli reali.
Senza smettere di ballare né di sorridere, ricordi la prima volta che hai visto la ragazza di San Lorenzo. La sua pelle emanava una lucentezza straordinaria, come se attirasse una quantità di luce decuplicata rispetto a quella delle persone che la circondavano. Avevi pensato che qualcuno avesse recuperato un desiderio dal fondo della tua anima, un desiderio meraviglioso e dimenticato, e che quel desiderio si fosse materializzato lì, a pochi passi da te.
Quando avevi incrociato il suo sguardo, ti eri detto che negli occhi della ragazza di San Lorenzo si nascondeva il mondo reale, un mondo in cui nessuno metteva in discussione l’esistenza dell’anima e si poteva anche essere felici. Ti eri detto che il mondo in cui eri vissuto fino ad allora era solo una facciata, una facciata sorretta dalle impalcature di un set cinematografico. Il set era quello di un film molto triste, in cui il Pianeta si trasformava progressivamente in un immenso cimitero. E sulle lapidi del cimitero – non sapevi perché, ma questo aumentava la tua tristezza – tutti i nomi che leggevi erano nomi di donne: studentesse coscienziose, madri amorevoli, giovani spose, spose bambine.
Nel locale hanno riacceso le luci. Natalie va in bagno, ti dice di aspettarla fuori. Magari possiamo fare colazione a casa tua, così finalmente la vedo, ti dice.
Rispondi di sì, cos’altro puoi fare, pensi.
Per strada è ancora buio. Le persone temporeggiano sul marciapiede. Si accendono una sigaretta, commentano la serata.
Natalie, Natalie, ripeti sottovoce, scuotendo la testa.
Subito dopo ti chiedi cosa starà facendo in quel momento la ragazza di San Lorenzo, se sarà ancora sveglia, se sarà con qualcuno.
La prima volta che eravate usciti da soli, la ragazza di San Lorenzo era molto nervosa. Appena ti aveva salutato si era accesa una sigaretta. Tremava. La cosa buffa era che anche tu ti eri subito acceso una sigaretta e avevi iniziato a tremare. Eravate stati al cinema e il film vi era sembrato bellissimo, di sicuro più bello di quanto fosse in realtà. Eravate stati in pizzeria, poi in un pub dove suonava un gruppo soul, poi avevate girovagato per le strade del quartiere continuando a parlare di chi eravate e di quello che avreste fatto insieme.
Tornato nel tuo appartamento non riuscivi ad addormentarti. Avevi sempre creduto che il paradiso, nel remoto caso in cui fosse esistito, sarebbe stato un posto noioso. Credevi che nessuna sensazione di estasi celeste, o quello che era, avrebbe potuto rendere qualcuno felice per un tempo infinito. Dopo quella serata, però, ti eri convinto che anche un solo miliardesimo della felicità che provavi quando stavi con la ragazza di San Lorenzo sarebbe stato sufficiente per un migliaio di eternità, per un migliaio di paradisi.
A un certo punto, nel cuore della notte, avevi pensato che non avevi il diritto di essere così felice. Non sapevi spiegare perché ma eri certo di essere un impostore. Non capivi come la ragazza di San Lorenzo non se ne fosse accorta. Ti eri addormentato che era già mattina. Avevi sognato che qualcuno cercava di soffocarti. Era un sogno che facevi spesso. Questa volta, però, mentre soffocavi provavi un senso di liberazione. Te lo meritavi, pensavi nel sogno, perché avevi fatto qualcosa di orribile. Ti eri risvegliato col fiatone e dopo pochi secondi ti eri riassopito. Avevi sognato di nuovo. Eri sdraiato a pancia all’ingiù nel tuo letto, nel tuo appartamento. Sapevi di essere lì, ma i tuoi occhi non riuscivano ad aprirsi. Non ti preoccupavi perché credevi dipendesse dalla troppa stanchezza. All’improvviso sentivi un peso sulla schiena. Provavi ad alzarti e la pressione aumentava. Non potevi muoverti, né le braccia, né le gambe, niente. Non potevi aprire gli occhi. Non potevi urlare. Qualcuno ti violentava. Quello che ti faceva sentire peggio era che non sapevi chi fosse. Quando ti eri svegliato avevi perlustrato l’appartamento, come se il violentatore fosse reale. Come se fosse entrato in casa per sorprenderti nel sonno, in modo da lasciarti il dubbio che si trattasse di un incubo.
Dopo qualche minuto ti eri reso conto che non poteva essere entrato nessuno. Eri andato in bagno e ti eri sciacquato la faccia. Ti eri guardato allo specchio. Non era successo quella notte, ma era successo. In quella casa, in quel letto. Credevi di essere riuscito a rimuoverlo, ma ora tornava a galla. Eri terrorizzato, eri scoppiato in lacrime. Ti eri ricordato di essere stato tu il violentatore. Avevi fissato la tua immagine nello specchio. Al posto degli occhi c’erano due buchi neri. A quel punto ti eri svegliato per davvero.
Quando il giorno successivo avevi visto la ragazza di San Lorenzo, eravate in un grande parco, in compagnia di altre persone. Per ore non eri riuscito a rivolgerle la parola. La osservavi come se appartenesse a un’altra dimensione. Finalmente eri riuscito a chiederle di fare una passeggiata. Avevate camminato tenendovi per mano, perdendo subito il senso dell’orientamento, battendo più volte gli stessi sentieri. Tu ogni tanto stringevi la sua mano più forte, come se avessi paura che si sarebbe potuta dissolvere nell’aria all’improvviso. Mentre vi baciavate, vi erano finiti i suoi capelli in bocca, tantissimi capelli. Non vi eravate fermati, avevate continuato come se non aveste tempo per scostarli. Dopo il bacio vi eravate guardati a lungo negli occhi. Chissà se nei miei vede due buchi neri, ti eri chiesto. Ancora più a lungo era durata la passeggiata di ritorno. Passavate sempre per gli stessi punti, come se foste in un labirinto. Lei era tornata a casa prima di te. Si era allontana camminando all’indietro, contemplandoti come se sapesse cose che non avresti mai saputo e che lei non ti avrebbe mai rivelato. Avevi l’impressione che la vegetazione si stesse facendo più rada e che da un momento all’altro il parco si sarebbe riempito di lapidi.
Vicious Club
Via Achille Grandi 7/a
Il Vicious nasce nell’autunno 2010 dalle ceneri del Maxx Bar, per anni punto di riferimento tra i locali gay & friendly romani. A differenza del suo predecessore non si rivolge a un target ben definito. La selezione la fanno l’offerta musicale, la qualità del bar e l’ambiente stiloso e anticonformista allo stesso tempo. L’unica forma di promozione del Vicious è quella del passaparola. Ci sono tre piccole sale e un corridoio centrale. Lo staff, guidato da Francesca, è parte di quello del vicino Micca Club, di cui il Vicious rappresenta una sorta di «lato oscuro». La clientela è molto socievole. Si balla fino alle prime ore del mattino.
Alchemy
Non si sa bene se Alchemy sia nata in funzione del Vicious o il contrario. Tiziano, Edoardo e Simone, i tre organizzatori della serata, vengono rispettivamente dalle esperienze di Ritual, Stakanovismo e Kill your idols. L’idea era quella di dare vita a un evento che rievocasse le atmosfere dei club undeground di New York e Berlino. Ogni sabato vengono proposti contemporaneamente due dj set. Nella sala principale la musica è electro, techno soprattutto. Nella Red Room l’offerta spazia dall’alternative, al gothic, al new wave. Prima dei dj-set, talvolta, si possono ascoltare live molto particolari, come un concerto d’arpa o un quartetto d’archi. Apparentemente non hanno nulla a che vedere col resto della serata, in realtà contribuiscono a creare l’atmosfera unica di Alchemy.
Fotografie di Silvia Pierattini