Ho pensato che doveva essere un operaio del Comune. Aveva una mazza in mano e stava piantando un picchetto di ferro in un angolo della piazza. Solo uno del Comune poteva fare una cosa del genere.
La piazza era stata asfaltata da pochi anni. Era nera e abbastanza in piano e attorno c’erano solo le case a due piani e i muretti bassi di cemento armato ancora senza la rete di recinzione. Una volta all’anno venivano le giostre a catene, gli autoscontri, lo zucchero filato e un camioncino con sopra un complesso: batteria, fisarmonica, basso elettrico, chitarra, sax grande e sax piccolo. Il complesso suonava il liscio e i papà e le mamme, i nonni, gli zii ballavano e ridevano con le guance rosse e le labbra unte. E sudavano. Il sudore delle ascelle faceva diventare trasparenti le camicie bianche degli uomini, mentre i vestiti sbracciati delle donne si macchiavano di un tono più cupo: il colore rosso del tessuto diventava marrone, mentre il verde andava al nero. C’era qualcosa di strano sotto le ascelle dei grandi, e poi la musica li cambiava e diventavano sorridenti e parlavano e parlavano e non si capiva niente: allora bisognava andargli vicino e lasciare che ti gridassero nelle orecchie. Sapevano di vino e pollo arrosto.
L’operaio del Comune batteva colpi secchi e precisi e il picchetto era già sceso fino a metà. Mi sono avvicinato in bici lungo il marciapiede per vedere meglio. Il picchetto di ferro aveva la testa arrotondata e lucida: era come se fosse stato piantato tante volte. Mi sono voltato e ho visto un altro operaio inginocchiato in mezzo alla piazza con la testa dentro il pozzetto. Forse era qualcosa che riguardava l’acquedotto.
Ho visto arrivare Franz con la testa piantata in mezzo al manubrio e i capelli indietro. Quando si è fermato con una gran frenata i capelli sono tornati avanti.
«Sapevi già che c’era il circo, eh?» mi ha detto.
Non gli ho risposto. Mi sono voltato perché ho sentito arrivare un grosso camion. Era tutto rosso.
Il circo.
A trecento metri da casa mia.
«C’è la tigre del Bengala» ha detto Franz, «la mangiatrice di uomini. Ci sono anche i cavalli, la scimmia, l’orso, i pagliacci, i trapezisti e i giocolieri.»
***
Io e Franz siamo ritornati in piazza il pomeriggio. Ad aspettarci c’erano Ale e Gian che osservavano il tendone già in piedi. Era rosso, enorme e con le corde attaccate ai picchetti d’acciaio. Si chiamava il circo.
«Andiamo a vedere le bestie feroci» ha detto Franz indicando i tre camion dietro al tendone.
Appena ci siamo avvicinati abbiamo sentito la puzza di letame. I camion avevano un lato aperto, con le sbarre verticali di ferro. Su uno c’era un cavallo bianco che, visto da vicino, aveva tante macchie grigie, e il pelo sulle zampe era giallo; su un altro c’era un piccolo orso bruno, immobile e con la testa inclinata come se l’uomo dei picchetti gli avesse dato una mazzata in fronte. Il terzo camion aveva un telo verde davanti.
«La mangiatrice di uomini deve essere lì» ha detto Franz.
Nessuno si è fidato d’andare vicino e siamo rimasti ad ascoltare. Dentro la gabbia si sentiva camminare.
«Con un zampata ti apre a metà» ha aggiunto Franz.
Gian mi ha guardato e ha fatto un segno verticale nell’aria davanti a me: «Ti taglia fino alle balle».
«Una balla rimane di qua e una di là» ha precisato Ale.
Gian mi ha guardato in mezzo alle gambe: «Se ti tagliassero a metà, preferiresti essere quella di destra o quella di sinistra?»
«Che ne so?»
«Sai che nella metà di qua c’hai il cuore, un polmone, la milza, più un braccio e una gamba. Da quest’altra parte…»
«Ma no» l’ha interrotto Franz, «si intende la metà di sopra o la metà di sotto.»
«Allora quella di sopra, con la testa» ho risposto.
«Però di sotto c’hai le gambe e i piedi» ha detto Franz, «e l’uccello.»
«E gli scroti!» ha gridato Ale.
«Si dice lo scroto» ha detto Gian.
Ale si è messo a ridere forte. «Tu avrai uno scroto, io ne ho due!»
Abbiamo riso tutti e Gian ha spinto avanti la bici colpendo la ruota di Ale.
«Piccolo scrotino mio, vieni dalla mamma, che ti metto la pomatina…» ha continuato Ale.
«Dietro il telo ci potrebbe essere la scimmia» ho buttato là io.
«Per me c’è la tigre» ha continuato Franz. «Senti che cammina a quattro, no?»
«Perché, secondo te, la scimmia cammina a due?» gli ho chiesto.
«Be’, sì.»
«Ma va’ là. Pensa a Tarzan e Cita: Tarzan cammina a due, Cita a quattro. Cammina a tre, se dà una mano a Tarzan.»
«Se pensi che ci sia una scimmia invece della tigre perché allora non infili una mano sotto al telo?» mi ha chiesto Franz.
«Io non mi fido nemmeno della scimmia.»
«Che fifone del cazzo» ha detto Franz.
«E mettila tu la mano, no?»
«Sei scemo? C’è la mangiatrice di uomini! Lei apre le sue ganasce bavose e sguaina i denti bianchi come quelli di un cane gigante e zac, mi addenta come un würstel e mi tira dentro la gabbia e mi sbrana a pezzi. Ci vai tu da mia madre, eh? E gli dici: signora Vilma, ho sfidato Franz e lui, che ha fegato da vendere, ha messo dentro la mano e la mangiatrice di uomini l’ha sbranato a pezzi.»
Gian si è messo in mezzo a noi con le mani a coppetta. «Toh, signora Vilma, è rimasto solo lo scroto.»
«Anche i calzetti» ha aggiunto Ale con le mani unite e aperte in mezzo al manubrio della bici.
Abbiamo riso e sbattuto i piedi per terra e il cavallo si è spaventato e ha cominciato a nitrire. Ci siamo allontanati in fretta.
***
Il biglietto è un cartoncino rosso e consumato. Ho le mani sudate, mentre lo porgo all’uomo dei picchetti dritto davanti all’entrata. Dentro ci sono lampadine bianche e bandierine attaccate ai fili. Per terra c’è segatura e sabbia. L’odore di stalla è forte. Ci sono già persone sedute sulle panche di metallo. Prendo posto con gli altri in ultima fila. Poi Franz dice di andare avanti e si alza e inciampa sulla panca e tutti si voltano. Dalla prima fila ci spostiamo in mezzo e poi dall’altra parte del tendone.
Spengono le luci che stiamo ancora girando, non c’è molta gente.
Una luce bianca e forte fa un cerchio perfetto sulla sabbia: in mezzo c’è il padrone del circo. Porta un cappello a cilindro e una giacca rossa con dei cordoni dorati sul davanti.
Entra il cavallo bianco, che è preciso a quello del bagnoschiuma Vidal, e comincia a girare in tondo. Non è un granché.
Poi spuntano due pagliacci: uno triste e uno allegro. Hanno scarpe lunghissime e s’inciampano. Dopo è la volta del giocoliere: somiglia tanto a quello dei picchetti, magari è suo fratello. Chissà perché un fratello diventa un giocoliere famoso e l’altro rimane a piantare picchetti.
Noi aspettiamo la tigre. E invece entra l’orso. È su un carretto tirato dal cavallo e ha la museruola con la catena.
Quando esce l’orso, due uomini portano un tavolo argentato e lo mettono su un telo al centro della pista. Uno è il bigliettaio e l’altro sembra il padrone del circo, non ha più la giacca rossa con i cordoni e il cappello a cilindro, ma gli stivali e le braghe sono gli stessi.
Lei è bellissima. Ha un costume rosso. Come al mare, solo che è tutto luccicante e intorno alla scollatura, alle spalle e all’inguine ha un profilo argentato.
Franz me lo dice subito: «È la contorsionista».
È alta e ha una lunga treccia castana intrecciata con fili d’argento puro.
La contorsionista sorride, sale sul tavolo. C’è quello dei picchetti che l’aiuta. Lei si stende a pancia in giù e ci guarda. Senza dire niente piega le gambe verso la schiena, poi afferra con le mani le proprie caviglie e fa un specie di arco tirandosi i piedi fino alle orecchie. Non mi piace: è sempre bella, ma ha questi due piedoni bianchi ai lati della testa. Sembrano tagliati a qualcuno e appoggiati lì. Ma i piedi sono vivi e si muovono e anche tutte le dita: dal pollicione al ditino piccolo: lei fa ciao-ciao con i piedi. Non so se pensare a Cita o al Cottolengo, dove mi hanno detto che c’è da aver paura sul serio e neanche i grandi ci vogliono entrare. La contorsionista appoggia le piante dei piedi sul tavolo, fa una specie di breve rotazione con il bacino e ci guarda con il culo perché la faccia è andata dall’altra parte, verso il tendone e il buio. La treccia lucida sembra una biscia stesa sul tavolo lunare. La contorsionista apre le braccia e le mani, e le tiene così per un po’. Penso che le noccioline della spina dorsale potrebbero schioccar fuori dalla pelle sottile e tesa della sua schiena.
Nessuno fiata, nemmeno Franz.
La contorsionista fa un altro movimento ed è ancora in piedi, tutta d’un pezzo. Si inchina e noi applaudiamo. Guarda verso l’alto, dove il tendone si chiude a cono. Butta le mani in alto e si piega indietro, fino a terra. Io guardo in cima al tendone dove c’è solo un trespolo e una grossa corda. Quando ritorno a guardare il tavolo, la contorsionista è diventata metà, la metà di sotto. Ci sono i piedi e le gambe e il costume rosso e basta. Mi piacerebbe ci fosse mio cugino, mi piacerebbe vedere che faccia fa a guardare quel gonfiore senza femmina che cammina sul tavolo a piccoli passi avanti e indietro: sono sicuro che una cosa del genere non l’ha mai vista. Così gonfia, viva, rossa, e che cammina da sola su due gambe leggermente aperte e arcuate.
Da sotto sbuca la testa della contorsionista e sento ooh, venire dal tendone. Penso che è lei la mangiatrice di uomini, perché ha due bocche e cammina. Potrebbe anche scendere dal tavolo e mangiarci tutti. O magari saltare e strozzarci con le sue gambe lunghe. A noi piccoli ci può prendere tre alla volta, e magari l’uomo dei picchetti l’aiuta a soffocarci.
La testa ride e scompare, poi vedo i seni, il mento, la faccia: prima è tutta tesa e cattiva per lo sforzo di tirarsi su e poi ci vede e ride e tutti applaudono.
Comincia a non piacermi il circo.
L’uomo dei picchetti porta un piccolo baule, forse ha dentro delle robe come quello del giocoliere di prima.
Il baule è vuoto e la mangiatrice d’uomini ci entra: prima una gamba e poi l’altra. Le gambe sono lunghe e belle e il baule è una cassa alta tre spanne. Lei si accovaccia, come a fare pipì e ho già capito cosa vuol fare, ma è impossibile che ci stia dentro. E invece va giù, si tira, si piega, si torce. Ora dalla scatola spuntano solo le spalle e la testa e i piedi grandi. L’uomo dei picchetti chiude il coperchio e ci si siede sopra. Accavalla una gamba e si accende una sigaretta. Nessuno dice niente. La mangiatrice d’uomini è nella bara, attorcigliata e piegata come un ramo di salice. Io so che anche il salice si spezza, se non fai la curvatura giusta, e lì dentro spazio non ce n’è.
Penso che è lui che la obbliga a fare quelle cose: a farsi male e anche a ridere. E poi la mette nella scatola, come un manichino, o una bestia. Vorrei liberarla, credo che se lo facessi non mi mangerebbe con le sue due bocche. Però mi ci vorrebbe una scimitarra come Sandokan, o una Colt con sei fratellini di piombo nel tamburo, come dice Tex Willer. O forse un arco come Robin Hood. Se scaglio una freccia e prendo l’uomo dei picchetti sulla spalla e con il mio pugnale apro il baule e la libero, lei sarebbe contenta e potremmo uscire insieme dal tendone, anche se è ancora un po’ più alta di me, credo che farei bella figura.
L’uomo dei picchetti butta la mezza sigaretta per terra e la schiaccia ruotando la punta dello stivale. Si alza, si sgranchisce le gambe e poi apre piano.
Lei si muove a scatti, sale e cresce fino a essere ancora dritta in piedi: sono contento che è ancora viva. Sorride e tutti applaudono, anche Franz, Gian e Ale. Il bastardo dei picchetti le porge una mano per uscire. Lei allunga la sua che è sottile e bianca, poi alza la gamba sul bordo della scatola e mi guarda. Per un momento becca proprio me in mezzo a tutti. Lo sguardo mi arriva come un picchetto di ferro e io senza volerlo abbasso gli occhi per schivarlo e sento le mani intorpidite per quanto le ho tenute tra la panca e le cosce.
Quando risollevo gli occhi lei sta uscendo con lui dal cono di luce.
Entrano di nuovo i pagliacci. Quindi si spegne tutto e il cono di luce bianca illumina il tendone in alto. C’è ancora lei sul trespolo ed è vestita di bianco. Quello dei picchetti è appeso a testa in giù, come un pipistrello di giorno. Potrei beccarlo con una freccia alla coscia e ferirlo. Lei scenderebbe dalla corda, con una gamba dritta e una piegata… e invece si butta nel vuoto, verso la sabbia e la segatura e la merda del cavallo che è rimasta vicino alla pista. Lui l’afferra con le sue mani da picchetti e la fa ondeggiare di qua e di là. Non sono molto in alto, ma fanno paura lo stesso. Ale li guarda con la bocca aperta: ha un filo di saliva che unisce i denti sopra e il labbro sotto. Chiude la bocca.
Non posso guardare, ma sento gli ooh del pubblico, fino alla fine.
Accedono tutte le luci: le piccole e le grandi e mi bruciano gli occhi.
Quelli del circo sono in sei e si inchinano e salutano come se dovessero partire. Lei è al centro, tra quello dei picchetti e il padrone del circo. Sorridono e si tengono per mano. Forse non la obbligano a fare quelle cose. Forse le piace.
Gian, Franz e Ale mi fanno cenno dall’uscita del tendone come se avessero fretta. Mi dà fastidio lo stridio delle panche d’acciaio trascinate sull’asfalto.