Sgabuzzino di casa dei miei genitori: tra le scatole con etichetta ne risalta una: cornici defunti. È una scatola di scarpe. La piccola farmacia di casa è nello sgabuzzino, ogni volta che cerco un’aspirina guardo quella scatola ma non la apro mai. Non oso chiedere nulla ai miei, resto nell’ignoranza e ci sto bene. Morte e ignoranza: le stesse cose che trovo a Milano quando, con il pretesto di una visita ad amici, ci vado a festeggiare il Capodanno.
19 dicembre. La nebbia e il freddo rendono Milano Milano, o «Milano». Il mio amico cinico e io prendiamo la metro verso Cascina Gobba, un luogo indefinito lungo la linea verde. Quando il treno emerge in superficie iMac (il Mio amico cinico) comincia a indicarmi alcune boutique della periferia dove si fa sperimentazione coi tessuti. «Laggiù un gruppo di artisti amici di X organizzano eventi col latex – belli la prima volta o due poi è una noia» – «In quella bottega fanno mostre e vernissage per gli artisti dell’hinterland – non sai che cheap» – «Se vuoi comprare la coca prendi questa linea nell’altra direzione e scendi a Porta Genova, anche se la bamba più buona d’Italia si trova a Chioggia.» Il cielo è talmente plumbeo che è come se non lo fosse, il più scontato complemento di queste pianure pigramente urbanizzate. Faccio pensieri da terrone che tengo per me. iMac non è di «Milano», è emiliano ma anche Bologna gli stava stretta e poi qui è vicino di casa della Colombari, di Alessia Fabiani e Ana Laura Ribas («Vuoi mettere? A volte se vado di fretta mi gira la testa per la coca in sospensione nell’aria, ma se corri a Milano sembri un fallito quindi io non corro mai» – «L’ora dell’happy hour è quando devi stare online ad aspettare gli scoop su Dagospia.»)
Scendiamo a Cascina Gobba e chiamiamo un taxi perché oggi, che è domenica, la navetta Mediaset non fa la spola tra la stazione e gli studi di Cologno Monzese, che è dove siamo diretti. Stiamo andando ad assistere alle registrazioni di Capodanno 5, lo spettacolone di fine anno di Canale 5 condotto da Barbara D’Urso. Il taxi ci lascia davanti al civico 40, dall’altra parte della strada un enorme sexy shop chiamato Red Paradise. La sua presenza è talmente scontata da non suscitare in noi alcuna curiosità (iMac non lo degna di uno sguardo), e lo sforzo di trovare in questa sede osservazioni argute o pungenti è inane. Quel sexy shop non solo avrà visto una frazione minima del sesso negli studi dall’altra parte della strada, ma è anche lì con la stessa funzione della nebbia intorno alle città lombarde: è una conferma, una sottolineatura.
La famosa torre Mediaset svetta più ovvia di un fallo tra le costruzioni basse e i vialetti con le luci. Ora sta nevicando – la neve è simbolo di purezza e di stasi.
Al cancello c’è una discreta fila di persone che aspettano di entrare. Sono tutti parte del pubblico come me e iMac e sfoggiano tutti i più variegati accenti meridionali. Un gruppetto di siciliani con cravatte viola e camicie rosse, capelli permanentati e gioielli da gala, fa opera di auto-incitamento in vista della gran serata che lo attende. Un signore sui sessanta dice che ha letto su Internet che ci saranno un sacco di concorrenti del Grande Fratello. Una donna, che potrebbe essere sua moglie ma anche sua figlia, commenta sperando che ci sia Costantino. iMac mi guarda con un sorriso cattivo. Io compilo le liberatorie poi presto la penna a un ragazzo che la porge a un suo amico bendato dicendo «Firma qua, tra un po’ vedrai che sorpresa». L’altro continua a chiedere «Ma dove siamo?» con crescente curiosità e aspettativa. «All’inferno» commento. «In paradiso» dice iMac.
La sera prima eravamo andati a mangiare il sushi da Mitsui, ristorante non particolarmente elegante vicino Porta Venezia. Un all you can eat, per di più. Ma mangiare il sushi a «Milano» è più evidente che a Tokyo quindi perché no. Il fidanzato di iMac musicista underground, iMac, il suo coinquilino musicista ancora più underground che per campare fa il commesso in via Montenapoleone e io. Ci ingozziamo. È la prima volta che mangio sushi da quando sono tornato dal Giappone e osservo tutto bene prima di metterlo in bocca. Un atteggiamento da provinciale, è chiaro, ma c’è troppo sesamo nelle salse, il sushi è troppo arzigogolato (uno ha il formaggio Philadelphia dentro), la zuppa di miso sembra di quelle istantanee, solo il sashimi è come dovrebbe essere ma sovvertire quello è difficile dato che, per natura, il sashimi è nudo e crudo.
A fine pasto commento che mangiare il sushi a «Milano» è un gesto molto più politico che mangiarlo a Tokyo, dato che presuppone una scelta in primo luogo estetica e poi, solo poi, culinaria. Laddove a Tokyo si mangia il sushi perché esiste, qui lo si fa perché è giapponese, e perché adesso va di moda. iMac dice che lo mangia perché è buono, annichilendo la mia tesi. Il coinquilino di iMac annuisce e obietta: «Questa cosa delle mode è un pensiero che sa di vecchio». Decido istantaneamente di far mio questo concetto per il resto della permanenza a «Milano».
Quando finalmente riusciamo a entrare e a guadagnarci un riparo dalla neve e dal freddo, veniamo ammassati in una sorta di grande anticamera, un androne dotato di macchinette per il caffè e gli snack. La tenuta media comprende cravatta o papillon, giacca e scarpe lustrate. Sono tutti incredibilmente brutti, anche le ragazze più in tiro. Mentre iMac distrugge verbalmente l’outfit della maggior parte dei presenti io non riesco a distogliere lo sguardo dall’esterno. Dai vialetti non così perfetti di questo complesso industriale, anzi questo grande complesso industriale, dalle macchine non così posh parcheggiate non così ordinatamente qua e là, dai taxi che arrivano fino all’esterno del cancello principale e da cui scendono figure bardate non così luminescenti, che potrebbero essere chiunque.
iMac intercetta una ex concorrente del Grande Fratello, una che in un’edizione passata aveva fatto scandalo con la sua bisessualità, si era baciata con una donna o qualcosa del genere, aveva avuto una doppia relazione all’interno della Casa o qualcosa del genere. Il nome ci è reso noto poco dopo, quando un ragazzo, avrà massimo diciannove anni, grida «Oddio quella è Veronica!» coprendosi la bocca con entrambe le mani. Le sue amiche gli si fanno intorno come a sorreggerlo, sembra davvero che stia per svenire. Insiste che lui deve assolutamente andare da lei a parlarle, che la ama troppo, che è bellissima, che non ci può credere che ce l’ha davanti a pochi metri. Le amiche gli danno coraggio e lui, spavaldo, va da Veronica, che ha due lenti a contatto che sembra Marilyn Manson, con la macchinetta fotografica in mano. iMac e io osserviamo la scena, io schifato lui divertito, finché non commento acidamente la cosa: «Squallore totale». iMac mi intima di smetterla col mio moralismo da romano. Mi sento improvvisamente stupido e di una sinistra qualunque. In che modo il non sentirsi adeguati genera categorie tanto vaghe, ma soprattutto il rigetto delle stesse? Dato che ho stima di iMac chiedo scusa e provo a interloquire con lui nella sua lingua: «Ma lei chi è?»
«Te l’ho detto, è una romana del GF che si è baciata con Sarah. Arrivistissima, ha fatto di tutto per farsi notare nella Casa.»
«Ed era… brava?»
«Alla fine sì, se ha i ragazzini che si vogliono fare le foto con lei.»
«Ma non è un po’ triste questa cosa?» iMac mi guarda male.
«Sì che è una cosa triste, ma è bella proprio per questo, no?» Comincio a pensare che iMac sia più snob di me, ma in modo più intelligente. Più moderno.
Il ragazzino torna dalle sue amiche a cui mostra immediatamente le foto con Veronica. Dice che era «gentilissima e simpaticissima» e aggiunge che vorrebbe morire adesso, che sarebbe perfetto.
Dico a iMac che è vero che donne e omosessuali sono consumatori ideali, di qualunque cosa.
«Se togli noi e le donne l’economia va a puttane» chiosa iMac.
Due sere prima, a una cena prenatalizia a casa di un amico di iMac, un fotografo di moda che abita nel nulla (vicino ad Abbiategrasso), avevo discusso animatamente con il padrone di casa creando imbarazzo. A una mia osservazione su «Milano» come città retrograda a causa delle fissazioni su stile ed eleganza lui ha reagito stizzito: «Sono stato a Roma e a parte quaranta burini non ci ho visto molto».
«I burini sono quelli che si acchittano la domenica per andare a messa, o quelli che si acchittano in generale per delle occasioni. Se questa è la capitale della moda non può esistere niente di più burino.»
A un momento di silenzio è seguita un’altra mia sparata: «Napoli è la città più moderna d’Italia».
«Sì perché adesso a Napoli nessuno si acchitta, come dici tu.»
Il resto della conversazione si è persa nella confusione delle idee («No ma è proprio un fatto di mentalità!») più che della festa – eravamo rimasti in cinque.
Una ragazza molto carina, produttrice di video, anzi video producer, versandosi della vodka liscia ha detto che, moda o no, New York non le piace: «Mi ha schifato la cosiddetta cultura dei neri – sembrano gazze ladre: un po’ di brillantini e cosine luccicanti e vanno fuori di testa. Harlem poi è un letamaio».
Perché mi viene da pensare, in retrospettiva, che quello è un pensiero moderno, per quanto razzista? Sminuire tutto è la chiave della modernità. Il nuovo fascismo è di sinistra. Essere fichi significa dire la cosa giusta adesso. Essere intelligenti aiuta a dire cose fiche. Il fico (il cool) è la categoria estetica che ha colonizzato il mondo intero, forse grazie al suo essere effimera. Dire fico è come dire bello, ma in chiave più escatologica, con la data di scadenza: è una bellezza che finirà. Una cosa non è fica per molto tempo, non è mai assoluta né vuole esserlo, è fica adesso perché risponde a un’esigenza momentanea, colma un vuoto semantico con una parvenza di senso. Gli esseri umani allora, la cui bellezza sfiorisce, sono più fichi che belli? La bellezza di una persona, se immortalata, resta tale. La stessa persona, giudicata fica in un certo momento della sua vita, può essere ritenuta il contrario di fica anche poco tempo dopo, a condizioni immutate.
Niente e nessuno è fico a Capodanno 5, nemmeno iMac e io. Veniamo fatti accomodare in primissima fila, subito dietro ai divanetti degli ospiti. Siamo dietro a Brando Giorgi e Melita Toniolo, rispettivamente attore di Incantesimo 4, Vivere e Vento di Ponente e concorrente del Grande Fratello famosa per le foto in topless, nonché vincitrice del concorso Miss Pittarello 2004. Ogni volta che inquadrano questi due io e iMac compariamo in video.
Prima dell’inizio delle registrazioni veniamo istruiti dall’animatore, una specie di cheerleader che ha il compito di fomentarci e farci dare il meglio di noi. L’animatore, che molti nel pubblico sembrano conoscere personalmente e lo chiamano per nome a voce alta per fargli domande inutili, è un personaggio abbastanza tonico sui quaranta. Ha un forte accento lombardo e un sorriso che, quando gli si forma in faccia, crea rughe vertiginose à la Joker di Batman. La zazzera, un accenno di brizzolatura, il completo da sartoria senza cravatta, il tono da imbonitore televisivo che ha a che fare con cerebrolesi. A volte risponde alle domande personali di quelli tra il pubblico che dimostrano di conoscerlo, ma lo fa come uno che non ha idea di con chi stia parlando: fa battute standard, mai davvero divertenti, a tratti addirittura triviali. Sicuramente va in palestra due volte a settimana. Sicuramente guida una Bmw, ha una famiglia, lavora moltissimo. Io e iMac lo odiamo dal primo istante ma non abbiamo il coraggio di confessarcelo.
L’animatore ci dice che durante le riprese non dobbiamo dimenticare mai che è Capodanno, che siamo felici di essere lì, che dobbiamo alzarci, ballare e applaudire ogni volta che c’è un medley o un ospite musicale e che quest’anno a mezzanotte non si farà il trenino ma ci sarà un tripudio di coriandoli, luci e colori (lui non usa la parola «tripudio»). Si comincerà con Raf e noi dobbiamo cantare a squarciagola tutte le canzoni – l’animatore canticchia Battito animale per metterci nel mood giusto. Poi ci saranno i medley degli anni Settanta, Ottanta, Novanta e Zero. Quando ci sono quelli dei vari musical (La Bella e la Bestia, Il libro della giungla, Flashdance, eccetera) dobbiamo divertirci un casino. Dobbiamo sorridere sempre. Dobbiamo applaudire quando gli ospiti dicono qualcosa (più tardi capiremo che dovremo ridere soprattutto con Platinette, dato che Barbara D’Urso si rivolgerà quasi esclusivamente a lei – avrà un contratto diverso? Sarà ritenuta più affidabile o sagace degli altri ospiti? Noi comunque applaudiremo anche quando Daniele Interrante si lancerà in un’invettiva di otto parole contro l’omofobia).
L’animatore ha un atteggiamento un po’ da pastore un po’ da motivatore, nel senso che ci tratta un po’ come animali un po’ come clienti paganti – cosa che non siamo ma da noi dipende l’effetto-gioia scalmanata del programma. Ci tiene davvero che ci mettiamo in testa che oggi non è il 19 dicembre ma il 31. Ripete continuamente «È il 31 dicembre capito? È il 31 dicembre! Festa! Allegria! Dai ragazzi! Dai!» Lui dice «dai» ma io penso «die», in inglese. Anche questo lo tengo nascosto a iMac.
Nel bel mezzo di una spiegazione farraginosa sulla struttura in blocchi del programma una voce sovrasta quella dell’animatore e annuncia che è arrivata Barbara.
«Ragazzi è arrivata Barbara, dai, tutti in piedi per Barbara!» ci incita l’animatore. E la D’Urso entra nello studio, ancora col cappotto, saluta i registi e i cameraman, fa ciao con la mano al pubblico ai due lati dello studio, prende il microfono e ripete con tono meno da esaltata dell’animatore che è importante che ci divertiamo perché ci saranno un sacco di ospiti fichissimi, balletti, il mago Silvan, uno che si infila le spade in gola, cantanti, i Neri per Caso, Valeria Marini (è lei a sottolineare il nome con il tono della voce ma il pubblico sarebbe andato in delirio lo stesso) e tanti altri. Ci chiede per favore di essere entusiasti. L’applauso alla fine arriva spontaneo e quasi sobrio, se non proprio dimesso. In molti vogliono bene a Barbara, iMac e io lo capiamo dai commenti sottovoce, queste persone le vogliono bene sul serio.
Mia nonna, prima di perdere definitivamente l’uso del pensiero, era famosa in famiglia per le sue uscite caustiche davanti alla televisione. Ogni volta che la guardava il tenore dei suoi commenti davanti a qualunque programma era «Che schifo tutto». Poi, col tempo e il montare di rabbia e demenza senile, non si sa quale delle due abbia determinato l’altra, forse un concorso di colpa, nonna era passata a «Sono tutte puttane. Stronze e puttane. Stronze, puttane e froci. Mi fanno schifo tutti, quei maledetti». I bersagli dei suoi improperi erano indiscriminati. Si andava dalle giornaliste televisive ai politici, dai presentatori dei programmi per bambini alle attrici delle soap, da quelli delle pubblicità ai cantanti, ai colonnelli dell’aeronautica. Era come se, per mia nonna, il semplice fatto di apparire in televisione fosse sintomo di corruzione morale. Qualcun altro avrebbe detto invidia, ma lo avrebbe detto oggi, e col senno di poi ci sono buoni tutti. All’epoca ci si vergognava di voler finire in televisione.
In qualche modo, da bambino, avevo fatto mio quel modo di vedere l’oggetto televisivo. C’erano voluti anni per riuscire a liberarmi di una serie di preconcetti che poi, soprattutto negli anni della mia fiacca contestazione liceale, con tutta la retorica sinistroide pseudo-intellettuale da cui mi lasciavo bombardare, mi affollavano il cervello rendendo la televisione la fonte indiscussa di molti mali, se non proprio di tutti.
Il 19 dicembre 2010, negli studi di Cologno Monzese, circondato da esaltati in estasi, tutti quei rigurgiti anti-televisivi si stavano riaffacciando, ma grazie a iMac e alla paura del suo giudizio riuscivo bene o male a tenerli a bada. Poi però ho detto: «Personalità televisive – una contraddizione in termini». iMac mi ha dato una carezza sulla gamba come se provasse pena per me.
Dopo due ore di attesa su delle panche scomodissime – anzi, dei cubi – finalmente comincia la trasmissione. È esattamente come deve essere: poche chiacchiere, tanta musica, balletti e performance automatiche. L’esibizione di Raf rievoca successi vecchi e nuovi. Silvan si produce in una magia che noi, dalla parte opposta dello studio, non riusciamo a vedere. I balletti tratti dai vari musical – la maggior parte dei flop, mi racconta iMac – sono delle danze da parco a tema Disney, i ballerini persi nel vortice di luci ed entusiasmo isterico del pubblico. Però l’esibizione più inquietante è quella dei Turbolenti, i comici di Zelig travestiti da Teletubbies, che non riescono a strappare una risata a nessuno e l’animatore deve sbracciarsi dal centro dello studio per farci capire che ci stiamo divertendo. Poi Valeria Marini che fa i soliti balletti in cui fa il verso alla Monroe; a un certo punto arriva Pamela di Non è la Rai che balla, pure lei, e ha un sorriso fisso spaventoso che sembra un’overdose di botulino; poi alcuni interventi di Platinette che canta e balla come se non fosse se stessa; Patrick e Serena della quarta edizione del GF che fanno una gag di difficile lettura con una scarpa di Platinette; Angela Melillo, vincitrice del reality La Talpa, che fa l’ennesimo balletto in cui viene sollevata da ballerini veri; Eva Henger che mangia e beve come fosse a casa sua; Brando Giorgi che sfoggia una maglietta provocatoria con su scritto «È fame di pane ma soprattutto… è fame d’amore! Buon anno» e che poi, ed è davvero il clou della serata, durante una pausa dice rivolto a noi del pubblico: «Ricordatevi, nella vita contano solo due cose: l’amore e la fede».
«Grazie, Mediaset!» risponde iMac scoppiando a ridere accanto a due ragazze con gli occhi lucidi.
Alla mia destra una signora sui settanta applaude Brando Giorgi, o il fatto di essere lì, o applaude alla vita. La guardo turbato, lei mi guarda piena d’amore.
«Non ho mai visto nulla del genere» dico.
«Io è la quinta volta che vengo con mia figlia» fa, indicando la signora sovrappeso accanto a lei.
«Che invidia…» faccio, e poi aggiungo che i ballerini sono tutti bravissimi.
«Sì», la signora è d’accordo con me. Segue una breve rissa per accaparrarsi i cappelli coi lustrini che dovremo indossare a mezzanotte. Alcuni operatori dello studio li lanciano tra il pubblico come allo zoo con le noccioline per le scimmie.
Durante un’altra delle pause tra un blocco e l’altro il cheerleader si assicura che nessuno si stia disidratando annunciando che al termine delle registrazioni ci sarà uno dei buffet per cui è famosa Mediaset. Siamo seduti da cinque ore. Apparentemente solo iMac e io abbiamo fame, sete e mal di schiena. Gli altri, gli habitué, sono tutti ben svegli. Uno di loro, che indossa un cappello da cowboy ed è stato particolarmente rumoroso nel corso della trasmissione, si lancia su di me quando nota che Valeria Marini si è avvicinata alle postazioni di Brando Giorgi e Melita Toniolo e vuole a ogni costo farsi una foto con lei. La chiama numerose volte: «Valeria! Valeria! Valeria! Valeria! Valeria! Valeria!» e quando quella si avvicina, guardando altrove e scattando foto al pubblico e all’aria con la sua macchinetta, come se davvero stesse vedendo qualcosa, lui mi passa il suo apparecchio intimandomi di scattare, rendendomi così suo complice. Perdo qualche istante per togliere lo zoom e Valeria già si allontana, lui la prende male e mi ringhia «E che cazzo!»: per lui la cosa evidentemente ha molta importanza. Vari «Valeria!» dopo, quando questa donna colossale, rimbalzando da un lato all’altro della nostra porzione di studio come la biglia enorme di un flipper immenso ricapita vicino a noi, riesco finalmente a scattare la foto e l’uomo sembra soddisfatto del risultato. iMac si congratula con me: «Se non ci riuscivi stavolta quello ti ammazzava».
E poi arriva il momento del conto alla rovescia. Lo facciamo con Barbara, Platinette, una giornalista di Studio Aperto devastata dalla chirurgia estetica, i musicisti dell’orchestra e i loro classici, le loro hit, ci teniamo per mano e siamo pronti a saltare felici, a baciare tutti e a farci gli auguri. L’animatore ci ha ordinato di essere credibili. Allo scoccare dell’ora una tempesta di cartoncini lucidi e colorati esplode nello studio, la musica arriva a un livello insostenibile e così le grida di tutti, del pubblico non pagato e dei professionisti dello spettacolo che sanno gestire la finzione perché gli dà il pane – tutto si riflette su tutto e questa messinscena del festeggiamento con dodici giorni d’anticipo riesce a rendersi credibile in qualche oscuro e chiassoso modo, al punto che gli abbracci della gente sembrano sinceri e l’entusiasmo non posticcio. Chissà per la gente a casa.
Se hai guardato Capodanno 5 in televisione e l’hai fatto con attenzione, anziché brindare a mezzanotte e augurare buon anno ai tuoi cari, forse hai notato, in mezzo ai lustrini e alle ballerine di samba, due figure immobili coi capelli pieni di coriandoli luccicanti. Quelli eravamo iMac e io. Brando Giorgi ballava con Eva Henger, noi comparivamo a intermittenza dietro di loro. Intorno a noi mostri famelici con le macchinette fotografiche, i cappellini a punta e i finti boa di struzzo. Hai notato che noi non ci muovevamo di un millimetro? Non eravamo atterriti dalla finzione, non stavamo facendo gli snob, ma, a differenza degli altri del pubblico, quelle creature entusiaste e assurde, dopo tutte quelle ore avevamo fame ed eravamo davvero molto stanchi. Così stanchi che al buffet, quando iMac mi ha chiesto di fargli uno scatto insieme a Pamela di Non è la Rai, la foto è venuta male. O era la realtà (se così si può dire) a essere sfocata?