A tutti servono buoni amici
di Ferdinando Morgana
È aperto il microfono, mi sentite? Però, davvero strano stare davanti a tutti in chiesa. Non l’avevo mai vista da questo lato, mai stato oltre la prima fila di panche. Non ho mai neanche parlato a così tante persone. Quanti siete. Innanzitutto grazie, non pensavo che sarei riuscito a parlare qui oggi, so che ci sono molte altre persone che avrebbero più motivi di me per salire qui e dire qualcosa. In più è davvero difficile essere l’ultimo, soprattutto quando vieni preceduto da chi sa usare le parole molto meglio di te. È a questo che si riduce tutto, no? Parole. Solo parole. E sono certo che tutti ci stiamo chiedendo a che servono le parole oggi. Che ce ne facciamo, cosa c’è da aggiungere? Con le parole si arriva solo fino a un certo punto. Ti possono togliere dai guai, sì, ma anche mettertici. Non ti possono ricostruire la casa dopo che è stata consumata dalle fiamme, non ti pagano i debiti. Non ci sono le parole lì a scaldarti mentre te ne muori di freddo su una panchina della stazione, e il treno non si decide ad arrivare, e le dita cominciano a diventarti blu (che difficilmente è sinonimo di salute). Ma il punto oggi lo sapete meglio di me: le parole non possono guarire la persona a cui vuoi bene. E allora perché stare qui a tenere discorsi? Ecco, io penso che sia perché quando tutto è andato, non ci rimangono che le parole. E forse, dopo che tutto è andato, usare le parole è l’unica battaglia buona che ci resta.
Fino a che non ho compiuto dodici o tredici anni, i miei genitori non mi hanno mai portato ai funerali. Nonni, vicini di casa, parenti, niente. Era il loro modo di tenermi lontano da un tipo di dispiacere troppo profondo. Dicevano che la morte era troppo difficile per starci accanto un pomeriggio in chiesa. Io ubbidivo perché sono sempre stato obbediente – poi non lo so quand’è di preciso che ho iniziato a guastarmi – però ci ho sempre pensato lo stesso, e mi rispondevo che non c’era poi niente di così misterioso nel mistero della morte. È finita, non c’è nulla da aggiungere – a parte tutte le preghiere che ti arrivano per sapere i numeri del lotto. No, seriamente, non dico per l’aldilà o il nulla o per qualunque cosa pensate ci sia dopo, ma proprio per la morte in sé: da ragazzino continuavo a pensare che fosse una cosa davvero ovvia. Ci ho messo molto tempo, ma alla fine anch’io ho capito che è soprattutto un mistero insondabile ed enorme: sei una cosa viva, che respira, affamata, hai opinioni – magari non tutte condivisibili, o degne di essere dette, ma comunque tue – e di colpo passi a non esserci più. Più nulla, finita, chi ti ama non ti può più incontrare in nessun luogo del mondo. Un essere così pieno di ricordi, mosso da desideri, in continua ricerca di assoluzione per le proprie contraddizioni, affamato, ogni giorno affamato, frustrato da difetti, indeciso, sospeso dai rimpianti che non ti fanno prendere sonno la notte, e poi? Che fine fa tutto questo? Dove vanno, tutti questi desideri, tutte queste passioni, mi chiedevo. La risposta di mia madre era che è come l’amore quando finisce: non ha senso chiedersi che fine ha fatto, ma l’importante è che c’è stato. Sì, lo so, una metafora non molto brillante. Ma resta il fatto che ho di fronte la prima fila e mi piacerebbe tanto sapere dove sono adesso i desideri e i ricordi di Helen, perché così potrei dirlo a Giorgio a Chiara e a tutti gli altri, e regalarglieli, e vederli piangere un po’ meno, con gli occhi neri grandi come pugni nascosti dietro gli occhiali da sole.
Un’altra cosa che mi diceva mia madre da bambino è che le parole non sono altro che una variante del furto. «Variante del furto», proprio così, diceva che quando uno cerca di convincerti di qualcosa ti sta già derubando. Ti toglie la possibilità di decidere e di farti un’opinione da solo. Forse è esagerato, ma sono cresciuto pensando che mia madre avesse ragione, quindi adesso mi sento un po’ a disagio a parlare davanti a così tante persone e a convincerle che magari da domani inizieranno a stare meglio.
La sera che ci siamo conosciuti, Helen mi ha detto una cosa che all’inizio non ho capito fino in fondo: mi ha detto che la consolazione ha solo bisogno di tempo, e che anche i margini hanno bisogno di tempo. Intendeva i margini di una ferita. Era una sera dello scorso ottobre, stavo tornando a casa dal lavoro e mi capita questo orribile incidente con la macchina. Pioveva a dirotto, avevo dormito poco la notte prima; ero stato con mia moglie quasi fino all’alba al Pronto Soccorso ostetrico (nono mese, terzo figlio) – insomma falso allarme, nessun parto in vista, notte in bianco in reparto e giornata successiva in ufficio. In poche parole quella sera stavo guidando crollando dal sonno, un occhio aperto e un occhio chiuso per intenderci. Un’ombra mi attraversa la strada, forse un animale, o forse l’avevo solo immaginata, insomma sterzo bruscamente, controsterzo d’istinto e perdo aderenza, vado dritto a una curva, attraverso in pieno un’aiuola, finisco in un controviale e vado a sbattere contro un’auto parcheggiata sotto una palazzina anni sessanta. Un botto coperto a stento dallo scoppio degli airbag e dalla sirena dell’antifurto dell’altra auto. Muso della macchina completamente rientrato e sei mesi di gesso alla gamba. Quella sera Helen è stata la prima persona a soccorrermi.
Ha aspettato che arrivasse l’ambulanza, ha avvertito mia moglie e mi ha tenuto compagnia tenendomi sveglio in modo che non perdessi i sensi. Ha anche lasciato un biglietto con i miei dati sul parabrezza della macchina parcheggiata, per inciso la sto ancora ripagando. Insomma, mentre aspettavamo Helen mi ha raccontato della malattia, forse per farmi vedere che c’è chi sta peggio, non so, e ha aggiunto che la consolazione ha bisogno di tempo, e che anche i margini della mia ferita alla gamba ne avrebbero avuto.
E quella sera mi sono chiesto: dov’è la mia morte? In che angolo si nasconde? Dov’è seduta, o distesa, o nascosta vigile, pronta ad afferrarmi, a colpirmi? Dov’è? Forse già dentro il mio corpo, addormentato, avvilito, inconsapevole. O in qualcuno che mi tende la mano e domani mi tenderà un coltello. O nello sconosciuto, nel suo passo, dietro il suo cappotto, tra le sue mani. In che mani sta riposando adesso la mia morte? Dove sta tremando di paura, da quanto tempo sta pensando a me? Quando è nata e chi l’ha vista nascere e chi l’accompagna o la custodisce o la merita? Chi me la porgerà? Sarà un atto di clemenza la mia morte o un atto di giustizia di tutti gli uomini contro uno solo? Cosa avrò fatto per meritarmela? Da quanto tempo è in cammino e con che occhi la vedrò e come mi riconoscerà? mi sono chiesto quella sera. Quando mi incontrerà, e capirà di essere la mia, cosa dirà per farsi riconoscere? E io, allora, cosa le dirò chinando il capo?
Forse sarà solo come continuare a camminare senza essersi resi conto di aver cambiato passo.
Magari vi potrà sembrare stupido, ma penso che adesso Giorgio, Chiara e tutti noi qui dentro siamo davvero dei margini, e dobbiamo solo iniziare a darci tempo. Solamente tempo. E mentre mi avvicinavo all’altare e salivo i gradini, pensando a quanto siamo rimasti più poveri da due giorni a questa parte, mi sono chiesto cosa avrei potuto aggiungere a quanto era stato già detto. Ci sono stati dei discorsi pieni di saggezza, di comprensione, discorsi ispirati, commoventi, e a me questa è l’unica metafora che è venuta in mente. Non guardatemi male, non sono mai stato un oratore capace, non ho perle di saggezza da regalare e non ho pane per i denti di tutti. E mi ripeto, e spesso. A casa in realtà l’avevo preparato un discorso, ma neanche quello era un granché, e a questo punto penso che lo lascerò nella tasca della giacca. Magari qualcuno lì dal fondo potrebbe farmi un cenno se divento noioso ed è il caso che la smetta. Voglio dire, approfittatene. Dico sul serio, potete fermarmi se volete, e risparmiarvi altri dieci minuti di parole a braccio sul senso della vita.
L’unica cosa che posso aggiungere adesso è dirvi grazie per essere venuti qui a ricordare Helen, non ne ho nessun diritto, non sono un parente, ma ero un buon amico ed è questo ciò che gli amici fanno. E ora c’è una chiesa stipata di brave persone che mi guardano: non conosco la maggior parte di voi ma ho visto che ci sono gli amici, i colleghi, anche il club del libro, ho visto i medici e le infermiere che l’hanno assistita e accompagnata negli ultimi giorni tra noi. Siete tutti qui adesso e sono certo che Helen sarebbe grata di vedervi riuniti per lei, di vedere quello che ho di fronte adesso. Sarebbe contenta di sapere quante persone le volevano bene, riunite per celebrare il loro affetto per lei. Chi può saperlo, forse è proprio quello che sta facendo adesso. Magari è lì in fondo, nell’angolo a sinistra dietro l’acquasantiera, in piedi e ci guarda commossa. E non vorrebbe che piangessimo.
Credo che ognuno di noi oggi, nella desolazione in cui sta combattendo più o meno da solo – perché soffrire è una cosa che siamo condannati ad affrontare da soli, nessuno escluso, anche chi è circondato da chi lo ama – insomma, ciascuno vorrebbe solo sentirsi utile. Sì, un po’ più utile a qualcosa. Vorrebbe affidare a un ultimo gesto il proprio cordoglio, vorrebbe rendere omaggio a Helen e a quello che ha fatto per lui giorno dopo giorno, come amica, moglie o madre. Se c’è qualcosa che i momenti come questo ci insegnano, che la perdita ci insegna, è che dare aggiunge senso alla vita. Non sono originale, non sono il primo a dirlo, ma è così: dare ci rende capaci di provare compassione e di avere indulgenza verso il prossimo. In poche parole ci rende esseri umani migliori.
Sinceramente non so dirvi in che modo fare, ma sono sicuro di quel che dico e so che tra poco, uscendo dal portone ciascuno di voi troverà il proprio modo di imparare a dare. Non dovete farlo per Helen, figurarsi per me, ma ognuno di voi dovrebbe farlo per se stesso, per ricordare a se stesso che oggi ha imparato qualcosa dalla solitudine che sente sulle spalle e per ricordare che è migliore adesso di quanto lo fosse due giorni fa quando ha perso la madre, un’amica o una semplice conoscente. O una cliente, se ho visto bene chi è seduto lì a destra.
Continuo a guardarvi, vi osservo ed è strano perché di solito quando parlo a qualcuno non riesco mai a guardarlo negli occhi. Mi viene sempre da abbassare lo sguardo o da guardare altrove. Invece adesso mi viene naturale guardarvi, forse perché siamo tutti chiusi qui dentro a cercare di fare la stessa cosa, vogliamo dimenticare e ricordare Helen. Faremmo di tutto pur di riuscire a dimenticare che è morta e faremo di tutto pur di ricordarla per sempre.
Lo so che non sarà un po’ di retorica rabboccata a farvi stare meglio, ma penso dobbiate uscire da qui e fare sul serio qualcosa, essere aperti, cercare qualche nuova possibilità nel mondo. È il modo migliore per onorare la memoria di una donna che amavate. Aperti alle possibilità del mondo. Dovreste dare una mano ai vicini se ve la chiedono, sarebbe anche l’occasione per scoprire finalmente come si chiamano. Non so, offrire una cena agli amici, uscire, imparare a fare il pane, a conversare in un’altra lingua, cose del genere. Voglio dire: se in questi giorni doveste ricevere una visita inaspettata, non chiudete la porta, non siate sospettosi come ci hanno insegnato, dovreste aprirla la porta. E se in quell’occasione vi proponessero di prendere un aspirapolvere, mettiamo, ecco io penso che non dovreste rifiutare. Si tratta di un onesto lavoratore, è lì per poter dare un’istruzione ai propri figli, per pagare le bollette e per regalare qualcosa a sua moglie per il loro anniversario (che per fortuna quest’anno non ha dimenticato). Comprate quell’aspirapolvere. Per questa volta, un gesto, uno solo: comprateglielo e non badate a spese, sì, ricambi inclusi. E se vendesse spazzole lo stesso, e se fossero assicurazioni, uguale. Assicurazioni. Assicurazioni sulla casa, sulla macchina, sulla vita, piani pensionistici integrativi, magari. Perché no? Un contratto di assicurazioni in più per un onesto agente che si sveglia all’alba e lavora tutto il giorno. Se lo merita. E ve lo meritate voi di dimostrarvi gentili e cordiali.
Non so se tutti in questa chiesa ci crediamo davvero, io non sono quello che si dice un praticante devoto, lo ammetto, ma penso Helen ci guardi e certo capiterà a ciascuno di noi di guardare i propri cari da lassù prima o poi. E non vorremmo per nulla al mondo lasciarli senza certezze per il futuro. Non dovreste negarvi la possibilità di firmare per un investimento ad alto rendimento. Se oggi abbiamo imparato tutti qualcosa è che Helen avrebbe voluto che ci rispettassimo, ci volessimo bene e pensassimo agli altri prima che a noi stessi. I nostri figli si meritano che pensiamo per primi a loro, il mio terzo era in arrivo a ottobre e adesso ha già qualche mese. Si meritano che investiamo per loro.
È per questo che vorrei offrirvi io la possibilità di dare per primi il buon esempio: distribuirò tra poco dei biglietti da visita, brochure e altro materiale conoscitivo, conservatelo oppure sentitevi liberi di chiedermi subito tutte le informazioni che desiderate per la stipula di una polizza sulla vita. Fatevi questo regalo, oggi più che mai.
Credetemi, a tutti serve un buon assicuratore come amico. A tutti servono buoni amici. Grazie.