L’estraneo

Autore: Tommaso Giagni
Casa editrice: Einaudi
Pagine: 156

C’è stato il tempo dell’appartenenza, dell’auto-identificazione geografica: era prima dell’obbligo a studiare fuorisede, dei voli low cost e di quella sterminata rosa di prospettive lavorativo/esperienziali che induce la Generazione X a non stanziarsi prima dei trenta, per poi magari pentirsi del luogo prescelto. Vivere dove si è nati, questa non scelta de-responsabilizzante, è ormai appannaggio di chi autoctono lo è non solo anagraficamente. Lo impara sulla sua pelle l’io-narrante de L’estraneo, esordio letterario di Tommaso Giagni (classe 1985).
Il presupposto è che “ci sono una ‘Roma delle Rovine’ e una ‘Roma di Quaresima’, e tutto sta nell’essere figlio di questa o di quella”. Nella prima i giovani fumano Davidoff a bordo di Ligier e indossano “cravatte dalle etichette altisonanti”: è la “Roma bene”, nella quale il padre del protagonista è sbarcato vent’anni prima, dal Quadraro, a lavorare come portinaio. Ma inutili sono “i travestimenti da famiglia bene”: si può cambiare domicilio ma non DNA, l’estrazione sociale ti segna persino nella fisionomia e non basta una generazione a integrarsi.
Ecco perché il ventenne de L’estraneo, scosso dalla rottura con Alba, decide di tornare laddove è stato partorito, nella seconda Roma, quella dei body-builder epilati, delle auto col tuning e del malcontento. Qui convive con il gigolò Andrea, che lavora sodo per comprarsi una Ferrari; frequenta una palestra, dove lega con “l’unico che parla italiano – incerto, cerimonioso, retorico, ma italiano”; assiste a ordalie anticonsumistiche (il cosiddetto Sabato del Fuoco); e arranca con Marianna, lei sì della Roma bene, che in periferia cerca un sostituto di Brando, un coatto che “la chiamava ‘Fontanella Borghese’ perché la faceva squirtare” e col quale l’Estraneo non può competere in termini di virilità. E dire che la ex, “semitrasparente” e colta, lo trovava grossolano.
Ispirato studente d’arte (vede Hopper nelle tavole calde e insegue l’ideale estetico dell’Elisa di Balla), l’Estraneo si scopre deraciné irrimediabile, parvenu per l’alta società e smidollato per chi vive la strada. Assorbe la borgata con piglio attento quanto passivo, spurgandola in improvvisi spasmi di romanaccio. Ogni sua esperienza è un fallimento e, come se non bastasse, su di lui incombe una nemesi simbolico/architettonica, (come altrove, per motivi diversi, lo fu un certo “Torracchione”), quel distributore di esistenze che è il Grande Raccordo Anulare.
Giagni firma un romanzo quadrato, impietoso e divertente, (e)seguendo la provocazione di Siti: “Si volete capi’ qualcosa delle borgate, ce venite a sta’ du’ anni e io mi trasferisco a casa vostra”. La sua è una periferia spoetizzata (“Intorno non c’è niente della poesia di Pasolini che immaginavo dai tempi della scuola, niente di quella grazia”) e popolata da personaggi grotteschi (vedi Eros, l’istruttore etiope fascista con due struzzi domestici), nella quale si commemora Liboni sotto la statua di Mazzini, vige un’alienante glocalizzazione e si condividono con i ricchi gli indicatori di status (“la Jaguar XP nel Quartiere ce l’hanno in tanti”): una periferia, insomma, sostanzialmente di destra.
Pur denso di richiami letterari, L’estraneo vive di vita propria. Convince il registro ondivago, colorito da dialettalismi e neologismi (“fattapposta”, “parannanza”, “rugantino”, “svaccampanacciano”, “rumotubature”, ecc). Diversi i momenti memorabili: il succitato Sabato del Fuoco (che amarezza scoprirlo un’invenzione); la scena nella casa dell’infoiata docente, nonché la scoperta di un Seurat originale; il catastrofico incontro con l’Elisa. Sarebbe fuorviante definirlo un “romanzo di formazione”, dal momento che il protagonista rimane “cavo” dall’inizio alla fine. La conclusione è annunciata, ineludibile, perché non esiste conciliazione territoriale: così come lo straniero rimane tale anche quando parla la lingua del Paese ospite, l’Estraneo può fuggire alla propria condizione solo contromano.

 Mauro Maraschi

 

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