Non ci sono pesci rossi nelle pozzanghere
Autore: Marco Truzzi
Casa editrice: Instar libri
Pagine: 232
Un libro come Non ci sono pesci rossi nelle pozzanghere, il primo romanzo di Marco Truzzi da Correggio, sembra essere stato scritto apposta per tempi come questi. Perché i protagonisti della storia appartengono a una minoranza etnica che non di rado si guadagna le prime pagine dei quotidiani e una diffidenza quasi fisiologica, automatica: gli zingari. A Truzzi però riesce una magia mica da poco: mettere da parte la cruda realtà e il sensazionalismo da contenitore pomeridiano per proporre sul piatto di portata una gustosa parabola intrisa di realismo magico e suggestioni gitane, un intreccio denso che trasmette il senso e la difficoltà dell’appartenenza e dell’integrazione e ci restituisce, in un lucore incantato, la dignità di un popolo che fonda le proprie radici sul terreno evanescente della memoria.
Damian, protagonista e voce narrante, prima ingenuo e poi disincantato e ironico, fino ai sette anni sperimenta la certezza incrollabile della sua identità: appartiene al popolo dei romanè, vive in una kampina, una roulotte, insieme ai suoi genitori, nel campo alle porte di Correggio in cui ormai da anni si è stabilita la sua comunità, in una sorta di «nomadismo dormiente». Questa solida appartenenza viene messa in discussione quando i gagi, i non zingari, costringono i suoi genitori a iscriverlo a scuola, catapultandolo così di colpo in un orizzonte di confronto serrato con nuove abitudini e nuove regole. La divisione netta tra due realtà culturali e sociali apparentemente inconciliabili si fa sempre più labile anche perché Eric, il padre di Damian, viene fortuitamente selezionato per diventare il testimonial di una nota casa di produzione di trapani elettrici: la loro famiglia diventa la più benestante del campo e di conseguenza va a vivere in una casetta di legno, con un bel pezzetto di terra intorno, ai margini dell’insediamento. Da quel momento in poi il nostro eroe sarà definitivamente in bilico e dovrà fare i conti con un doloroso sdoppiamento: da una parte c’è suo nonno Roman, depositario di un prezioso foglietto e di storie antiche, ci sono Cab, che ruba la benzina succhiandola dai serbatoi, e Gioele, che cerca pesci immaginari dentro le pozzanghere; dall’altra il mondo dei gagi e il desiderio di farne parte, di essere accettato a ogni costo, fosse anche quello di dover rinunciare alle proprie radici, fuggire la propria natura e adeguarsi tout court a un’altra vita: tutto pur di riuscire a ottenere qualcosa di meglio, pur di agguantare più saldamente una qualche forma di felicità duratura. Anche perché tra i gagi c’è Elisa, compagna di scuola alle elementari e poi anima gemella, con cui Damian pensa di essere in grado di affrontare la difficoltà di strapparsi al suo mondo, per trapiantarsi altrove. Ma la realtà, guadagnata per inseguire un sogno di affrancamento, con quel sogno ha poco a che fare: il passaggio dal dentro al fuori, dall’infanzia all’età adulta, da una tradizione a un’altra è a dir poco disastroso, uno zingaro può anche abbandonare il campo ma il campo non abbandonerà mai lui. Damian lo impara nel peggiore dei modi possibili, perdendo Elisa, la sua nuova prospettiva, e i suoi vecchi amici, Gioele e Cab, il suo passato, verso il quale sente di non poter tornare. «La morale di questa storia» precisa Damian, «è che ognuno dovrebbe essere orgoglioso di ciò che è, anche se a volte è difficile, anche se a volte è doloroso. Perché a conti fatti è meglio per tutti.» Non è possibile ipotizzare una conciliazione tra etnie se si parte dal rifiuto di se stessi, se ad essere diviso in due è l’io stesso dell’individuo.
Il percorso per ritrovarsi è fatto allora di traiettorie eterogenee, di sfilacciamenti e deviazioni, passa attraverso le canzoni di Luciano Ligabue e le parole di Pier Vittorio Tondelli – correggesi doc e guest star inaspettate – per poi riannodarsi grazie al potere unificante del racconto, quello contenuto nei foglietti ingialliti custoditi gelosamente da nonno Roman, depositario delle avventure del vecchio Vince, della storia di Mirko e Katia, di Roman stesso e del suo legame inaspettato con i gagi: perché è la memoria il posto giusto per un popolo di nomadi, l’unico posto che si può sempre chiamare «casa» e che non può mai essere distrutto dalla morte o dal fuoco che tutto divora.
Marco Truzzi ci racconta la storia di un Pollicino moderno, disseminando sapientemente la scia di bricioline che lo riporteranno indietro, al punto di partenza, per poter ricominciare ma questa volta non da zero. Non c’è spazio per il patetismo, Truzzi riesce a tenere in pugno la materia narrativa senza essere mai didascalico e pedante, riuscendo al primo colpo a centrare un obiettivo fondamentale per un romanziere: snudare la poesia che si nasconde sotto gli stracci del diverso, magari proprio dentro la kampina di un campo rom.
Leggendo il romanzo, si percepiscono sottotraccia alcuni echi di un altro esordio letterario molto fortunato, Ogni cosa è illuminata di Safran Foer, un altro intreccio di storie, di memorie e di ricerca di identità, e le pagine scorrono via leggere una dopo l’altra, in un’alternanza quasi musicale tra passato, più o meno lontano, e presente, il tutto condito da un impasto linguistico perfettamente amalgamato, tra caratterizzazione locale e lingua standard.
Forse alla fine l’unico rammarico consiste nell’avere l’impressione che sia finito tutto un po’ troppo in fretta, quando invece ci avrebbe fatto piacere saperne di più di Elisa, di Gioele e di tutti gli altri, dal cantante zingaro Walter a papà Eric: è come se il narratore ce li avesse presentati questi personaggi e poi portati via troppo presto. Oppure magari siamo stati noi a esserci affezionati irresistibilmente e a non essere capaci di staccarci da loro. Come nelle grandi storie che ci raccontavano i più grandi quando eravamo bambini: e poi? chiedevamo sempre. Che succede dopo? Una cosa è certa. No, non ci sono pesci rossi nelle pozzanghere. Ma accidenti, abbiamo creduto che potessero esserci, fino all’ultimo.
Elisabetta Pasca