999
di Francesca Scotti

Non importava quale stagione fosse perché nel Palazzo del Ghiaccio di via Piranesi faceva sempre freddo. L’odore umido degli spogliatoi e dei liquidi refrigeranti mi impregnava la borsa, il body, le calze, la felpa della divisa, ed era sufficiente che aprissi l’armadio di camera mia dove li riponevo perché lo stomaco mi si stringesse. Come sulla pista. Il fatto che io potessi diventare una vera pattinatrice entusiasmava solo mio padre e, nonostante fossi abbastanza brava, ero sempre alla ricerca di valide scuse per non andare agli allenamenti. Poi arrivò una nuova insegnante, Nina, e la situazione cambiò.
Nina era russa, bionda, flessuosa e quando mi affidarono a lei pattinavo già da qualche anno. Si truccava gli occhi di azzurro, argento e varie sfumature di grigio; anche se aveva gli incisivi accavallati come due gambe si metteva uno strato generoso di rossetto ciclamino che luccicava nel bianco della pista. Non era dolce, ma non si accaniva nemmeno sui miei errori come avevano fatto quelle prima di lei, non mi trattava come una bambina e usava il mio nome per intero. Avevo sentito dire che la sera lavorava per Holiday On Ice: nessuno meglio di lei, che teneva il mento perfettamente parallelo al suolo e non si curava dello sguardo degli altri quando si cambiava negli spogliatoi, poteva scendere in pista con un costume di paillettes sfavillanti e una grande coda di piume. Anche se la sua era una presenza spesso silenziosa era impossibile ignorarla. Quando insegnava si metteva una tuta nera aderente con solo una striscia di stoffa colorata a segnarle la vita. Viola, verde oppure oro. Anch’io avrei voluto vestirmi come lei, invece mi toccavano le collant color carne e il gonnellino svolazzante. A volte, mentre spiegava nel suo italiano stentato, un filo di saliva le si tendeva sul buio della bocca oppure una ciocca di capelli le si incollava alle labbra: se non fosse stato per simili particolari avrei pensato che, sia nell’aspetto, sia nella sostanza, non avesse nulla in comune con le donne che avevo conosciuto fino ad allora. Per tutto questo, e qualcos’altro che non sapevo afferrare, desideravo starle il più vicino possibile.
Nina abitava due numeri civici prima del nostro: lo scoprii una mattina, mentre andavo a scuola. La notai scendere da una macchina scura, sfilare le chiavi dalla borsa e scomparire nella palazzina giallo canarino.
«Magari ti sei sbagliata» mi aveva detto mia madre. «Io non l’ho mai incrociata, e, credimi, me la sarei ricordata.» Poi aveva fatto un sorrisino che non pareva rivolto a me.
Ero certa di quanto avevo visto, ma il giorno dopo la interrogai comunque.
«Io non ti ho vista» mi aveva risposto Nina allacciandosi i pattini nello spogliatoio con gesti rapidi.
«Avevi un cappotto bianco lungo e…» ma non mi lasciò finire.
«Sì, ero io. Trasferita qui da poco. Visto tu abiti vicina domani puoi venire al ghiaccio con me.» Nina si alzò e una piccola onda di quel suo profumo alcolico mi raggiunse.
«Veramente?»
Mi guardò come se avessi fatto una domanda davvero sciocca e mi spinse piano verso la pista.
Convincere mia madre non fu semplice, non le piaceva mai nessuno. Volle ovviamente prima parlare con Nina: «Basta che ragazzina è sotto casa mia finito il pranzo. Poi andiamo insieme».
Qualcosa la persuase, forse non dovermi portare in quella «brutta zona di Milano» tutti i giorni.

Quando arrivai all’appuntamento Nina non era giù ad aspettarmi. Attesi qualche minuto leggendo tutti i cognomi sul citofono per tre volte e poi mi decisi a suonare: «Nina», riportava la targhetta. Rispose assonnata, confusa, come se non mi aspettasse. Mi vergognai, non so nemmeno per cosa. «Ah, vero. Scusami. No bene che bambina di dieci anni resta in strada. Sali.»
Veramente di anni ne avevo appena compiuti undici. Nina mi aspettava in piedi davanti alla porta, con il telecomando della televisione in mano. Avevo fatto le scale perché non le avevo chiesto il piano e suonare di nuovo era fuori discussione. La borsa dei pattini e quella del cambio mi pesavano sulle spalle.
«Guarda cartoni mentre io arrivo» mi disse senza salutare. Abbassai gli occhi, non mi decidevo a entrare.
«Che faccia! Forse non ti piace televisione?»
Arrossii. Mi piaceva, e molto. Ma a casa mia esisteva un divieto assoluto di accensione, da sempre. Anzi, mio padre minacciava di sbarazzarsene del tutto a giorni alterni: «messaggi sbagliati» era la premessa di ogni sua argomentazione in proposito.
Nina con un cenno mi indicò una poltrona rossa davanti allo schermo, sovrastato da piccoli soprammobili a forma di pattino, uno più brutto dell’altro. Tra questi una foto incorniciata: accanto a lei un uomo con la faccia squadrata e gli occhi ancora più azzurri dei suoi. Non sorridevano, ma lui le cingeva la vita.
Il canale lo scelse Nina e mi lasciò sola davanti alla tv accesa: un cielo cupo, un treno volante che lo attraversava. Una donna con lunghi capelli biondi in compagnia di un ragazzino viaggiava in una carrozza vuota, percorsa da lampi di luce. Il ragazzino aveva una maglietta rossa e dei pantaloni blu.
«Guarda, un altro treno! Il 777.»
La donna indossava un lungo cappotto nero stretto in vita, con la mantellina a cingerle le spalle e la gonna a campana, tutto bordato di pelliccia. Sulla testa, posato come una corona, un colbacco.
«Fa servizio fra pianeti vicini di questa zona.»
E un controllore, non un essere umano ma del buio con la divisa.
«Su richiesta di molti passeggeri faremo una fermata straordinaria su Nuruba, il pianeta senza forma. Ci fermeremo esattamente quattordici ore terrestri.»
Non mi ero tolta neanche la borsa dei pattini e la sentivo schiacciarmi il fianco. Le collant sotto i pantaloni sintetici mi prudevano.
«Un pianeta senza forma?»
«Ormai ti sarai accorto che nello spazio esistono tanti pianeti diversi tra loro. Nuruba è uno dei più strani.»
«Non immaginavo che ne potesse esistere uno così.»
«Fino a ora nessuno è riuscito a definirne la conformazione esatta, Masai.»
«Vuoi dire che cambia sempre? Che un giorno ha una forma e il giorno dopo ne ha un’altra?»
«E non solo, anche il tempo è indefinito…»
Ero talmente assorta che quando Nina disse «Eccomi, andiamo. Spegni televisione» sussultai. La puntata non era ancora finita, e io continuavo a guardare. «Ho detto spegnere» scandì Nina.
Premetti il tasto rosso e appoggiai in fretta il telecomando sul mobile di cristallo davanti alla poltrona: riviste di biancheria intima e una di abiti da gran galà, o qualcosa del genere, lo coprivano. Prima non le avevo notate. Sentii gli occhi di Nina strattonarmi e la raggiunsi.

Quanto successe quel pomeriggio si ripeté ogni volta: non solo Nina non era mai pronta per uscire, ma sembrava essersi appena alzata dal letto: una camicia da notte nera con le spalline di tulle, o una canotta della Nike con il simbolo quasi cancellato. La pelle sottile, senza trucco, i capelli legati in una treccia.
«Lavoro fino tardi» si scusava lei. Ma io ero felice per quel tempo sospeso, perso davanti alla televisione.
«Sei il cavaliere nero?»
«Hai indovinato ragazzo, ma tranquillizzati. Non devi avere paura di me. Se farai di buon grado quello che ti dico non ti ucciderò.»
«E che cosa dovrei fare per te?»
«Non molto. Voglio solo che tu viva qui con me.»
«Vivere qui? Non ci penso nemmeno.»
«Aspetta, devo parlarti. Ho girato l’universo in lungo e in largo e ora mi sento solo. Ho fermato tanti treni nel tentativo di farmi degli amici ma i miei tentativi sono tutti falliti.»

Nina guidava una Twingo viola e non accendeva mai il riscaldamento. Qualche volta parlavamo, o meglio, mi faceva delle domande.
«Vai bene a scuola?», «Tu hai fratelli?», «Ti piace pattinare?»
Altrimenti restavamo in silenzio con la radio accesa.
«Hai un fidanzato?» mi aveva chiesto un giorno.
«No.»
«Nemmeno uno che ti piace?»
«Be’, uno sì, è della quarta C, ma a lui piace Roberta.» La canzone in onda finì. «E tu ce l’hai un fidanzato?» aggiunsi.
«Io?» intanto eravamo arrivate al parcheggio sotto al cavalcavia vicino al palazzo del ghiaccio, la freccia ticchettava.
«Io no. Uomini tutti uguali.»
«E quindi non vuoi sposarti?»
L’auto salì sul marciapiede con un forte colpo di acceleratore . Poi Nina spense il motore e si voltò a guardarmi. Sembrava arrabbiata. Sfilò le chiavi dal cruscotto, e io pensai a mia madre che si raccomandava di stare attenta a dove mettevo i piedi in quel parcheggio perché era pieno delle siringhe dei ragazzi che si drogavano.
«Sposarmi io?» si mise a ridere con una voce che non le avevo mai sentito e aprì la portiera.

Mi allenavo tutti i giorni e tutti i giorni salivo a casa di Nina prima di andare al palazzo del ghiaccio. Tutti i giorni guardavo un episodio del viaggio attraverso i pianeti del treno Galaxy Express 999. Lo adoravo, adoravo lasciarmi assorbire e spaventare.
Nel frattempo Nina si cambiava, faceva qualche telefonata parlando in russo. Talvolta alzava la voce e sbatteva la cornetta grigia sul telefono che, nell’urto, trillava. Solo ogni tanto mi guardavo un po’ intorno, ma senza curiosità.
«Masai sarebbe meglio che tu rimanessi sul treno mentre lo riparano. Ti sei ricordato di portarti la pistola, almeno?»«Ma che cosa è successo?»
Però mi accorsi che sul mobile davanti alla tv non c’era più nemmeno una rivista.
«Ci sono dei massi sulle rotaie.»
E che sotto il tavolo della sala non c’erano più quelle scarpe nere con il tacco sottilissimo.
«Ma il controllore che dice?»
«Anche lui non se lo spiega.»

Si stava avvicinando il Natale, non avrei saputo dire quanti episodi del Galaxy Express 999 avessi visto.
Ero comunque riuscita a non farmi sfuggire nulla davanti ai miei genitori, né delle mezz’ore a casa di Nina né, soprattutto, del primo cartone animato della mia vita. Con mio padre era più complicato perché era lui a venirmi a prendere finiti gli allenamenti. Mi aspettava in moto, fuori dal palazzo del ghiaccio. In realtà ci scambiavamo solo qualche parola ai semafori; una volta arrivati davanti a casa si toglieva il casco per darmi un bacio e poi ripartiva. Tornava in studio, a volte rientrava così tardi che io già dormivo.
Quella sera faceva freddo, quasi lo stesso freddo che c’era in pista. Mi strinsi a lui, la sua schiena era ampia e mi riparava. Il suo giaccone da moto odorava dell’aria sporca della città, di benzina e, solo all’ultimo, del suo profumo.
«Che parte farai al saggio quest’anno?»
«Nina ha detto che posso fare Campanellino, mentre lei sarà Peter Pan.»
«Campanellino è l’amica di Peter Pan?»
«No. Campanellino è la fata. Nina mi ha anche fatto vedere…»
Ci pensò il semaforo verde a salvarmi da quanto stava per sfuggirmi: quel giorno Nina aveva tirato fuori dal suo armadio delle ali argentate promettendomi che avrei potuto usarle. Temetti che mio padre sentisse il mio cuore troppo svelto, così staccai il petto da lui: «Quindi sei salita a casa sua?», «È già capitato?», «E mentre lei si prepara tu cosa fai?» Non ero brava a mentire, mi facevo sempre scoprire. Per fortuna lui era ripartito senza domande. Forse non mi ascoltava davvero.
«Sembra brava questa Nina» riprese all’incrocio successivo.
Avevo annuito senza che lui potesse vedermi e gli ero tornata addosso, sicura del mio cuore ormai calmo.

Mancava una settimana al saggio, quel giorno ci attendevano le prove generali. Ero agitata e, per la prima volta da quando frequentavo casa di Nina, le chiesi di andare in bagno. Non ero mai stata disposta ad abbandonare lo schermo, per me quello era il momento migliore della giornata. Lei mi guardò come se dovesse pensare a una risposta: «Sì, un attimo, è disordine».
La seguii, camminando lentamente. Lei si infilò veloce in bagno e quando riapparve ci incrociammo sulla porta: lei con un mucchio di vestiti in mano e io con gli occhi bassi. Non permise che mi chiudessi dentro e la sua ombra in attesa rimase nitida oltre l’inserto di vetro smerigliato. C’erano molte cose accanto al lavandino e sulla specchiera, così tante da confondermi. Una testa di polistirolo con una parrucca blu a caschetto, una mascherina per coprirsi gli occhi, simile a quella che usava mia madre se riposava nel pomeriggio, ma di plastica nera. La sagoma dietro la porta si mosse e io non mi lavai neanche le mani. Uscendo sentii di aver calpestato qualcosa di morbido: un grumo di pizzo rosa e perline nere. Feci per raccoglierlo quando mi accorsi che erano mutande. Nina tossì al di là del vetro allora io uscii svelta per tornare sul divano. Solo in quel momento mi accorsi che la foto sopra la televisione era stata sostituita da una più grande.
«Masai, presto, svegliati. Dobbiamo tornare in albergo, il controllore sarà in pensiero.»
«Io sto bene. In più è successa una cosa strana, non ho perso la memoria. Se non sbaglio ho sentito dire che ci avrebbero cancellato tutti i ricordi.»
Insieme a Nina c’erano altre due ragazze davanti a una tenda color oro e un uomo, diverso da quello della foto di prima.
«Hai ragione Masai, ma nessuna delle loro macchine ha fatto effetto su di noi.»
«Mi darebbe molto fastidio che qualcuno cancellasse i miei ricordi.»
Nina aveva un costume dello stesso blu della parrucca che avevo appena visto: un body che le lasciava scoperta la pancia, sulla quale ricadevano dal reggiseno frange argentate. Accanto a lei una ragazza di colore, con dei fuseaux neri e lucidi, e poi una rossa con un vestito corto da cameriera con parti di rete.
Wroooom.
«Signora, sono del suo albergo, salga, le darò un passaggio. L’ho cercata dappertutto.»
«La ringrazio molto.»
Dovevano avere un freddo tremendo sul ghiaccio così scoperte. Infatti l’uomo alla loro sinistra era vestito con giacca e cravatta. Anche mio padre aveva una cravatta uguale, a righe diagonali gialle e azzurre. Guardai meglio. Era mio padre.
«Maisha ma perché ci volevano cancellare la memoria?»
«Shhhh.»
«Andiamo.» Era la voce di Nina.
Avevo bisogno di tempo, stavo in piedi, davanti alla foto. Davanti alla televisione.
«Andiamo.» Ora Nina era alle mie spalle. Mi girai di scatto: «Quello è mio padre». Indicai, anche se mia madre da piccola mi diceva sempre che era da maleducati.
Restammo in silenzio, mentre la televisione continuava a raccontare.

Quella fu l’ultima volta che vidi Nina, Peter Pan lo fece la nuova insegnante e io non ebbi le ali argentate per essere una vera Campanellino.
Mio padre, dopo aver assistito al saggio, mentre camminavamo tutti e tre verso il parcheggio, disse che ero stata la più brava e che questa Nina mi aveva preparata proprio bene. «Che peccato non aver fatto in tempo a conoscerla.»
Arrivammo all’automobile e mia madre ripeté la solita cosa delle siringhe, aggiungendo che era buio e quindi ancora pericoloso.
Io ero sul punto di chiedere a mio padre di quella foto, ma lui, mentre si allacciava la cintura parlò per primo: «Tua madre e io abbiamo deciso che da domani, prima di andare agli allenamenti, potrai guardare un po’ di televisione visto che sei stata brava» mi annunciò sorridendo nello specchietto, «tanto ormai sei grande».
«Io però non ho intenzione di insistere quando è ora di uscire» aggiunse mia madre, «quando c’è da spegnere si spegne senza fare storie». Sarebbe tornata lei ad accompagnarmi ogni pomeriggio.
Quelli che arrivano qui si fermano a riflettere sulla distanza che hanno superato. Quando si accorgono che sono andati troppo lontano per poter tornare indietro rabbrividiscono all’idea. Ormai si è in una nuova galassia. Questo è un universo completamente sconosciuto. Ci si trova nella gigantesca nebulosa di Andromeda.
«La prossima fermata sarà sul pianeta della Neve Eterna. La sosta durerà sei ore e sedici minuti.»
«Il pianeta della Neve Eterna… che nome misterioso.»
«Il pianeta della Neve Eterna si può considerare come il portone d’ingresso della nebulosa di Andromeda, ci vivono le ragazze di ghiaccio.»
«Eh? Le ragazze di ghiaccio?»
«Mettiti questi.»
«Che? Occhiali da sole? Hanno le lenti scurissime, non ci vedrò niente con questi addosso…»
«Chi guarda una ragazza di ghiaccio muore.»
«Come?»
«Parecchi abitanti della nebulosa di Andromeda hanno provato a guardare negli occhi una ragazza di ghiaccio ma nemmeno uno di loro è sopravvissuto.»
Davanti allo schermo sentivo il mio sguardo riempirsi. Avevo fatto bene a non dire nulla di quella foto. Credo.

Illustrazione di Diego Gabriele

Diego Gabriele è nato nel 1981. Pittore e illustratore toscano, si fa coinvolgere in progetti a cavallo fra arte e design. Ha esposto a New York, a Berlino e nei posti più impensati di Italia. Collabora con aziende di moda, riviste e musicisti. Ha fondato il gruppo no-sense improponibile.com, scrive e disegna per il blog d’opinione leciane.it ed è alla costante ricerca di un atelier. Il suo sito è: www.diegogabriele.it.

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