«Lei non è mai contento, ragioniere.»
«Ma scusi, insomma, io non… non capisco perché siamo dovuti venire a piedi. Sono circa quindici chilo…»
«Orsù, ma se la immagina la squadra dei falchi che arriva in macchina? Abbi pazienza, siamo nel medioevo magico. Si deve immedesimare. Lei è Gatsu, il grande Berserk. Coraggio, facci una faccia da Gatsu.»
«Così?»
«Di più.»
Uno scricchiolio accompagnò lo sforzo del ragionier Ugo Fantozzi e squarciò la boscaglia. La replica dell’Ammazzadraghi, lo spadone di Gatsu assemblato per l’occasione da un fabbro ferraio molisano molto esoso, pesava un centinaio di chili. Non appena il ragioniere se la poggiò sulle spalle una decina di protusioni si affacciarono tra le sue vertebre, logorate da decenni di postura a esse atta a occultare i fogli della battaglia navale sul posto di lavoro.
«Aaah!»
«Bravo, così.»
Una famiglia di barbagianni, terrorizzata, abbandonò il nido e svolazzò nel crepuscolo.
«Yuppiii-ye!» aveva esclamato il rag. geom. Filini alla notizia, solo pochi giorni prima. E Fantozzi aveva sudato freddo.
«Cosplei… che?» aveva chiesto il ragionier Colsi, ma la domanda era stata sopraffatta dall’eccitazione generale che dilagava per gli uffici della Megaditta ItalPetrolCemeTermoTessilFarmoMetalChimica. Ancor prima di aver capito di cosa si trattasse un giubilante Calboni aveva già buttato dalla finestra la sua bici e il poster di Moser. Il cortile aziendale si riempì di manicotti, gambali, pedali, caschetti, impermeabili antivento, busti di Learco Guerra e sellini di ricambio. Così è la vita. Se vuoi sopravvivere nella giungla una mattina sei obbligato a conoscere a memoria l’albo d’oro della Parigi-Roubaix, ma quella successiva un’altra fregatura avrà fatto arrugginire la catena della tua monoscocca. O forse sarà stata una replica in resina dell’alabarda spaziale di Goldrake.
L’ultima passionaccia del visconte Cobram, Direttore Totale della Megaditta, era la nobile arte del cosplaying, a cui sua eccellenza il Dott. Ing. Gran Mascalzon di Gran Croc. si era avvicinato, così recitavano le cronache di palazzo, su ispirazione delle sue nipotine. E dopo aver visionato a scopo didattico il cartone animato La clinica dell’amore. Messa in soffitta la coppa Cobram, e con essa i velocipedi, le nuove attività ricreative obbligatorie del personale avrebbero avuto come oggetto principale un sano trasformismo.
«Bene» aveva sibilato il visconte, «voglio anche dirvi che mi fanno schifo i dipendenti che la sera si annullano di fronte a quei programmi tutti uguali invece di dedicarsi all’intrattenimento di qualità. Lei, per esempio, conosce Urusei Yatsura?»
Le nipotine del visconte, entrambe agghindate con parrucca verde, due pezzi tigrato e stivali coordinati, puntarono le mani sui fianchi e fissarono Fantozzi. Toccava proprio a lui, tra le centinaia di impiegati che erano stati convocati d’urgenza in sala mensa.
«Mmh… dicesi Urusa, Urusa Sassura… Certo, allora, è la procace prostituta sarda che a… a Diabolik fe’ veder la fess…»
«Basta! Animali. Le cose cambieranno, qui. Voi non avete idea di cosa vi aspetta» tuonò Cobram. E un commando di commessi in tenuta anti-sommossa fece sgomberare la sala.
Quarantotto ore dopo, rintanatosi in casa con un’influenza da panico garantita da una visita fiscale troppo generosa, Fantozzi contemplava la frittata di cipolle che svaporava sul piatto. La birra ghiacciata che attendeva di essere buttata giù con due sorsi voluttuosi. La partita di coppa che nessuna telefonata aveva interrotto.
E ricominciò a sudare freddo.
«Ma non sei contento, Ughino?»
«Sì…» biascicò alla signora Pina, «ma sì… in fondo, di cosa mi lamento? Io ho tutto. Una casa in equo canone, una figlia… meravigliosa, un telecomando a 999 canali, un telefonino pagabile in trecento rate. Una moglie fedele!»
Fantozzi sbatté il pugno sul tavolo e lo spadone che Filini aveva fatto recapitare a casa sua quel pomeriggio gli franò sulla nuca. Il ragioniere colpì la tavola con un colpo d’ariete a tutta fronte e il piatto decollò, descrisse un arco fatale e mentre la frittata si andava a spalmare per terra il proiettile di ceramica centrò la gondola che sovrastava la credenza e il soggiorno di casa Fantozzi. E insieme alla gondola frantumò il telefonino nuovo di pacca che Fantozzi teneva lassù per precauzione.
«Ragioniere, è arrivata la mia sorpresi…?»
L’aggeggio era precipitato dietro il mobile da dieci quintali. Si poté avvertire l’eco della voce di Filini, che aveva chiamato in quel momento, un ronzio e poi più niente, solo un silenzio devastato e vile.
La fregola organizzativa del rag. geom. Renzo Silvio Arturo Filini aveva trovato davanti a sé, finalmente, un obiettivo degno delle sue potenzialità distruttive.
Gentile fannullone,
con la presente la invito alla gara di cosplaying che si terrà la notte dell’eclisse di luna nei giardini di villa Cobram.
Non sono ammesse defezioni.
Visconte Phemt Cobram.
Questo il bigliettino che i dipendenti della Megaditta di ogni ordine e grado si erano visti recapitare dai paggi del visconte.
«Ho saputo che quelli dell’ufficio bustarelle stanno costruendo un modello dell’astronave Arcadia. In scala uno a uno» aveva singhiozzato un preoccupatissimo ragionier Fonelli. «Funzionante.»
«E noi glielo metteremo a ferro e a fuoco» aveva ammiccato Filini attraverso quel telescopio Hubble che portava al posto delle lenti, «lasciate fare a me.»
E così la notte dell’eclisse di luna l’ufficio sinistri al gran completo stava arrancando sul sentiero che si inerpicava in collina fin verso i cancelli di villa Cobram.
L’abbigliamento di Fantozzi: vecchia mantella da strega usata da Mariangela per il tragico veglione di Halloween in terza superiore; cotta realizzata con i telai intrecciati delle bici di Fantozzi e Filini; benda piratesca acquistata da un pescatore di frodo pluri-mutilato; cinta El Charro con fibbia ornata di teschi e fiamme; coltellino svizzero alla cinta; raccapricciante mano metallica, strettissima, plasmata a martellate dal parafango di una Fiat 127 mezza arrugginita e abbandonata in un sentiero di campagna; pantaloni di velluto a coste neri, modello slim fit, acquistati da Piazza Italia alla cifra di nove virgola novantanove euro; mostruosi stivaletti da cavallerizzo fibbiati, color pece, due misure più piccoli, rinvenuti su E-bay con la dicitura «mai usati», rigidi come se fossero stati scolpiti sul marmo nero di Ashford. E infine lo spadone, meno pesante solo della fattura che il fabbro ferraio aveva inviato a casa Fantozzi, ricavato sul disegno della spada di Berserk tratta dal primo, introvabile albo dell’eroe giapponese le cui gesta avevano infiammato il cuore di Filini.
Il resto dell’ufficio sinistri andava a completare l’organico della squadra dei falchi, la compagnia di ventura ideata dal diabolico mangaka Kentaro Miura, che mai avrebbe sospettato di vedere un giorno l’esile, sulfureo spadaccino Grifis impersonato dal pingue geometra Calboni.
Lo stesso Calboni era caduto in una trappola mortale. Il suo ruolo implicava di interpretare il temibile Grifis al punto più basso della sua carriera di condottiero senza scrupoli e spregiudicato amatore. Ma questo, ahilui, lo aveva scoperto a cose fatte. E così adesso Calboni, con indosso un elmetto di cartapesta che ricordava vagamente quello del fantasma del palcoscenico, e rivestito di bende su tutto il corpo, si trascinava ginocchioni al seguito della squadra dei falchi.
«La direzione non transige, bisogna rispettare la caratterizzazione e la storia dei personaggi. Pari pari. Le direttive del visconte Cobram sono chiare» aveva detto Filini, spiaccicandosi una circolare sugli occhialoni. E Calboni aveva dovuto abbozzare. Il successo del suo piano pensionistico in stile vecchia repubblica era nelle mani di quella messa in scena. «Grifis è stato torturato vilmente. Capisce? Tor-tu-ra-to. Non si regge in piedi e per la verità…»
«Per la verità?»
«Ecco, per la verità gli sgherri del gelosissimo re delle Midlands gli hanno tagliato la lingua, le corde vocali, che so… tutto quanto, insomma.»
«Tutto quan… ma scusi…»
«Zac zac.»
Calboni sospirò e continuò a strisciare sui gomiti.
Dietro di lui sfilava la signorina Silvani, che si era calata nei panni di Caska, la feroce guerriera di cui Gatsu era grottescamente innamorato. Con quei capelli a caschetto e quel costume da elfo di Babbo Natale, la Silvani appariva più fuori posto di un Immanuel Kant che tiene una lezione sull’opera Per la pace perpetua agli ultrà di Roma e Lazio poco prima di un derby.
«Fantozzi, lei che se ne intende, non trovi che questa pettinatura mi dona?» e quello aveva mugugnato. Lo spadone Ammazzadraghi oltre a squadernargli la spina dorsale lo aveva fatto ripiegare a ventaglio sulla cassa toracica. Un guaito, quello del ragioniere, che suscitò in Filini l’immagine di un felino in amore sorpreso sul più bello da un cane corso sbavante. «Il solito cafone, per fortuna che c’è Calboni.»
Ma Filini gli fece subito il segno delle forbici e Calboni si limitò a sorridere, se non fosse stato per le bende, che gli impedivano di muovere i muscoli facciali, oltre che di respirare.
La Silvani, piccata, ripiegò nelle retrovie e si accese una cicca.
«Ci siamo tutti?» Filini contemplava la sua squadra dei falchi con il cipiglio d’un alto ufficiale dell’Armeeoberkommando prima della battaglia di Tannenberg. «Ma ragioniere, che mi combina? La benda e la mano di ferro se le deve mettere dopo la consacrazione. Dopo. Cosa le avevo detto?»
«Consacra…?»
«Sì, stii tranquillo, è tutta una recita.»
Filini tirò via la benda di Fantozzi, che gli si era stampigliata a ventosa, e quasi gli strappò un occhio. Poi venne il turno della mano di ferro.
«Uhiunnn…»
«Che c’è? Canta? Le sembra il momento di cantare, questo?»
«Uhiuuuu…»
«Secondo me è Piccola Ketty dei Pooh» suggerì il ragionier Mughini.
«Aaaah… la… la… la…»
«Ma no, è Prendi la chitarra e vai dei Motowns» precisò Fonelli.
«Laah… la mano» esalò Fantozzi nello stesso istante in cui Filini fece saltare la protesi arrugginita con un rumore tipo tappo di champagne.
Filini cadde da un lato, dentro un cespuglio d’ortica. Fantozzi dall’altro, con la mano viola e numerose fratture a falangi e falangette.
Un quarto d’ora dopo la squadra dei falchi si ricompattò.
Fantozzi, prima di riprendere i sensi, sognò san Pio Kenobi che gli faceva pollice verso. Filini era diventato color rosa shocking.
Il resto della squadra era composto dai tremendi guerrieri Judo e Pipin, cioè i ragionieri Mughini e Fonelli, e dal sulfureo ragionier Folagra, l’unico comunista dichiarato della Megaditta, che era stato cooptato da Filini per incarnare l’odioso personaggio di Kolcas. Tutti e tre avevano saccheggiato e adattato alla bisogna gli equipaggiamenti carnevaleschi dei figli e dei figli di amici e parenti. Ma più che di guerrieri medievali avevano l’aria di tre sopravvissuti a un naufragio su di un’isola deserta.
«Bene, bene, bene» giubilò Filini mentre sistemava attorno al collo del cianotico Calboni un ciondolo che aveva come pendaglio un uovo sodo, con tutto il guscio, su cui il reg. geom. aveva appiccicato con il bostik un occhio, un naso e una bocca di plastica, di provenienza incerta.
«Ci muoviamo o no, Fili’?»
«Signorina Silvani, ci siamo quasi. Allora…» Filini impugnò la balestra di Rickert, il suo personaggio, e scoccò una freccia. Il silenzio del bosco addormentato fu subito riempito dall’uggiolio di una bestia ferita a morte. «La freccia ha mancato il bersaglio. Ma non ci scoraggiamo.»
Filini si spostò dietro un pioppo e armeggiò per qualche secondo, poi le fronde si smossero e una sleppa micidiale affettò l’aria. Il trabucco che aveva noleggiato in nero da un custode di Cinecittà funzionava alla perfezione. La squadra dei falchi fu accecata dall’ombra di un masso enorme, che oscurò la luna e proseguì il suo volo micidiale fino a valle, dove si schiantò sull’astronave Arcadia che quelli dell’ufficio bustarelle, come tanti piccoli Fitzcarraldo, stavano trascinando su per il colle.
«E ora in marcia, signori. Undué, undué, undué.»
Quando arrivarono alla villa del visconte Cobram trovarono i cancelli spalancati e una ventina di morti viventi in livrea.
«Ci siamo, ecco i servitori del visconte. Buonasera, buonasera.» Filini era entusiasta, impaziente, ma la squadra dei falchi avanzò per il giardino in un silenzio totale, al passo sbilenco di Fantozzi che trascinava l’Ammazzadraghi e di Calboni che strisciava ginocchioni.
«Che schifo» protestò la Silvani, «‘sti beccaccioni puzzano di morto.»
I domestici avevano fatto ala ai dipendenti dell’ufficio sinistri, scortandoli verso l’ingresso dell’edificio principale. Uno di loro tossì e soffiò via dalla gola uno scarafaggio che gli era andato di traverso.
«Ma… ma ragioniere, ha visto?» domandò Fantozzi al collega, sottovoce.
«Sì. Sono impeccabili» gongolò l’altro. «Ma adesso, signori, tanti saluti a tutti.»
Un grasso, grosso punto interrogativo si manifestò sulle teste dei suoi colleghi, tanto che Filini si sentì in dovere di ripetere il concetto.
«Vado via, eh sì. Come vuole il copione.» Il rag. geom. infilò una mano nella tasca posteriore dei suoi pantaloni a pinocchietto comprati con i saldi e decorati a sbuffi, che aveva spacciato per veri pantaloni medievali cuciti da un costumista d’altissimo livello. «Come potete vedere il mio personaggio, il buon Rickert, non partecipa alla cerimonia.»
Aveva aperto con un dito il numero dodici di Berserk Collection, ma nessuno poté vedere un bel niente, perché gli zombi in livrea si erano messi tra la squadra dei falchi e il rag. geom.; e soprattutto tra la squadra dei falchi e l’unica via di fuga.
«Arrivederci a tutti, allora, buon divertimento. E tanti saluti a sua eccellenza lup. mann. il visconte e famiglia. Io scappo, che ho lasciato la carroz… scusate, la macchina, nel parcheggio a gettoni.»
Filini diede la mano al ciambellano e la mano del ciambellano si staccò e venne giù sul prato inglese con un soffice tonfo che echeggiò a lungo nei padiglioni auricolari di Fantozzi.
«La macchina… come la macchina? Ma mi ha fatto camminare per quindici chilometri.»
Lo avrebbe inseguito per chiedergli ragioni, se non ci fosse stato, tra Fantozzi, Filini e la libertà, un muro di zombi che vomitavano vermi e pus. Così Fantozzi si limitò a raccogliere la mano del morto vivente e restituirla al legittimo proprietario.
«È giunto il momento della consacrazione. Sono lieto che vi siate riuniti in questo luogo. Spero che saprete godere di questa celebrazione notturna.»
Il megadirettore duca conte Pier Carlo Ing. Semenzara era apparso all’improvviso. Sembrava che levitasse sugli immensi scaloni di marmo che la portafinestra della villa vomitava sul patio. Dietro di lui, in un vestito di latex che la inguainava a malapena, la contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare.
«Cari sottoposti, di voi faremo preziosi sacrifizi.»
Calboni, già sfiancato dalla fatica e della strozzatura, alla parola sacrifizi pensò alla sua pensione che andava in fumo e quasi svenne aggrappandosi a Fantozzi, che lasciò cadere lo spadone e cercò di sostenere il collega.
«Oh, che amicizia stupenda, lei, caro Fantocci, sarà davvero un’eccellente vittima. Tutti voi lo sarete. Ciò è indispensabile, d’altronde, per favorire l’avvento del nostro signore Jobs Act» cantilenò la contessa, che adesso teneva a braccetto il Direttore Onorevole Conte Diego Catellani.
E alle due parole jobs e act Calboni svenne davvero.
«Diamo inizio alle danze» chiosò con una certa voluttà il Megadirettore Professor Guidobaldo Maria Riccardelli. «Tutto è già stato definito. I vostri destini sono stati qui riuniti per il sacro momento. La cerimonia del licenziamento collettivo.»
«Folagra, dichi qualcosa, non è comunista, lei? Questi ci mandano a casa» suggerì la signorina Silvani, che si stava dando una sistemata al fondotinta.
Folagra fece un passo in avanti, fronteggiò dal basso i megadirettori con occhi di bragia e li passò in rassegna, pupille contro pupille, uno per uno. L’ultima volta che un impiegato aveva osato guardare negli occhi un alto dirigente, per ritorsione il Gran Consiglio dei Dieci Assenti aveva fatto frustare uomo per uomo l’ufficio sinistri, l’ufficio bustarelle e l’ufficio furti e ricatti. Davanti alle loro famiglie.
Folagra terminò la sua panoramica sugli occhi della contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare. E sollevò, con modestia, un dito.
«Fuss» mormorò la contessa. E un cane enorme, più nero della notte che lo aveva cullato, saltò fuori dal nulla e fece un sol boccone del povero Folagra.
«Siamo noi, esseri straordinari, o è il vostro futuro che vi spaventa?» sussurrò una voce. I megadirettori si scostarono e finalmente fece il suo ingresso il visconte Phemt Cobram, in divisa di gala in stile arciduca d’Austria, intarsiata di Rolex d’oro, diamanti e avorio. «Perché prima di dirigervi verso il vostro futuro, è bene che voi rivediate il vostro passato. La verità nascosta nelle vostre coscienze.»
Phemt fece un cenno papale e il ciambellano, pur con una mano offesa, accese il superproiettore che lo stesso visconte aveva fatto trafugare anni prima dai camion dei Pink Floyd in rotta per Pompei. Come in un sogno a occhi aperti, i dipendenti dell’ufficio sinistri videro scorrere davanti a loro una carrellata di schede elettorali e di candidati impresentabili anche a un pranzo tra ergastolani, candidati che i cari sottoposti avevano sempre votato e ossequiato con estrema deferenza; una sequenza di diapositive ferragostane con code chilometriche accompagnate dalla nuvola dell’impiegato che scagliava fulmini e cateratte sulle utilitarie distese a perdita d’occhio sull’asfalto; un collage di referti del pronto soccorso frutto di devastanti sveglie alle quattro del mattino per infilarsi, muniti di coltello a serramanico e tirapugni, in file assassine davanti ai centri commerciali con i super saldi; un atroce mega mix che rievocava in tutti loro la sottile, inesprimibile angoscia che avevano provato ogni anno durante il festival di Sanremo.
«Basta, per Dio, basta…» uggiolò Calboni con le lacrime agli occhi e le mani sul capo, ormai in stato confusionale acuto.
Cobram accennò un sorriso e il proiettore tacque subito dopo aver accennato il ritornello di Canta con noi dei Future.
«L’avvento del Jobs Act si è compiuto. Questi sono i vostri diritti, cari fannulloni.» Il Direttore Totale aveva tirato fuori alcuni incartamenti da una bisaccia. «Contessa, vogliamo procedere?»
La contessa sollevò tra le palme delle mani un accendino zippo e gli zombi in livrea si strinsero sempre più attorno ai dipendenti dell’ufficio sinistri.
Calboni si riebbe, alzò il capo, si trovò di fronte le zanne di un cane dal muso grande come il cofano di un tir e svenne di nuovo.
Fantozzi si chinò fino a stringere l’elsa dello spadone e avvertì una fitta alla schiena, come se un paranco arrugginito si fosse spezzato e una cassa di ossa fosse precipitata da un dirupo.
«E allora, cara contessa?»
«Non va.»
«Come, non va?»
«Se non funziona, non funziona. Vede? Non va.»
I due celestiali soppesarono lo zippo. L’odore della benzina si era già diffuso nell’aria fresca del giardino, ma nonostante i colpi sulla rondella zigrinata la fiamma non sorgeva.
«Fermi tutti. Io, io, faccio io. Ci penso io.»
In un esercizio di servilismo dettato dall’istinto di sopravvivenza, Fantozzi lasciò andare lo spadone e salì, con qualche difficoltà, sui gradoni della villa. I suoi stivali non avevano ceduto e, se possibile, al freddo di quella notte senza stelle erano diventati ancora più rigidi.
«Dii a me.»
Fantozzi raggiunse l’ultimo gradino, si alzò sulle punte e strappò l’accendino dalle mani rinsecchite della contessa.
«Crumiro!» gli urlò dietro la Silvani.
Stretto lo zippo, Fantozzi puntò il pollice sulla rondella.
«Ma si sbrighi, Fantocci.» Cobram era nervoso. Tutti lo erano, quella notte, perché il futuro stava per piombare su di loro e Fantozzi lo avrebbe innescato.
Il ragioniere alzò gli occhi al cielo, verso la luna ormai color rosso sangue, sfiorò la rondella con un colpo leggerissimo e una fiammata di sei metri illuminò a giorno il prato.
«E brava la nostra merdaccia» sibilò Catellani, «vede che quando vuole sa rendersi utile? Coraggio, ce lo dii e facciamola finita.»
Fantozzi sorrise, un sorriso come quello del condannato a morte a cui hanno rimandato l’esecuzione di un giorno, e fece un passetto verso i megadirettori. Ma se i suoi stivali, oltre a essere duri come la corazza di un carrarmato Leopard, avevano due suole lisce come i copertoni della sua Bianchina, i gradoni di villa Cobram erano più scivolosi d’una pista di pattinaggio sul ghiaccio su cui un buontempone avesse spalmato olio di balena prima della finale olimpica.
Fantozzi si sporse in avanti, traballò e capitombolò con una vertiginosa capriola all’indietro.
«Maporcdiquellamammatuuuua!» strillò il visconte.
La contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare pochi giorni prima aveva chiesto a Giaccofabrizio Viendalmare, il suo adorato bis-bis-nipote, di prestarle l’accendino. Trasformato in lanciafiamme dall’intraprendente Giacco, che vantava un nutrito palmarès di mense, ritrovi per senza tetto, scuole pubbliche, bocciofile e sanatori ridotti in cenere, lo zippo svolazzò verso il visconte intanto che Fantozzi precipitava di schiena sul giardino. Grazie alle modifiche di Giacco, il micidiale armamento era in grado di sviluppare una fiamma al calor nova che fece liquefare i Rolex e incenerì la divisa di gala e con essa la pelle del visconte.
Subito un aroma di pollo arrosto si sparse per il giardino eccitando gli zombi. In un attimo le fiamme si erano propagate da megadirettore a megadirettore e i ceci che i servitori avevano disseminato sul prato presero a scoppiettare insieme alle otturazioni del conte Diego Catellani. Ridotto a una torcia umana, quest’ultimo fece roteare la sua stecca da biliardo e centrò in un occhio il Megadirettore Professor Riccardelli.
La tuta di latex della contessa si era già sciolta in un nero lago di oli mefitici.
Alla visione di quella nudità afflosciata e ustionata Calboni emise un urlo straziante e cercò di alzarsi, forse per fuggire, ma il cane lo addentò per le terga e se lo trascinò in grembo.
«Che fai tu, tocchi?» esclamò la Silvani in faccia all’esterrefatto ciambellano. Davanti a lei i ragionieri Mughini e Fonelli, schiena contro schiena, sguainarono le loro spadine di plastica modello Peter Pan per proteggersi dai morsi degli zombi.
Phemt Cobram, ridotto a un ammasso di carne e metallo fuso, avanzò verso Berserk con le braccia protese.
«Fantocci! Lei… lei… io la…»
Fantozzi strinse di nuovo l’elsa e con uno sforzo di cui avrebbe pagato le conseguenze per tre-quattro decenni sollevò lo spadone puntandolo verso la terrificante sagoma di Cobram.
«Ora… ora il sacrifizio si compirà, maledetta merdaccia.»
«Papfà, papfà, quello è il mio papfà!»
«Chi è che latra? Chi osa interrompere la cerimonia del licenziamento collettivo?»
La bianca, bianchissima Bianchina di Fantozzi, con la signora Pina al comando, era saltata su di un dosso al di là del cancello e atterrata nel giardino travolgendo gli zombi. Subito il cagnaccio vi si slanciò contro, minacciando di ingoiarsela con tutto il motore. Ma sua figlia Mariangela, che si sporgeva dal finestrino armata di una motosega rombante, tranciò in due la bestia prima che quella potesse dire bau.
Fantozzi, a vederle tutt’e due, la Pina e Mariangela, sentì una stretta al cuore.
«E adesso vediamo chi è la merdaccia.»
Il ragioniere caricò a testa bassa e affondò la sua arma disegnando una F sul costato di Cobram, tanto che quello si piegò in ginocchio. Ma invece di mozzargli il capo con un secondo colpo e chiuderla lì, vuoi per il dolore alle reni, vuoi perché il visconte stava singhiozzando «pietà», lasciò cadere lo spadone e si guardò intorno per il giardino cosparso delle budella degli impiegati dell’ufficio sinistri, che erano stati fatti a pezzi dai servi, e delle budella dei servi, che erano stati falciati dalla signora Pina.
«Ma, ma… non c’è… non c’è più nien…»
Voltate le spalle ai megadirettori e alla villa in fiamme, Fantozzi diede un bacio a occhi chiusi a Mariangela e si accomodò in macchina.
«Forse ce la facciamo per il secondo tempo di Milan-Sampdoria» pensò infine mentre la Bianchina sfrecciava via dalla villa.
Mariangela si era addormentata con la motosega spenta tra le braccia e con uno sbuffo di sangue dell’orrido cagnaccio sugli occhialoni da saldatore che si era calata sul viso. La signora Pina, concentrata sul volante e sui centotrenta che stava tenendo in quella stradaccia di campagna, eppure sorrideva. E tutt’intorno, tutt’intorno alla famiglia Fantozzi che correva verso casa, tra le frasche del sottobosco alcuni spiriti vendicativi sussurrarono al vento, alla notte e alla luna: «Quali sono i primi tre?»
NOTA
I devoti del culto fantozziano potrebbero aver ravvisato alcune imprecisioni, ma questo è un racconto di Berserk.
I lettori di Berserk potrebbero aver ravvisato alcune imprecisioni, ma questo è un racconto di Fantozzi.
A Kentaro Miura chiedo umilmente scusa, ma a furia di tirarla per le lunghe se lo sarebbe dovuto aspettare che un bel dì sarebbero accadute cose di questo tipo.
Al Sommo Maestro, Paolo Villaggio, non ho il coraggio di dire niente e mi prostro fin d’ora in ginocchio sui ceci.
Illustrazione di Simone Denti
Simone Denti (Brescia, 1975) ha lavorato in uno studio di fotografia industriale e come grafico presso società web e industriali. Ha collaborato con Rai Tre e dal 2010 insegna animazione presso la Scuola Comix di Brescia. Spazia tra grafiche internet, cartacee e illustrazioni. Dal 2014 porta avanti un progetto personale per la realizzazione di un gioco di ruolo.
Il suo sito internet è www.nork.it