Autore: Fabio Lubrano
Casa editrice: Zandegù
Pagine: 238
Il titolo del romanzo d’esordio di Fabio Lubrano è anche il cognome del protagonista, Gianni Malinverno, ventenne, figlio unico e timidissimo, che viene abbandonato in un breve lasso di tempo da tutti quelli che conosce, genitori compresi.
L’inizio del romanzo è fulminante:
“Ha un sacchetto in mano, Malinverno.
Dentro ci sono un dattiloscritto, una pistola ad acqua, due videocassette porno e un romanzo di Dostoevskij. Il sacchetto proviene dal supermercato di Piazza Bandini. È lì che sta per andare. Ha voglia di vedere la salumiera carina, di riceverne il sorriso gratuito e di sorriderle a sua volta.
Per il momento non si muove.
Sta pensando.
Sta pensando che è completamente solo.”
Non bisogna sforzarsi per entrare nel mondo di Malinverno, i dialoghi sono brillanti e la storia scivola via che è un piacere. Il tono lieve impedisce a quella che appare come una scrittura tipicamente giovanilistica di diventare stucchevole. Dopo i primi capitoli, mi ero fatto l’idea che Lubrano fosse un Tiziano Scarpa (quello di Occhi sulla graticola) meno raffinato o un Enrico Brizzi (quello di Jack Frusciante) con una voce più debole. C’era qualcosa, però, che mi impediva di liquidare Malinverno come un libriccino piacevole, ma in fin dei conti inutile: c’erano dei momenti in cui l’amarezza diventava soffocante e altri in cui i personaggi secondari sembravano poter aprire spiragli su mondi alternativi o diventare portatori di rivelazioni inaspettate. Più andavo avanti e più mi appassionavo al romanzo, tuttavia, ero sicuro che il finale mi avrebbe deluso, perché non ritenevo la scrittura abbastanza robusta per poter reggere qualcosa di diverso da un lieto fine un po’ forzato, tipico di certe commediole agrodolci. Una cosa che non ho ancora detto di Malinverno è che fino a un certo punto si ride parecchio, a volte ci si rattrista, ma soprattutto si ride. Superato quel punto, però, non c’è più spazio per le risate: terminato il capitolo 33, ho compreso (ma sarebbe più corretto dire ho sentito) che l’autore mi stava raccontando una storia completamente diversa da quella che avevo creduto di leggere fino a quel momento. Il finale presenta una serie di colpi di scena che sono autentiche fitte allo stomaco e che rivelano la vera natura del mondo creato da Lubrano: era già tutto lì, sotto i miei occhi, fin dalle prime pagine, ma mi rifiutavo di vederlo; tutto quello che pensavo preludesse al fantastico mi appariva ora concreto, terreno, ma dolorosamente insensato e l’ironia lieve si era trasformata in un realismo dal peso insostenibile.
Spesso alla fine di un romanzo si cerca qualcosa che abbia a che fare, più o meno vagamente, con la verità. Malinverno è uno di quei romanzi dove la verità (o, quantomeno, una verità) ci viene mostrata abbastanza chiaramente, e si tratta di una verità che spaventa, dalla quale non si può fare altro che fuggire .
Fabio Lubrano è riuscito a compiere un’operazione molto complessa: con dei mezzi semplici (la linearità della trama, un lingua povera, dei meccanismi narrativi talvolta scontati) ha ottenuto un effetto di insieme potentissimo. Per questo potrebbe essere accostato a due scrittori come Murakami Haruki e Yoshimoto Banana, che tramite un linguaggio e dei riferimenti culturali molto comuni (manga, musica pop, ecc.) hanno realizzato delle opere letterarie di notevole spessore. Lubrano non ha sicuramente la potenza di visione dei due autori giapponesi, ma considerando che ha scritto Malinverno a soli vent’anni, non si potrebbe che essere fiduciosi riguardo ai suoi prossimi lavori, però… C’è un però. Il romanzo e il suo autore sono incappati in una tormentata vicenda editoriale che Matteo B. Bianchi racconta nella post-fazione intitolata Il libro postumo di uno scrittore vivente, in cui percorre i quindici anni che hanno separato la stesura di Malinverno (1993) dalla sua pubblicazione (2008). Oggi Fabio Lubrano ha trentacinque anni e da dieci ha “appeso la penna al chiodo”, stanco delle false promesse degli editori che negli anni ’90 l’avevano illuso di poter pubblicare il suo romanzo, tirandosi poi indietro. Non so se l’abbandono della scrittura da parte di questo autore sia da imputare alla sua mancanza di caparbietà oppure alla poca recettività del mondo editoriale italiano. Quello che so è che sarebbe un vero peccato se la pubblicazione con Zandegù non dovesse restituire a Lubrano l’entusiasmo necessario per tornare a dedicarsi alla scrittura.
Marco Gigliotti