L’ospite
di Valerio Callieri

Parliamo di Dio.
Se avessi dovuto affrontare un esame per il patentino di ateista militante, avrei avuto i miei crediti da presentare alla commissione: da bambino mi annoiava sinceramente tutto ciò che aveva a che fare con la Chiesa. Del resto i miei genitori professavano quel cattolicesimo metropolitano post boom economico che consisteva nei regali di Natale, nella catenina d’oro alla comunione, nel farsi il segno della croce imitando il resto dei fedeli, nel farsi il segno della croce quando Rudy Voeller tirava un rigore in Coppa Uefa (questo mio padre, e forse questa immagine si riferisce a una semifinale). Da adolescente avevo scoperto Feuerbach, Marx e Nietzsche e ripetevo le loro conclusioni in maniera saccente e provocatoria ai miei genitori, i quali non venivano minimamente scossi per il fatto che possa essere stato l’uomo a creare Dio a sua immagine e somiglianza, che la religione sia oppio, che Dio sia uno strumento per gli spiriti deboli con la paura di vivere per davvero. Se avessi detto forza Lazio allora sì, sarebbe stata una questione anche di pisicologia (è incredibile e scientificamente ancora inesplorato come tutti i padri maschi romani nati in periferia prima del 1960 non riescano a pronunciare psi).
Quando mio padre è morto stavo con Danilo.
È stata la prima volta in cui mi sono soffermato genuinamente su Dio.
O viceversa, chissà.
Non sapevo che mio padre stesse morendo. Io ero sdraiato dentro una macchina, sui sedili tirati giù a smorfinare dopo un rave. (Come diceva Danilo, che possedeva il vocabolario più consono alla tribù sociale raverina: smorfinare, cioè riposarsi magari con un bel sonno in attesa che anche le cavallette tossiche che banchettano con il sistema nervoso decidano di riposarsi).
Danilo ci scherzava sulla storia delle cavallette.
Mentre mio padre moriva, io nella macchina parcheggiata vicino a una ex fabbrica non riuscivo a prendere sonno. Le cavallette usufruivano dei tessuti spugnosi del cervello come fossero quei materassi del luna park pieni di palline in cui da bambino salti e rimbalzi potenzialmente all’infinito. Temevo che le cavallette non si stancassero mai a differenza di me bambino sui materassi. Quella era la mia punizione e le cavallette, pensavo ma non ero sicuro, avevano anche a che fare con la bibbia che io avevo colpevolmente ignorato. Subito dopo, quando ormai il cervello era uno zoo bombardato i cui animali straziati urlavano dimenticati dagli uomini, ho pensato a quanto fossero dolci le raccomandazioni di mia madre riguardo al fatto di darle la mano quando attraversavo la strada, di asciugarmi bene i capelli dopo la doccia e di non accettare caramelle drogate dai vecchietti sconosciuti benché per quest’ultimo punto devo dire che per anni ho cercato ovunque questi vecchietti, in parchi assolati e in viottoli loschi, senza mai trovarne uno. È patetico morire, perché quel giorno era il mio destino e allora ne ero assolutamente sicuro, come un vigliacco che rimpiange le sicurezze piccolo borghesi dei genitori e rinnega la persona che ti sta accanto e con la quale sei cresciuto: Danilo dormiva mugolando e avrebbe continuato a dormire mugolando anche se fosse stato assalito da un branco di orsi grizzly feriti dal napalm. Ero sicuro che il mio giudizio era prossimo e che da qualche parte era stata allestita una stanza bianca senza telefono e senza finestre molto più simile a una stanzetta per i lavori sporchi della polizia che a un tribunale. Le cavallette d’altro canto avrebbero continuato a rimbalzare del tutto disinteressate al prelevamento della mia anima.
Invece, sono sopravvissuto. Dio era impegnato altrove.

Che poi non è che sono veramente sicuro che esista. Dio intendo.
Diciamo che la parola Dio è una buona approssimazione. Se rifletto su quello che è successo anni or sono: Dio è qualcosa di molto distante dal tipo collerico e vendicativo che soffia grandine e fuoco e chiede sacrifici di primogeniti, e anche dall’upgrade cristiano del Nuovo Testamento in cui Gesù parla di quella parola stupenda, banalizzata e usurata che si chiama amore.
Però, lo ammetto, Dio non disdegna l’invio di cavallette.
Voglio dire, ma questa è solo l’opinione di una persona acuta e straordinariamente perspicace e soprattutto di un ateo ripulito, che Dio è sicuramente puntuale ma senza avere volontà nell’esserlo e senza ripartire premi e punizioni nei confronti di chi lo sta aspettando perché, ed è questa la cosa da tramandare ai figli, arriva quando non lo aspetti. La casa però deve essere in ordine. I mobili vanno spolverati, il lavello non deve essere ricolmo di piatti sporchi, i pezzi del bagno devono tendere il più possibile al bianco e devono essere privi di peli attorcigliati e appiccicosi, il pavimento non deve essere pieno di lanugine spessa e polverosa ma gli angoli tra soffitto e pareti devono essere lasciati in balìa delle ragnatele contro le zanzare, le quali sono una delle cause più profonde dell’ateismo contemporaneo per la mole di bestemmie che suscitano, nonché, questo lo presumo e basta, del dubbio omicida dell’animalista nella stagione estiva. La casa deve essere accogliente come se ogni settimana arrivasse un ospite anche quando non arriva da anni o non è mai venuto. Se l’ospite arriva all’improvviso e trova la casa disastrata, voi vi sentirete a disagio e l’ospite troverà una scusa per non fermarsi.
È naturalmente possibile che non vogliate avere nulla a che fare con l’ospite. Io quel giorno non è che l’avessi invitato, ma l’avviso non rientra nel regno delle sue azioni.
Avrete capito che, a parte per quanto riguarda le zanzare, il termine casa non si riferisce alle quattro pareti comprate affittate o squattate in cui vivete e l’ospite in questione è un’approssimazione allegorica di Dio.
Danilo gestiva la sua casa con sommo e tronfio disordine: gonfiava le tavolette di hashish con il phon, si metteva occhiali da sole anche con tempo nuvoloso, guidava tenendosi sempre sulla corsia di sinistra per evitare i posti di blocco e mi prenderebbe tuttora a calci se pronunciassi davanti a lui parole come Dio e approssimazione allegorica. Danilo però a differenza di esseri umani saccenti e compiaciuti che pronunciano queste locuzioni, possiede alcuni sentimenti interessanti. Uno di questi è il rimorso.
L’idea di trascorrere quella giornata dentro una fabbrica dismessa era stata sua. Danilo non poteva sicuramente immaginare quello che stava succedendo a mio padre. Si è sentito colpevole per il fatto di avermi portato a quella festa in cui si tentava di diffondere lo stato di gioia permanente, nonché volantini sulla droga consapevole accanto a droghe di cui non si aveva alcuna consapevolezza riguardo alla loro composizione
Ho provato a calmarlo, gli ho spiegato che il fato, il destino non aspetta nessuno, non chiede permesso, è sgarbato. L’importante è mantenere la casa pulita e ordinata per quando arriva l’ospite.
Cazzo dici? Quale ospite? Chiede Danilo.
Non ho risposto anche perché non è che l’avessi chiaro allora, era una frase che usava mio padre. Voleva dire che bisogna allenarsi sempre e comunque, anche quando si è sicuri di finire in panchina. Era una frase senza nessuna allusione metafisica, una frase che riutilizzavo in situazioni diverse come si utilizzano le frasi che non sono tue, come se le avessi trafugate e dovessi fare molta attenzione a non romperle, per restituirle in seguito senza che la persona se ne accorga.
Mio padre era un allenatore di calcio.
L’ospite per lui era un passaggio della mezza punta a tagliare la difesa avversaria e tu, appena entrato in campo a dieci minuti dalla fine a causa dell’infortunio di un tuo compagno, scattavi sulla linea del fuorigioco cercando di raggiungere la palla prima che ci arrivassero le mani del portiere in uscita. Se ti eri allenato potevi toccare la palla da sotto eseguendo un pallonetto o dribblare il portiere, ma se fossi stato irregolare e disfattista durante la settimana, magari maledicendo il fato e il mister mentre scolavi rum e cola in locali disfattisti, saresti arrivato in ritardo e con il fiatone su quella palla, senza la lucidità necessaria per fare quello che tutto il pubblico infreddolito della domenica mattina chiedeva: un qualunque motivo che giustificasse l’essersi alzati dal letto per vedere una partita di Allievi regionali di media classifica che fino a quel momento caracollava in un pareggio senza volontà.

Quello che faccio negli anni a venire è sfruttare in maniera bieca e indiscriminata il rimorso di Danilo. È facile fare i vigliacchi quanto ti muore qualcuno: è un modo per lasciare la tua ragazza senza subire un processo, senza fornire giustificazioni. È una strana sensazione che si protrae nel tempo, può succedere qualsiasi cosa e tu rimani lì con una posa distaccata che dice al mondo se sapeste quello che ho passato io… e anche per me il mondo è già crollato, pezzo più pezzo meno non fa differenza… e le persone ti assecondano se fai leva su tutte le smorfie innocenti e bisognose di cui sei dotato. La pratica della libertà di scelta diventa quasi reale: non è che diventi il presidente degli Stati Uniti ma è come avere le tasche piene dopo una vincita al lotto e girare per un centro commerciale con la faccia di un bambino a cui hanno rubato la marmellata. È così che quel sentimento interessante di Danilo si trasforma nel tempo nella fornitura dei diversi psicofarmaci di cui disponeva per placare la sua colpa e le mie faccette inconsolabili. È stato lì che ho iniziato a familiarizzare con le cavallette del mio cervello.
Dopo la morte di tuo padre, preparati ai seguenti stati d’animo: tu diventerai un uomo nuovo, tu sarai punito ulteriormente e quello è solo l’inizio di una catena di misfatti e sfortune che danzano intorno al tuo passaggio, tu capirai finalmente chi sei e non ci sarà più nessun pater familias a marchiare la tua identità, tu sei dotato di un potere speciale che fa morire le persone che ti sono vicino, la punizione di Dio a cui tu non hai mai creduto ti colpirà presto. In conclusione il mondo si presenta come una palla che vaga nell’universo e tutto ciò non ha senso e questo non senso scaverà nel tuo sistema nervoso dando alle cavallette la possibilità di spolparti senza che tu possa fare niente perché loro sono la verità vera e tu puoi solo accettarla nei seguenti modi:
1) Lasciandoti spolpare;
2) Diventando pazzo e andando in giro a blaterare di cavallette nichiliste;
3) Inventando un senso qualsiasi che ti tenga in movimento e ti impedisca di riflettere;
4) Indossando un costume da cavalletta
5) Come il punto 2, solo che blateri di complotto pluto-giudaico-animalista collegando eventi storici come l’oscura nascita di Emilio Fede dentro un uovo di quaglia con la bomba di Piazza Fontana e con Babbo Natale che guarda caso ha gli stessi colori della pubblicità della Coca Cola.
Benché la pisicoanalisi, come avrebbe detto mio padre, non se ne sia occupata a fondo, questi pensieri attraversano la mente di una persona toccata dal lutto. Possono durare un secondo, ma ci sono. Io li ho esplorati attraverso gli psicofarmaci di Danilo.
Le cavallette accolgono lo psicofarmaco MDMA, altrimenti detto ecstasy, con una sensazione di gioia completa. Stavamo a un’altra festa, e Danilo aprì una capsula versando i minuscoli cristalli contenuti all’interno dentro una birra. Musica drum’n bass e persone che ballavano. Le cavallette mi propongono un futuro in cui tutto è in armonia, mio padre è sottoterra fortunatamente, perché non avrebbe mai capito l’amore assoluto che provo nei confronti di tutti gli esseri umani, li abbraccio, li bacio e non capisco quali differenze possano mai dividerci, quali rivendicazioni diano adito alla guerra, quali appetiti sessuali generino stupri, insomma cazzo fatevi un po’ d’ecstasy e risolveremo tutti i nostri problemi come questa sera. Io sicuramente li risolverò, ecstasy o meno, da domani quando le cavallette passeranno il tempo sdraiate a fare petting e sogni viola e d’acqua che accolgono gli spigoli e riempiono i vuoti.
Mio padre è morto, io posso nascere.

Le cavallette accolgono lo psicofarmaco cocaina con giubilo etnocentrico. È capodanno. Già mi vedo a digrignare i denti e a litigare stupidamente. La tiro attraverso dieci euro arrotolati, dopo che Danilo ha preparato tre strisce color avana sul tavolo e mi ha assicurato che è pura allo 0,8. Te lo meriti mi dice alludendo al mio status di vittima, solo perché è capodanno… rispondo con il mio cruccio insoddisfatto e inappagabile. Sembra di aver l’aria tra le mie scarpe e il pavimento, sono più alto, più leggero, più forte. E non sono nervoso ma conviviale nei vari gruppi della festa, puntuale nell’ironia dentro le conversazioni. Ringrazio Danilo. Le cavallette sfilano con il passo dell’oca nei meandri del cervello, formano coreografie e brandiscono un libretto rosso in mano. Sono la Germania che rifiuta l’umiliazione delle spese di riparazione della prima guerra mondiale attrezzandosi per la seconda e sono anche la Cina giovane di Mao che prepara l’attacco contro il quartier generale dei burocrati imborghesiti. Sono un funzionario della ceka post-rivoluzione russa che interroga e punisce i possidenti zaristi, sono un consulente economico che indebita l’Ecuador e sbraca i selvaggi con le piume in testa a colpi di trivelle marchio Shell. È finita la colpa, esaurita l’umiliazione e il rancore avvampa in tentacoli di vendetta leggeri, inodori, esatti. Sono il proletariato, la razza ariana, l’elite finanziaria, condurrò la mia guerra contro tutti i virus del corpo sociale: papponi sfruttatori, cicciarculo contro natura, beduini anti-occidente. Sono felice e sono felice di aver ragione.
Mio padre è morto, mi ha abbandonato come fanno i vigliacchi perché non voleva scendere dal suo trono inutile e inascoltato. Edipo vince e indossa occhiali da sole irriverenti, le cavallette recitano ditirambi in suo onore.

Le cavallette accolgono la psicofarmaco ketamina con un viaggio fuori dalla scatola cranica. Danilo cuoce il liquido in padella e poi la raschia con una carta telefonica. Ne sniffiamo un bel po’, proprio un bel po’. Vedo le cavallette per la prima volta, non è più solo una deduzione da fattone. Aprono uno sportello attraverso la tempia, escono e iniziano a saltellare per tutta la stanza. Questo non riesco a spiegarlo bene ma dopo un po’ io divento le cavallette. Il mio sguardo è il loro sguardo. Come se avessero una macchina da presa e riprendessero la scena in questione: il direttore della fotografia studia il taglio della luce, la cavalletta macchinista spinge un carrello sui binari del trenino elettrico con cui giocavo da bambino, il fonico cavalletta alza la zampa e dà l’ok, la cavalletta regista, grassa, boriosa e viziata, ordina alla truccatrice di spostarsi, che sono pronti per girare. Così la truccatrice non ha nemmeno il tempo di ricucire lo sportello della mia tempia e io rimango seduto su questa poltroncina rosso vermiglio che contrasta con la mia pelle slavata e candeggiata e qui suppongo che i colori in questione abbiano insinuato in me, per una strana associazione, il complotto della Coca Cola su babbo natale. La luce è fredda, quasi blu. Poi mi levo la scarpa sinistra e affondo la punta di un coltello nella pianta del piede, ci disegno sopra una M. La poltroncina su cui sono seduto si inserisce nello sfondo di una casa con il giardino verde protetto da una staccionata bianca senza un graffio. Sono sotto la veranda della casa mentre partono gli annaffiatoi. Ora le cavallette, quindi il mio sguardo, si allontanano con la macchina da presa e io divento sempre più piccolo. Oltre la staccionata c’è un cartello rosso che spiega di non oltrepassarla, di non avvicinarsi al ragazzo seduto in veranda perché è affabile e simpatico ma portatore di morte. Poi c’è una carrellata velocissima della macchina da presa che riprende il dettaglio della pianta del mio piede, la M ormai cicatrizzata. È chiaro che la cavalletta grassa e viziata che dirige il film voglia facilmente alludere alla Morte non dimenticando la meta-citazione cinematografica del film M di Fritz Lang del 1931. Sorrido con l’aria di chi si aspetta una carezza. Vedo che tento di chiudere la sfoglia di osso parietale nel cranio. Muovo le gambe come per alzarmi ma non riesco. Non sorrido più. Muovo le labbra ma non si sente niente. Il mio sguardo invece è fermo, senza pietà e continua a guardare la scena.
Poi tutto trema all’improvviso come un terremoto. Le cavallette mollano di colpo i loro strumenti e si infilano nuovamente dentro il mio cervello. Stavolta chiudono lo sportello sulla tempia. La luce blu diventa bianca come quando il sole si avventa sulle nuvole, tutto è una nuvola sovraesposta.

Mio padre è morto e io sono l’assassino, un individuo insospettabile del quale il mondo si accorgerà presto e anche le persone che mi sono vicino se ne accorgeranno, qualcuno prima o poi inizierà a collegare le morti ma sarà tardi perché penzolerò di rimorso con la corda attorno al collo con le cavallette che battono colpi sul cranio per uscire. Quando la polizia mi troverà l’ultima cavalletta sarà colta in flagrante mentre fugge da una narice.
Ad ogni modo Danilo ha finalmente deliberato che la morte di mio padre non è stata una sua colpa e quindi dovrò trovare altri modi per impietosirlo e farlo espiare. Se fosse oggi l’esame per il patentino di ateista militante, uno pisicologo, di quelli bravi, di quelli che ti curano dalla lazialità per intenderci, probabilmente mi sconsiglierebbe di tentare. Comunque Dio, qualsiasi forma possa assumere, non credo si curerebbe degli scrutini e le cavallette salterebbero tra i banchi del tutto indifferenti alla possibilità che qualche candidato possa copiare le risposte. La mia casa non è più così pulita e ordinata, invece la frase sull’attesa dell’ospite, quella, sto sempre attento a non romperla, in attesa di restituirla a mio padre.

L’ospite, di Valerio Callieri, è il racconto vincitore della sezione Letteratura alla BiennaleMArteLive 2014.

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