XX-β2d si era svegliata tardi anche quella mattina. Da qualche giorno stava accumulando errori che la sua memoria interna faticava a correggere. Sentiva di avere alcuni circuiti interrotti, soprattutto nella zona del collo e delle articolazioni. Faticava a piegare i gomiti e le ginocchia. Quando provava a schiacciare i denti non sentiva il normale rumore, segno che anche le batterie auricolari avevano perso potenza.
Queste sensazioni non erano costanti e ciò significava che il suo funzionamento non era del tutto compromesso. Però il calo delle prestazioni iniziava a preoccuparla. Aveva inviato l’allarme alla base centrale attraverso i trasmettitori temporali, ma non le era stata data risposta.
«Mi spegnerò» disse rassegnata.
Scese dal materasso di gomma Power e sentì con piacere il freddo sotto le piante dei piedi. La camera frigo aveva mantenuto idonea la temperatura. Il freon era stato efficace, non si poteva dire lo stesso del disidratante. L’igrometro appeso alla testata del letto segnava 33%, troppa umidità anche per un robot di ultima generazione come lei.
La casa che la ospitava non isolava bene. Le membrane più esposte, quelle degli occhi e della bocca, erano sotto stress da quando aveva iniziato a diluviare. Suo padre adottivo aveva messo gli essiccatori vicino alle uscite, ma i sali si consumavano in fretta a causa della bassa pressione.
Aprì lo sportellino Z9 sotto il polso sinistro e lesse le registrazioni della notte. Tutte molto alte. Alle 7 AM la Water Activity superava il 40%. Al 50% i sensori si sarebbero ossidati. All’80% l’intelligenza artificiale sarebbe entrata in standby, fino al coma irreversibile del 90% che precedeva il blocco totale. Non c’era da dormire tranquilli. Una di quelle mattine non avrebbe più sentito lo stimolo del risveglio e l’avrebbero ritrovata spenta, senza possibilità di riavvio.
Il pensiero della morte e soprattutto del dolore che l’ossidazione dei circuiti avrebbe potuto procurarle la fece trasalire. Piccole scosse agli arti inferiori simularono il rilascio di adrenalina.
Azzerò il timer dietro la nuca, nascosto dai capelli artificiali. Iniziava la giornata. Prese l’involucro No-Rain in dotazione, si doveva proteggere dall’acqua che cadeva senza tregua. Scese le scale e andò in cucina dove la famiglia stava facendo colazione.
L’ultima volta che aveva comunicato con la base le era stato ordinato di chiamare i suoi genitori mamma e papà. Come se fosse stata la figlia che non avevano mai avuto. Spettava loro di diritto, l’adozione l’avevano pagata. Fra tre mesi sarebbe diventata il primo Emotional Android della storia. Non un semplice robot meccanico, ma una precisa replica dell’uomo capace di simulare le emozioni. Dopo novanta giorni di test il modello sarebbe stato lanciato sul mercato e con i soldi del successo avrebbe avuto un futuro tranquillo. Valeva dunque la pena adattarsi.
Si scusò per il ritardo. Generava parole con insolita lentezza. L’umidità le inzuppava la lingua e costringeva le resistenze a scaldare per asciugare le membrane.
«Qualcosa non va, tesoro?» chiese sua madre. «Hai una faccia così stanca.»
Era un comportamento normale. Ogni volta che subiva uno stress, il sistema consumava energia per superare il problema. Ora che si sentiva intrisa di acqua, il suo viso era diventato più pallido rispetto a quando stava bene.
«Nulla, mamma. Ho dormito poco. Ho pensato tutta la notte al compito di oggi.» Il protocollo imponeva di dare la massima tranquillità alla famiglia.
Sua madre la baciò.
Nessuno stimolo.
I recettori tattili erano compromessi e XX-β2d cominciò ad avere paura. Il suo malanno avanzava veloce e non sarebbe riuscita a fermarlo. I chip ghiandolari segnalarono condensa nella zona frontale. Aprì di nuovo lo sportellino e guardò il rilevatore. La Aw segnava 46%. Fosse stata una ragazza in carne e ossa, ora starebbe sudando.
«Rilassati un po’. Mangia» disse suo padre indicando la tavola.
«Ho preparato i croccanti. Siedi, tesoro» continuò la madre con voce più comprensiva.
Si accomodò. I croccanti erano fatti di carbonio e polvere di titanio. La casa produttrice ne aveva spediti alcuni barattoli in modo che bastassero per i test.
In città erano stati distribuiti pochi prototipi come lei. Gli androidi di prima generazione invece erano diffusi. Molte persone li tenevano in casa come aiutanti. Altre avevano l’orrido gusto di lasciarli seduti in salotto, spenti. Complementi d’arredo.
Gli ominidi accompagnatori erano ovunque. Alle fermate degli autobus in compagnia di arzille vecchiette. Sui sedili passeggero al fianco di anziani alla guida. Oppure al ristorante, uniti a gruppi di festeggianti o nei locali da ballo dove affiancavano gli addetti alla sorveglianza.
Del caso XX-β2d e degli altri robot di tipo avanzato si era parlato molto sugli informatori scientifici.
«Hai letto, Tiziana? Qui parlano di X.»
L’androide di ultima generazione 100% Human Rescue è in grado di svolgere tutte le azioni più comuni ai normali robot. Ma in più riesce a provare emozioni, come la paura o il dolore, l’entusiasmo o il piacere. E in piccola parte anche l’innamoramento.
«Capisci? Prima o poi ce la porteranno via, la nostra topina.»
Finì di leggere.
In risposta a stimoli ambientali l’androide simula i comportamenti umani. Trema, suda, grida. Grazie ai nuovi prototipi l’uomo e la macchina saranno una coppia vera, come marito e moglie. Avranno interessi comuni, impareranno a sopportarsi o a volersi bene. Insomma, con gli androidi HR il futuro è a portata di umano!
«Che meraviglia» gli fece eco la moglie.
«Gli esperti dicono che nascerà una società mista uomo-robot» proseguì il marito, «e tutto grazie alla nostra X. Ci farai fare un sacco di soldi, vero topina?» concluse entusiasta.
«Sarebbe bellissimo se un giorno X si innamorasse» sospirò sua madre.
L’uomo spense l’informatore.
«Vado al lavoro» disse. «Mi raccomando, coprila bene. Non voglio che si arrugginisca.»
Passò davanti alla fotocellula che stabiliva l’apertura e la chiusura della porta. Le due ante si spalancarono e uscì facendo un cenno di saluto con la mano, immerso in complicati calcoli mentali.
XX-β2d aveva smesso di ascoltare da un pezzo. Mentre i genitori parlavano, il rilevatore era salito al 51% e i sensori di primo livello erano andati in blocco. Non aveva sentito nemmeno il rumore della chiusura a pressione della porta, bruttissimo segno.
Nel cranio d’acciaio vibrò un disturbo prolungato. Osservò il Voltmetro sul polso destro: la tensione aveva superato il livello di guardia. Erano state registrate piccole scosse elettriche: forse stava andando in corto.
Le scottavano le tempie, non era certo in condizione di affrontare la pioggia. Ma finché dalla base non le avessero detto come superare il problema non aveva scelta. Doveva proseguire i test oppure decidere di fermarsi. In questo caso però sapeva che i tecnici l’avrebbero abbandonata e che, senza il loro aiuto, si sarebbe spenta in poco tempo.
Si alzò da tavola cercando di mostrarsi decisa anche se si muoveva a fatica. Il protocollo imponeva sicurezza.
Abbracciò sua madre e per la prima volta in vita sua sentì dolore. Una pressione nella testa molto forte che le oscurò la visuale per due centesimi di secondo. Di nuovo, la paura si trasmise alle gambe come adrenalina.
«Copriti» disse sua madre. «Fa’ come ha detto papà. E stai tranquilla per il compito, farai un figurone.»
Entrambe si lasciarono andare a uno slancio di entusiasmo. XX-β2d quasi cadde per terra, ma sembrava più un’oscillazione di gioia che una perdita di stabilità.
Si strinse nell’involucro antipioggia e aprì a 270 gradi l’ombrello isolante Enforce in modo da avere solo il lato frontale scoperto. Si fece coraggio e uscì sotto il diluvio.
La città era già complessa di suo. In più, l’orario di punta rendeva tutto sovraccarico: sensi di marcia multipli, decolli verticali di velocissimi taxi a elica. XX-β2d era molto lenta e un grande calore le divorava i circuiti, si sentiva infiammare. Strisciava le scarpe rinforzate sulla strada, mentre file di lussuose skycar planavano nelle corsie aeree.
L’asfalto mobile invece si muoveva a scatti, appesantito dalle macchine obsolete degli operai. Sembrava che, per avanzare, quel tappeto di ferri e persone facesse più fatica di lei.
Stava per cedere, la spia della riserva era accesa. L’acqua le cadeva addosso, incessante. Anche senza leggere il rilevatore, era sicura di essere vicina al 75%. Avrebbe perso i sensi entro qualche minuto.
Riuscì ad arrivare all’incrocio con la strada principale. Qui c’era uno degli ultimi bar della città. Ci lavorava un giovane robot utilitario che XX-β2d aveva incontrato durante il primo giorno di pioggia. Y-Qpr si era offerto di accompagnarla a casa.
Fu subito attratta dal suo magnetismo, l’immagine di quell’androide le era familiare. Eppure non riusciva a spiegarsene la ragione. Si erano salutati con la voglia di rivedersi, ma non lo aveva più incontrato. Aveva pensato a lui ogni giorno e avrebbe voluto dirgli che provava qualcosa di sconosciuto. Forse l’emozione che sentiva, gli avrebbe voluto spiegare, era proprio il famoso amore di cui le avevano parlato gli umani.
Trovò la forza per sorridere. Era un pensiero troppo bello per essere vero. Anzi, probabilmente Y si era già dimenticato di lei.
Ma aveva fatto tutta quella strada solo per rivederlo e adesso doveva entrare. Anche se, nelle pessime condizioni in cui si trovava, temeva di essere impresentabile.
Gli ingegneri le avevano applicato nelle pupille due lamelle d’oro per collegare gli oculari ai chip della memoria interna. In questo modo gli stimoli visivi venivano trasferiti al cervello elettronico.
Nel caso degli androidi HR era possibile che i dati si caricassero di emozione prima di essere immagazzinati. XX-β2d era sicura che se avesse visto Y prima di chiudere gli occhi per sempre, sarebbe riuscita a trattenerne l’immagine dentro di sé.
Si ricordò una delle regole del protocollo: doveva azzerare il timer ogni mattina prima di riattivare i circuiti. Lei lo aveva fatto.
Ma l’umidità aveva causato una serie di errori che dovevano averle aperto spazi nel cervello, vere e proprie lesioni difficili da rimarginare. Ecco il motivo del dolore alla testa, ora iniziava a capire.
A causa di queste anomalie, l’acqua filtrava procurandole scosse sempre più intense. Gli errori che si erano accumulati avevano ostacolato il reset e ciò che adesso riemergeva dalla memoria interna erano i dati che dalla base ordinavano di eliminare.
Così erano state le anomalie a causare il déjà vu? Ormai ne era certa.
Quando era stata assemblata, i tecnici dovevano averle montato una memoria riciclata. Altro che evoluzione informatica, le grandi case produttrici puntavano al risparmio. Per impedire che le informazioni remote potessero tornare disponibili in situazioni critiche, le avevano ordinato l’azzeramento quotidiano.
Posò l’ombrello e con le ultime forze entrò nel locale. Cercò Y con lo sguardo: sarebbe stata sua l’ultima immagine che avrebbe registrato. Una volta spenta, i suoi componenti sarebbero stati montati in un robot di nuova generazione, questa era la prassi. Ma senza rendersene conto, un giorno l’androide avrebbe recuperato quel frammento di memoria dimenticata. Così l’amore che XX-β2d aveva scoperto si sarebbe rigenerato. Un fiore clandestino pronto a sbocciare all’improvviso come era successo a lei.
Non ebbe tempo di raggiungere il bancone. Un suono prolungato segnalò il blocco della centralina e XX-β2d cadde esaurita.
Ma l’ultima immagine era arrivata a destinazione. Y-Qpr le era corso incontro e il segnale si era amplificato prima che la visuale si oscurasse. L’energia era fluita dalle pupille d’oro alle celle elettroniche producendo una scintilla.
Era vero, stava provando amore.
Non si accorse del fumo. Dell’odore di plastica bruciata. Dell’allarme. Dei getti di poliuretano. Dei soccorsi per disinnescarla. Dell’esplosione. Nulla di tutto questo rimase in memoria.
Sapeva solo di stare bene. Sapeva che, alla fine della vita, non si prova dolore.
Le anomalie
di Paolo Clarà
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