L’amica montabile
di Claudia Bruno

La mia amica è fatta a pezzi, te la devi montare. Ha gli occhi di Erre e la bocca di A. I piedi di E e le mani di mia madre. Il cuore di mia sorella e la curiosità di Esse. Le storie di Ci. La voce di Elle, le parole di I. I ricci di Pi. Il sorriso di Esse, un’altra Esse. Le immagini di A, un’altra A. Il mondo come lo vede Emme. La mia amica, ne incontro mensole e bulloni, ante e cassetti, schede madri e processori, rotelle e cavi, braccioli e cuscini per strada, sui treni, nelle metropolitane, in fila alla posta, allo sportello del bancomat.
 
L’amica mia di questi anni, ci guardiamo, ci riconosciamo, ci piacciamo, ma è già ora di andare, è sempre ora di andare. E sono solo tracce, come indizi, tessere che solo tu puoi ricomporre. Una mano sulla spalla. Occhi negli occhi. Parole che risuonano. Sensazioni che si trovano. Sì, teste che dicono sì. Rughe, sorrisi intorno alle palpebre. Gole, che gorgogliano. Che si accavallano, gambe. Che si gonfiano, guance. Che si allungano, colli. Che si avvicinano, spalle. Che si allargano, pupille.
 
La mia amica ha anni: venti, trentuno, quarantasette, cinquantatré. Tombola. È una forte. È stata fabbricata a: Roma, Milano, Ha Noi, Pisa, Lecce, Parigi, Londra, Stazione Termini, Aeroporto Leonardo da Vinci, prossima fermata Garbatella, Stazione Laurentina, Metro Tiburtina, Zara, Bershka, H&M. È fantastica, la mia amica, ha fatto la promoter, la provocatrice, la co.co.pro., la prof. È una da 110 e lode, una che può fare la barista babysitter giornalista traduttrice cameriera ricercatrice antropologa commessa hostess segretaria telefonista psicologa, contemporaneamente. Una forte, che può indossare diversi numeri di scarpe, con e senza tacco. E molte borse, con e senza tracolla. E svariati cappotti, con e senza bottoni.
 
Certo, non l’ho trovata subito. C’è voluto un po’. C’è voluto del tempo.
 
Prima ci sono state le amiche.
 
Le amiche della palestra, dei corsi universitari, dei corsi di yoga, dei corsi di tutto. Le amiche del lavoro metà braccia e metà mouse. Le amiche di politica mezze donne e mezze sigaretta. Le amiche degli aperitivi un po’ femmine e un po’ prosecco. Le amiche di webcam schermo intero e mezzo busto. Le amiche dei progetti tutte ciccia, agenda e fissiamo la data della prossima riunione. Per incontrarsi un pretesto ci vuole.
 
Come stai? Mi chiedevano sempre le mie amiche vedendomi arrivare. Bene, rispondevo. A certe domande bisogna saper fornire le risposte corrette. Altrimenti gli sguardi se ne cadono a destra e a sinistra sui pavimenti, ed è sconveniente starsene lì a raccogliere perline in fuga da un filo rotto. Allora, nel frattempo, potevano accadere dei mi piace, dei tag, dei retweet. O poteva succedere che m’inviassero volti gialli e cuori rosa sugli sfondi verdolini di un’app di messaggistica mobile. O che mi mandassero un poke azzurrognolo durante una riunione. O magari che m’inviassero un selfie sfocato mentre erano in viaggio. O che mi scrivessero una mail bianconera mentre stavamo parlando di persona. Oppure che, nel frattempo, mi invitassero a un evento rosso. Perché le mie amiche mi invitavano a molti eventi rossi, nel frattempo. E quanti più erano gli eventi rossi, tanto più significava che mi volevano bene. Per incontrarsi, un pretesto, ci voleva.
 
E anche se molte ci tenevano a specificare che eravamo colleghe, che eravamo compagne, che eravamo partner, che eravamo qualcos’altro, nel frattempo eravamo amiche, ne sono certa. Ma il mio sorriso era un sorriso triste, e c’era come qualcosa, una nebbiolina al centro del petto, qualcosa che mi mancava. Perché poi era sempre lei che cercavo. Un’amica che fosse una, qui, ora. E la cercavo tra i prosecchi e le sigarette, sotto i cavi e in mezzo alle agende. Io cercavo disperatamente un’amica sul fondo dei bicchieri e nelle cartelle sopra il desktop, sull’agenda e dentro le pennette usb, in mezzo ai filtri e al tabacco, nelle tasche più interne delle borse, sui sedili posteriori della macchina e nel portabagagli, dentro ai trolley, sotto i mobili, nei vasi delle piante, tra i panni da lavare, la cercavo persino in mio padre, nel mio compagno, dentro di me, nella mia gatta, nei randagi che avvicinavo, dall’erborista a cui andavo a chiedere pozioni per l’umore – un sentore, solo un sentore, un campanello d’allarme, dicevo, niente di preoccupante, dicevo, la crisi, dicevo, l’autunno.
 
Finché non arrivò quella sera, quella sera che cambiò ogni cosa.
 
Avevo le gambe pesanti e le palpebre strette, il petto chiuso, la gola piccola. Avrei voluto solo entrare e sdraiarmi sopra il letto sfatto dove lui sarebbe tornato troppo tardi, sempre troppo tardi. Avrei voluto solo restare immobile fino al giorno dopo, fino a tutti i giorni dopo, lasciarmi leccare la faccia, bucarmi i vestiti, la gatta addosso. Ci vorrebbe un’amica, canticchiavo sarcastica frugando nel mazzo di chiavi appena prima di aprire la porta di casa. Ci vorrebbe un’amica qui per sempre al mio fianco, mi canticchiavo in testa, sì, di quelle che non vanno di moda da quando andavi a scuola. Un’amica del cuore, un’amica col fegato. Ci vorrebbe un’amica tutta intera, quotidiana, presente sempre, che non guarda il telefono mentre parli, che non deve già andare via, che ogni giorno arriva e si siede, ti chiede, come va la vita oggi? Ti racconta come va la vita oggi. Un’amica che ti scrive cartoline, che ti legge a penna. Con cui non dover prenotare appuntamenti. Con cui sedersi per terra. Con cui mangiare biscotti. Con cui andare a camminare. Con cui stare in silenzio. Un’amica senza apericena. Una senza rumori di fondo. Una che ti fa gli origami, che ha tempo per te. Una per cui avere tempo.
 
La mia amica della terza elementare era così, la mia amica della terza media, della terza liceo, era esattamente così, bisbigliavo incredula cercando la chiave. Cos’era accaduto precisamente nel frattempo, mi chiedevo. E avevo le gambe sempre più pesanti, ingessate quasi, da non riuscire a muoverle. E il petto che mi colava sui piedi, da raccoglierlo a colpi di fazzoletto. Dev’essere il freddo improvviso, il cambio di stagione, la crisi, pensai, l’autunno.
 
Poi, aperta la porta, inciampai in un grosso pacco sul pavimento. Un pacco che qualcuno aveva ordinato per me su Internet, immaginai. Era lì che mi aspettava. Tutto quel nastro adesivo arrotolato intorno. Doveva essere qualcosa di unico, di prezioso. Che grande e inattesa sorpresa, pensai stordita.
 
Fu allora che la incontrai.
 
«Amica montabile» c’era scritto sul coperchio, «molto più che le tue amiche». E subito sotto, in caratteri più piccoli e corsivi, da leggere velocemente: «questa amica è stata sottoposta a test quotidiani per garantirti il massimo comfort, tutte le fodere sono asportabili e lavabili, prodotto pagabile a rate».
 
Così, aprii la scatola e montai quel che conteneva. Ci volle poco, bastò seguire quel minimo d’istruzioni.
 
E potei vederla intera.
 
Se ne stava seduta sul mio divano, tranquilla. Aveva gli occhi di Erre e la bocca di A. I piedi di E e le mani di mia madre. Il cuore di mia sorella e la curiosità di Esse. Le storie di Ci. La voce di Elle, le parole di I. I ricci di Pi. Il sorriso di Esse, un’altra Esse. Le immagini di A, un’altra A. Il mondo come lo vede Emme.
 
E mi guardava, senza riserve. Con l’aria di chi ha tutto il tempo, il tempo necessario. Con l’aria di chi non cerca pretesti per stare con te, vuole solo stare con te.
 
Come stai? Mi chiese. E me lo chiese posando piano la sua mano sulla mia spalla. E mi guardò negli occhi per uno, due, tre, cinque secondi. Come stai? Mi chiese ancora. Si aspettava davvero una risposta. Allora le raccolsi le dita tra le mie dieci dita. E in un attimo fummo quattro mani e cento dita. E le dissi che stavo male, malissimo, che non ero mai stata peggio. E mentre singhiozzavo impregnando d’acqua e di sale il divano capii che la mia vita non sarebbe più stata la stessa, mai più.

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