Traduzione di Miriam Hernández Barrena
1.
Detestavo andare al paese dei miei nonni. In realtà, detestavo andare in quasi tutti i posti di provincia. Forse perché avevo vissuto in diversi paesini per otto anni. Li odiavo. E ora che finalmente potevo vivere in città, non capivo perché mia madre e i miei fratelli volessero ancora passare le estati dai miei nonni. Immaginavo che a mia madre piacesse stare con la famiglia. Sapevo che i miei fratelli quando erano piccoli si divertivano in quei posti. Ma non capivo perché ora preferissero passare le ore mangiando semi di girasole sul portico dell’unico bar del paese invece del cinema, le terrazze, i bar e le ragazze di Saragozza. Io, al contrario, non ci andavo da anni. E questa, come quasi tutte le mie visite, sarebbe stata breve, una sola notte. Lo facevo soltanto perché non volevo che mia madre guidasse da sola: la settimana prima aveva portato i miei fratelli adolescenti, due dei suoi amici e mia sorella più piccola, ed era tornata da sola. Mi aveva confessato di essersi quasi addormentata al volante e avevo deciso di accompagnarla. Al ritorno, avremmo recuperato anche i miei fratelli e i loro amici, perciò avevamo preso il furgone.
Non riuscivo a spiegarmi la passione dei miei fratelli per la vita rurale. Se proprio mi impegnavo, potevo immaginare il loro interesse per alcune delle catalane che erano lì in villeggiatura, o pensare che si divertissero con gente della loro età, e in piena libertà, senza quasi dover uscire di casa. Alla fine arrivavo alla conclusione che ero un’insensibile senza nessun tipo di attaccamento alla terra (in questo caso, quella dei miei nonni) e una persona orribile a pretendere che i miei fratelli provassero lo stesso mio disprezzo per le cose rurali. Ma che due dei loro amici avessero deciso, spontaneamente, di passare lì una settimana mi sembrava un mistero insondabile. Cosa poteva spingere due ragazzi di Saragozza a decidere di passare sette giorni e sette notti in un paesino di Teruel? In più, pensavo, è impossibile scopare lì. E anche solo rimorchiare, o baciare con la lingua, una vera prodezza. Ricordo che, quando ero adolescente, un ragazzo aveva limonato con una ragazza, tutte e due maggiorenni, il che provocò un autentico scandalo perché lui era di un altro paese e lei era ubriaca. Accusavano il ragazzo, talmente sbronzo che riusciva appena a camminare o a parlare, di essersi approfittato di lei. Li separarono e lei la portarono a casa. Figurarsi scopare. Pensavo che i miei fratelli avessero ingannato i loro amici facendo credere che si riuscisse a cuccare. Era improbabile che riuscissero a limonare e, anche avessero rimorchiato qualcuna, quasi sicuro sarebbe stata una nostra parente, anche se alla lontana. Se il destino decideva di sorridergli, potevano farsi una di quelle catalane alte, dalle tette grandi e i capelli lisci. Pérez e Juan, gli amici dei miei fratelli, mi facevano un po’ pena. Si sarebbero annoiati a morte in quella settimana.
Mia madre aveva detto che la nonna era felicissima che ci fossi anch’io: era emozionata di avermi lì. Dopo ammise che forse era colpa sua se io ci tenevo così poco: neanche lei ce la faceva a stare più di una settimana in paese, a differenza dei miei zii, che passavano lì tutte le loro vacanze.
«È colpa mia che vi ho fatto vivere in così tanti paesini.»
Mia madre era medico e, fino pochi anni prima, i posti in cui aveva lavorato erano troppo lontani per andare e tornare da Saragozza tutti i giorni, perciò avevamo dovuto trasferirci ogni volta.
«Forse sono troppo arida. Dovrei essere più sensibile?»
«A me piaci» le avevo detto. Ed era vero. Era molto simpatica e un po’ pazza. Ammiravo tantissime cose di lei, per esempio la sua certezza che con i figli tutto sarebbe andato per il meglio. Aveva cinquant’anni e cinque figli che erano venuti su piuttosto bene e si chiedeva se avrebbe potuto fare di più. Ammiravo la sua capacità di voler sempre imparare. Inoltre era parecchio divertente.
«Credo di avervi dato pochi abbracci » concluse. «È per quello che siete così freddi. Le tue cugine danno sempre baci alla nonna, credo sia per quello che lei si sente più a suo agio.»
«Noi ridiamo di più.» Questo era vero.
«Sì, siamo più cretini.»
2.
Il viaggio da Saragozza al paese dei miei nonni mi faceva un certo effetto: quasi sempre ci arrivavamo dal paesino dove avevamo abitato, Urrea de Gaén, Cantavieja, La Iglesuela del Cid. Avevamo appena attraversato l’incrocio per Urrea de Gaén, dove avevo fatto la terza elementare, la quarta e metà anno della quinta. Lì era nato uno dei miei fratelli e l’altro aveva imparato a parlare. Era sempre lì che avevo iniziato a odiare la provincia, anche se in segreto.
«Vi siete trovati così male in campagna?» mi chiese mia madre. E io mi sentii terribilmente meschina a odiare i paesini di provincia e fare credere a mia madre che la mia infanzia fosse stata triste per colpa sua.
«Direi di no.»
«Avevi tante amiche.»
«Sì. Non sono rimasta in contatto con nessuna, perciò magari non eravamo così amiche.»
«Già.»
«Erano cattive, in generale. Come tutta la gente di paese.»
Non ero riuscita a trattenermi. Mia madre si arrabbiò e mi disse che non potevo fare generalizzazioni così lapidarie e che non capiva da dove venisse tanto odio e disprezzo, che i suoi pazienti le facevano sempre dei regali e che è solo un altro modo di vedere la vita, né migliore né peggiore. Poi, come a volte faceva, con una recita degna di un Oscar, disse che era tutta colpa sua, che era una pessima madre e che le dispiaceva tanto. Mi misi a ridere e lei mi guardò con un’espressione a metà tra una risata e un’incazzatura colossale. Alla fine, rise.
«Accendimi una sigaretta, su.»
Così era stata liquidata la questione e firmato l’armistizio.
3.
Pérez e Juan giocavano nella squadra di calcio dei miei fratelli, di cui due anni prima mio padre era stato allenatore, poi la squadra era stata promossa in terza regionale e lo avevano cacciato perché non aveva il tesserino federale e non insultava abbastanza i rivali. Pérez era centravanti e l’anno in cui mio padre era stato allenatore aveva fatto ventisei gol. Juan era difensore, e anche se non colpiva la palla così bene come l’altro centrale, non era niente male. Erano i migliori amici dei miei fratelli. E mia sorella più piccola era un po’ innamorata di Pérez: era carino, lavorava e aveva la macchina, ed era anche il goleador della squadra. Juan, secondo i miei fratelli, era ancora vergine. Aveva limonato con un po’ di ragazze, ma ancora non se ne era scopata nessuna. Ogni volta che uscivano cercavano di farlo rimorchiare, ma finivano per spaventare tutte le possibili interessate dicendo loro che Juan era molto simpatico e vergine. Mio fratello rideva mentre mi raccontava quegli aneddoti e io gli dicevo che erano degli stronzi. Il peggio era che le ragazze finivano per limonare con Pérez, che era più lanciato. Pure a me Pérez sembrava carino. Anche se Juan era più intelligente e giudizioso. Pérez aveva paura di me: s’innervosiva quando mi parlava. Forse perché avevo beccato lui e i miei fratelli a fumarsi delle canne nello stanzino della caldaia a casa mia, ad agosto, un giorno che i miei genitori erano andati via. Juan era allergico a tante cose e quando rimaneva a mangiare a casa nostra, io pensavo sempre che saremmo finiti in pronto soccorso per aver messo della cayenna nel sugo al pomodoro.
4.
Arrivammo a Ejulve per l’ora di pranzo: mia nonna era in cucina e le mie zie facevano su e giù per le scale con piatti e posate in mano. Stavamo per mangiare al piano di sotto. Anche se era una rottura perché mia nonna cucinava di sopra. All’inizio ero contenta di vedere tutti: c’era qualcosa di festoso nel ricongiungimento familiare. Ma prima che ci sedessimo a mangiare mi ero già pentita di essere venuta: il caos di urla, la gente che parlava tutta assieme a volume troppo alto, le voci acute che domandavano se la maglietta che portavo era nuova e dove l’avevo comprata, le mie zie che ripetevano ancora una volta il solito aneddoto e mia nonna che si guardava attorno stanca mi avevano stordito. M’immaginavo che se fossimo stati in un film, in quel preciso momento sarei svenuta e tutti avrebbero pensato che ero incinta e mi avrebbero buttato dell’acqua in faccia per farmi tornare in me. Mio fratello più piccolo mi diede un calcio nel culo e mi fece uscire dal mio stordimento. Nella squadra era quello che calciava meglio i corner e neanche questa volta sbagliò: mi spinse e caddi in avanti, e nella caduta mi tagliai la mano. Iniziai a sanguinare, mia madre disse a mio fratello che era un grandissimo imbecille. Juan e Pérez mi guardavano e io non sapevo se stavano per mettersi a ridere o se in realtà volessero sparire. Per un momento mi sentii di nuovo al liceo. Dopo, mio fratello disse che se mi andava poteva ricucirmi lui: era al secondo anno di Medicina. Mi misi a ridere e dissi all’altro mio fratello che era uno sciocco. In fondo, era colpa mia. Non potevo essere talmente imbranata. La ferita non era poi così brutta.
«Con degli steri strip andrà a posto» disse mia madre, poi guardò mio fratello più piccolo, che sorrideva incredulo per la carambola che era riuscito a provocare. «Potresti pensarci un po’ a quello che fai.»
«Mamma» intervenni io, «non l’ha fatto apposta, non voleva buttarmi per terra.»
«Sì, a dire la verità sei un po’ imbranata» disse mio fratello più piccolo.
Almeno mi ero risparmiata di apparecchiare la tavola.
5.
Uno dei momenti più noiosi a Ejulve era dopo pranzo: gli adulti volevano sempre rimanere a parlare e, uno alla volta, finivano tutti per addormentarsi nelle posizioni più strane. Prima l’intervallo tra una frase e l’altra si faceva più lungo, poi qualcuno sostituiva le frasi con suoni più gutturali finché appoggiava la testa sul tavolo e lo si sentiva russare. Uscii in strada e mi accesi una sigaretta. Arrivai fino alla porta della chiesa, che era distrutta. Immagino che in realtà non fosse così brutta come mi sembrava. Poi salii sul monte San Pedro: avevo passato tante ore sotto quei pini. Un’estate, quando mio fratello maggiore era nel suo periodo ecologista, c’era stata una piaga di processionarie tra i pini. Io e mio fratello lanciavamo delle pietre contro i bozzoli di seta che si formavano sulle punte. Diceva che così avremmo salvato i pini. Ci andavamo anche a scalare e a cogliere more. Una volta rimasi incastrata tra due rocce, avevo paura e non riuscivo a uscire. Dissi a mio fratello, che m’incoraggiava dall’alto, che volevo venisse MacGyver. Era la fine degli anni Ottanta e guardavamo spesso quel telefilm, e credo ci piacesse così tanto perché il fratello di mia madre ci ricordava un po’ lui. E ricordo anche dei pomeriggi in cui dei vecchi arrivavano a casa dei miei nonni per riepilogare chi era morto quell’anno. Quelle conversazioni mi sembravano una versione macabra della battaglia navale.
Decisi di tornare a casa e sdraiarmi a leggere fino ad addormentarmi. Stavo rileggendo uno dei miei libri preferiti, Il giovane Holden, che mi provoca un miscuglio di tenerezza, stupore e allegria. Come l’adolescenza.
6.
Avevamo cenato con uova fritte, chorizo e morcilla. E ora eravamo sulla strada per Castel de Cabra. Era a pochi chilometri di distanza, ma fui sul punto di vomitare per le curve. Le mie cugine – erano loro che organizzavano i turni in maniera che ci fosse sempre a disposizione un genitore per accompagnarci o venirci a prendere nei vari paesi – mi avevano trovato un posto in una delle macchine. Ero seduta dietro il padre di una delle amiche dei miei fratelli, un dottore che aveva abbandonato la medicina occidentale per l’agopuntura ed era diventato ricco. Era amico di mio padre.
«Mi ha detto tuo padre che hai pubblicato un libro» disse.
«Sì, sì. Be’, in realtà due» risposi.
«Dovrò guidare più piano allora, ora che so che ho in macchina Dan Brown.»
«Be’, stai anche portando tua figlia» dissi io.
«Certo, sì.»
Mio padre e l’agopuntore parlavano solo di calcio. Mi dava fastidio che l’agopuntore non mostrasse nessun interesse per quello che faceva mio padre. E anche se mio padre, in generale, era abbastanza assennato, quel tipo gli stava simpatico. Anche mia madre era medico e, a differenza dell’agopuntore, credeva ancora nella scienza e nell’ibuprofene, e le dava fastidio quanto a me che mio padre andasse d’accordo con lui.
«E di cosa parla il tuo libro?» mi chiese.
«Di una ragazza che va a fare l’Erasmus a Parigi.»
«Tu sei stata a Parigi, vero?» disse mia cugina; risposi di sì.
«Quindi hai raccontato quello che ti accadeva» disse l’agopuntore.
«Più o meno» dissi. Non avevo voglia di dare spiegazioni.
«Quello è facile» disse lui. «Cioè, voglio dire, non è come scrivere un romanzo storico in cui ti devi documentare e tutto.»
«No. Non è lo stesso» risposi. «Nel mio caso la documentazione è la vita stessa.»
«Quindi può essere che un giorno scriverai questa conversazione. T’immagini, Alba» disse guardando sua figlia, «io sarei un personaggio.»
«Esatto» risposi. Eravamo arrivati.
7.
I miei fratelli erano già lì. E con loro Pérez e Juan. Stavano bevendo una birra da un litro e sembravano contenti di vedermi.
«Finché non ti ubriachi» mi disse mio fratello «questo posto è una palla incredibile.»
Andai al bancone e ordinai un altro litro di birra. Quando nel bicchiere ne rimaneva meno di metà, facevano un buco per farlo diventare come una botte di vino, e lo facevano girare. Almeno così si faceva quando ero adolescente. Era impossibile non bagnarsi, non macchiarsi di birra bevendo così.
Mi resi conto che mio fratello e i suoi amici andavano e tornavano dalla piazza con una certa frequenza. Immaginai che andassero a fumare canne. Mi stavo annoiando abbastanza, perciò decisi di accompagnarli. Mio fratello più piccolo era quello che le rollava. L’altro mio fratello diceva di non mettercene dentro così tanta, che sennò sarei svenuta. Juan, anche se era asmatico, fumava. Venne anche la ragazza che piaceva a mio fratello più piccolo. Naturalmente, lei aveva un ragazzo a Barcellona, ma questo non le impediva di passare tutto il tempo con mio fratello. E io pensai che fosse come il cane dell’ortolano[1]. Provai a dirlo all’altro mio fratello. Mi diede ragione e passò la canna. Furono solo un paio di tiri, forse tre. Ma quando tornammo al concerto, i miei fratelli e i loro amici ridevano di me. E io capii che la band aveva dedicato la canzone al pastel de cabra[2], invece che a Castel de Cabra. Decisi di andare a prendere altra birra. Suonavano le hit di sempre: Ixo Rai, Loquillo, «Veo todo en blanco y negro»[3]. Era deprimente, ma allo stesso tempo aveva qualcosa che riconciliava con il passato, con le sbronze, con la propria adolescenza e con i baci impastati alle sei del mattino con ragazzi che non mi facevano impazzire. Juan stava ballando con mia cugina. Pérez si avvicinò a me.
«Sali a cantare?» mi chiese.
«Credo di no» risposi. Stavo per raccontargli che, quando avevo circa la sua età, ero stata cacciata dal palcoscenico a Ejulve. Suonava il duo Anice e Menta, un padre e una figlia con una tastiera e un repertorio di quindici canzoni, che quando arrivavano alla fine rifacevano da capo. E io ero salita a cantare non so quale canzone.
Non avevo mai scambiato tante parole con lui. Ed era la prima volta che lui veniva a parlare con me.
«Vuoi fumare?» mi disse.
«A dire il vero no. Credo che se facessi un altro tiro potrei morire. Ma se hai paura posso accompagnarti.»
Andammo nella stessa strada in cui ero stata con i miei fratelli, giusto dietro la piazza. Pérez tirò fuori una sigaretta e iniziò il procedimento: spezzettò la marijuana con le mani e la mischiò con il tabacco. Alla fine feci un altro tiro. E non ricordo bene di cosa parlammo, ma a quanto pare stavamo dando fastidio a qualcuno: da una finestra si affacciò una signora e ci tirò una secchiata d’acqua. Ci venne da ridere, e ce ne andammo di corsa. Trovammo i miei fratelli e Juan alla fine della strada. Pérez si era bagnato appena, in compenso io ero stata presa in pieno. Avevo i capelli e la giacca fradici. Mi asciugai la faccia con la maglietta e mi tolsi la giacca. I miei fratelli e i loro amici sembravano divertirsi un sacco.
«Ho appena scoperto, e dimostrato empiricamente» dissi «che il potere risvegliante di un secchio di acqua fredda è chiaramente sopravvalutato. Di fatto, credo di stare per vomitare.»
«Tu e Fleming» disse mio fratello il medico.
8.
Tornammo a casa di giorno: si vedevano le carrascas, come chiamano le querce da quelle parti. Si vedevano il monte e i resti degli incendi delle precedenti estati. E pensavo a quante volte mio fratello maggiore aveva fatto la discesa Majalinos in bici e agli incidenti che aveva avuto mio cugino, e a come mentivano quando gli chiedevano spiegazioni: non dicevano mai che stavano facendo una gara, né quanto ci tenevano. Per colazione andammo a mangiare uova fritte al bar della strada. Ma io non avevo voglia di salutare i padroni del bar, né che mi vedessero con ragazzi e ragazze sette anni più giovani di me. Inoltre, Juan si sentiva male, e voleva andare a dormire. Dissi a mio fratello che me ne andavo a casa con Juan e che lui poteva rimanere a fare colazione.
Pensavo che Juan avrebbe vomitato ovunque. Mi diceva che stava meglio, anche se non sembrava per niente. Inciampò e mi spinse: andai a sbattere contro il muro e mi si riaprì la ferita. Iniziai a sanguinare.
«Mi spiace tanto.» Sembrava spaventato.
«Non ti preoccupare» gli dissi, «è solo un po’ di sangue.»
Eravamo quasi arrivati. Mi leccai la ferita per farla smettere di sanguinare. Juan mi guardò. Gli dissi che poteva vomitare in bagno. Eravamo davanti alla porta della casa. Bisognava aprirla con molta attenzione perché faceva parecchio rumore. Non volevo svegliare nessuno, non volevo vedessero Juan così pallido, sul punto di vomitare, e dover sviare l’attenzione per non far notare la sua sbronza. Juan andò dritto al bagno di sotto. Lo seguii e gli chiesi se stava bene attraverso la porta. Non rispose, perciò entrai. Era appoggiato contro il muro, non aveva un brutto aspetto. Gli toccai la fronte. E lui prese la mia mano e la guardò. Cercò la ferita e la leccò. Dopo ci baciammo e ci toccammo. Ebbi un momento di lucidità nel quale pensai di mettere la catenella. E mi rallegrai nel vedere che, come tutti gli adolescenti, portava un profilattico nel portafoglio. Mentre facevo scendere la cerniera dei suoi jeans pensai che fosse un ottimista. All’inizio ebbi paura: stavo per sverginare l’amico asmatico dei miei fratelli. Non volevo fare una cattiva impressione, né che morisse soffocato durante la sua prima scopata.
Finimmo prima che gli altri tornassero. Pensai a quanto poco glamour fosse perdere la verginità chiuso nel bagno della casa dei nonni dei tuoi amici. Ma, allo stesso tempo, c’erano cose molto peggiori di questa. In un certo senso quella era stata la mia vendetta, perché mi erano piaciuti praticamente tutti gli amici di mio fratello maggiore e nessuno mi aveva mai filata. Portai via l’asciugamano sul quale avevamo scopato e lo buttai nel secchio dei panni sporchi. Sapevo cosa sarebbe successo la mattina dopo: mi avrebbe svegliata mia sorella piccola, mi sarei fatta la doccia e avremmo mangiato molto tardi. Mia zia avrebbe messo sui fornelli una paella gigante e mi avrebbe detto che potevo rimanere in paese qualche giorno in più. Dopo mangiato, saremmo saliti sul furgone di mia madre. I miei fratelli si sarebbero seduti dietro e io, sul sedile del passeggero, avrei compiuto la mia missione: accenderle sigarette e parlarle. Ogni tanto, avrei guardato Juan dormire nella terza fila di sedili.
La traduttrice
Miriam Hernández Barrena è infermiera di professione e traduttrice per vocazione, l’una senza l’altra non potrebbero esistere. Sei anni dopo essersi laureata ed essere entrata nel mondo delle divise bianche, decide di iscriversi a Lingue e Letterature Ispaniche. Collabora come traduttrice per diverse riviste italiane.
[1] Il riferimento è a un modo di dire spagnolo, tratto dalla commedia di teatro del Seicento “Il cane dell’ortolano”, di Lope de Vega: “Come il cane dell’ortolano, che non mangia né lascia mangiare.” [N.d.T.]
[2] Gioco di parole intraducibile tra “pastel de cabra”(un tipo di torta) e la località “Castel de Cabra” [N.d.T.]
[3] La frase è tratta dal testo della canzone “Blanco y negro” del gruppo rock Barricada. [N.d.T.]