Mangia la zuppa, amore
Autore: Boris Virani
Casa editrice: Il Foglio
Pagine: 149
Tra i diciannove titoli ammessi alla prima selezione dello Strega di quest’anno, a incuriosire era la presenza di alcuni libri – prevedibilmente poi non inclusi nel gruppo dei dodici – pubblicati da piccoli o piccolissimi editori di quelli che trovare in libreria è un’impresa non da poco. A parte il buon Aspetta primavera, Lucky (Flavio Santi), che ha dato il via alla collana «Luminol» di Socrates e di cui sono circolate parecchie recensioni e segnalazioni, vengono soprattutto in mente i due esordi Francesco è pronto – e sposerà Tina Turner (Gerardo Pepe, Il Papavero edizioni) e Mangia la zuppa, amore del ventitreenne Boris Virani, edito da Il Foglio.
Per Virani, da più parti è stato fatto il nome di Queneau come possibile punto di riferimento, ma anche di Boris Vian (dopotutto basta aggiungere una «r» e una «i»); guardando in casa nostra, invece, viene in mente alcuna narrativa di metà e fine anni Novanta, con la quale Virani condivide una prosa caratterizzata dalla costante ricerca di trovate comiche e stilistiche, una voce narrante accentratrice, una storia ridotta all’osso e, soprattutto, il gusto per la divagazione. Virani non è divertente quanto il primo Nori, né cinico quanto il primo Nove e nemmeno – per fortuna – cervellotico quanto lo Scarpa di Occhi sulla graticola, ha però una voce e uno sguardo propri che bastano a differenziarlo dall’esercito di emuli che si sono susseguiti nell’ultimo decennio.
Il protagonista di Mangia la zuppa, amore frequenta Biologia all’Università di Pisa, ha un coinquilino che fa parte del collettivo studentesco di sinistra, un padrone di casa soprannominato «Il ragno», per tirar su qualche soldo vende aspirapolvere e dà ripetizioni a una ragazzina che va male a scuola. Soprattutto, il protagonista di Mangia la zuppa, amore ha un problema: non gli interessa niente. Di niente. «Io ho altro a cui pensare che all’istruzione e all’università o ai ricercatori, io ho da pensare che non c’è proprio niente che val la pena pensare, in questo mondo, e se proprio devo pensare a qualcosa ora ho voglia di pensare a delle albicocche.» In realtà, della sua bicicletta Gina gli interessa, ma quella gliel’hanno «rapita» e chissà mai se la rivedrà, e forse gli interessa anche di Alice, che non conosce davvero, perché se la conoscesse davvero finirebbe tutto, crollerebbe l’ideale di lei che ha creato.
Alla parte puramente narrativa se ne alterna un’altra, scritta come se fosse una sceneggiatura teatrale e popolata da personaggi strambi che apparentemente niente hanno a che fare con tutto il resto. Piano piano, però, iniziano a tornare situazioni, oggetti, discorsi, i due blocchi diventano in qualche modo l’uno specchio dell’altro. Si tratta di una precisa scelta strutturale, sensata, ma lontana dal potersi considerare riuscita. Succede che tutte le volte che interviene la forma sceneggiatura ci si annoia. Il non-sense domina, è esasperato, non riesce a divertire, i dialoghi non si seguono, avresti voglia di passare oltre, abbandonare velocemente Il Signor Bigol, L’infermiere, L’uomo col cappello. Per le prime venti pagine la pazienza del lettore è seriamente messa alla prova. Poi ti trovi a leggere una semplice parola come «picciomerda» (ma può essere un’altra, o può essere il ragionamento sulla pericolosità di Pisa per le biciclette, come Caracas per gli italiani o il Giappone per le balene), e allora capita che inizi a ridere, all’improvviso, ad entrare in una storia della cui esistenza fino a quel momento avevi dubitato, ti abitui alle frequenti ripetizioni, ti sorprendi ad attendere con eccezionale curiosità la successiva parola inventata da Virani o il prossimo monologo sopra le righe.
Nell’ultimo anno sono usciti parecchi esordi interessanti; molti, nel complesso, migliori rispetto a questo Mangia la zuppa, amore, più «perfetti»; romanzi, però, che una volta terminata l’ultima pagina difficilmente fanno venir voglia di aspettare la seconda prova dell’autore. Nel caso di Virani è diverso, i margini di miglioramento sono evidenti: ci sono una vivacità, una libertà linguistica, un talento comico, una capacità di osservazione che fanno automaticamente pensare a quello che potrà essere in futuro.
Francesco Sparacino