A volte un libro riesce a sintetizzarsi perfettamente in una singola frase, altre proprio il titolo del libro può trascendersi e racchiudere in sé un destino, contenere suggestioni, offrire spunti di riflessione e di interpretazione. È il caso del romanzo Il futuro è nella plastica, opera prima di Eleonora Sottili, edita da Nottetempo. Qui il titolo diventa enciclopedia, cartello stradale, prescrive una direzione, diventa parte integrante del progetto narrativo, prende per mano il lettore e lo conduce con fermezza dentro il viaggio del protagonista. Si tratta di un nucleo di significato ben preciso da cui si dipanano itinerari ed orizzonti. La prima tappa di questo percorso è il legame dichiarato con il film Il laureato. Il titolo del romanzo, «Il futuro è nella plastica», richiama una scena ben precisa del film, la frase pronunciata da un amico di famiglia al neolaureato e confuso Benjamin Braddock, durante un party: «Solo una parola, ragazzo. Plastica. Ben, Il futuro è nella plastica». La plastica è concreta, si vede, si tocca, è la sicurezza, l’investimento senza rischi. Ma Ben vuole qualcosa di diverso, qualcosa che non sia già scritto a caratteri cubitali nel canone di un’esistenza borghese e preordinata, e lo stesso vale per Arturo, il protagonista del romanzo di Eleonora Sottili.
Arturo, da sempre legato ad un modo tutto suo di vedere le cose, deve affrontare la morte del padre e questo lutto lo catapulta in un mondo adulto che non gli appartiene: si tratta di una perdita inaccettabile che finisce per rendere labili e inconsistenti i suoi legami con il reale e la concreta possibilità di costruire un futuro. Arturo è il Benjamin Braddock di questa storia, ossessionato dal terrore di essere come un pesce rosso incapace di produrre conseguenze sull’ambiente che lo circonda. Il futuro già scritto prevede per lui una fulgida carriera in campo assicurativo, grazie all’eredità del portafoglio clienti paterno, e la concretizzazione del rapporto con la storica fidanzata Giulia. Eppure Arturo lo rigetta questo futuro di plastica, facendo di tutto per sgretolarlo. Fuori da un mondo di forme ben definite in cui è impossibile riconoscersi, esiste per lui un universo fatto di suggestioni invisibili, da condividere esclusivamente con Sebastiano, l’amico di sempre, l’unico in grado di apprezzare sogni di fuga, l’unico a conferire alla scomposizione del mondo in scatti e pose improbabili, operata da Arturo con la macchina fotografica, lo status di peculiarità artistica e non di semplice ossessione maniacale.
Per affrontare la confusione e il disagio, Arturo ha bisogno di intraprendere un viaggio di regressione progressiva che lo traghetti alla sostanza metafisica del suo io interiore, partendo però dalla materialità fisica degli oggetti. Ovvero proprio quegli oggetti rubati e scambiati nelle case delle persone che frequenta tutti i giorni, i clienti della compagnia assicurativa, l’analista, sua madre, il cardiologo e così via, per costruire, man mano più consapevolmente, un disegno preciso che è quello di un percorso a ritroso verso casa, verso l’unico posto, mentale e fisico, in cui essere al sicuro, per elaborare finalmente il lutto e individuare un orizzonte di realizzazione personale.
Il pesce rosso, l’uomo sperduto con le pinne ai piedi, affronta incontri illuminanti e illuminati, come quello con la misteriosa signora Piro, e ogni incontro è un tassello del mosaico, ogni dubbio è un fisiologico stop dentro il meccanismo che conduce ad individuare la forma giusta, la propria, con cui è possibile proporsi all’esterno e affrontare il famigerato futuro.
Eleonora Sottili riesce a raccontare con leggerezza quello che frotte di sociologi e sondaggisti della domenica amerebbero etichettare come «l’evoluzione emotiva dei trentenni di oggi», ma non ricalca il piattume delle consuete discussioni sull’argomento. Il libro scorre che è un piacere, con una prosa piana e limpida, senza scadere nella banalità, senza richiamare orridi cliché da rubrica del pomeriggio televisivo, l’unico problema è che, nella sua eccessiva immediatezza stilistica, si trasmette al lettore troppo in fretta, come un flash destinato a sbiadire presto, proprio come la scena del film a cui il titolo fa riferimento.
Il futuro è nella plastica resta comunque una riuscita favola moderna, in cui l’happy end sta proprio nella conclusione aperta, in quello che potrebbe accadere nella pagina bianca dopo la parola fine, con buona pace di Benjamin Braddock e del retrogusto amaro del suo finale.
Elisabetta Pasca