Autore: Paolo Marino
Casa Editrice: Mondadori
Pagine: 223
Anche il vuoto è un posto. Lo arredi, ci vivi dentro, lo chiami Casa.
Lo fai per non sentirlo, il vuoto: e se ci fosse un tempo per invitarlo a entrare, e uno spazio in cui metterlo a dormire, e parole per colmare quello spazio, forse, allora, potresti persino amarlo.
Edo ha tredici anni e ha appena perso i genitori.
Devi affidarti a chi resta, gli dicono i parenti. La catena degli zii – zia Selma, zia Corinna, zio Dante, zia Lucia e zio Ettore a braccetto – vuole farlo traslocare. Vogliono prenderlo con sé, sfamarlo, pettinarlo, accudirlo come un figlio, aiutarlo a crescere, ad andare, a superare.
Ma la strategia di Edo li allontana tutti, uno ad uno. Il ragazzo occupa la sua stessa casa. Non risponde a chi telefona, non segue chi parte. Rimane con le scorte alimentari e la televisione accesa. Rimane, Edo, con le cose che rimangono.
Il romanzo di Paolo Marino, finalista al premio Calvino 2012, è un lungo corteggiamento o una guerra di posizione.
Conoscere il vuoto. Portarselo a casa. Sentire l’effetto che fa, la forma solida del vuoto in una stanza. Percepirne il respiro. Come ti batte il cuore in sua presenza.
La scrittura di Marino è materica, circoscritta alle mura di un appartamento e attenta ai piccoli movimenti, ai rumori, ai fatti piccoli e ai piccoli visitatori. Ben presto, la reclusione di Edo diventa calamita per gli ospiti: le gemelline Rovati, vicine di casa e girovaghe nell’estate in città con i genitori in vacanza; l’amico Enea, che rimane sulla soglia; la banda di bulli capeggiati da Seba; il rappresentante di aspirapolvere, unico adulto del gruppo.
Sedotti dal vuoto e in guerra contro il vuoto, i dialoghi di questi personaggi non ammettono un fiato. Non un segno d’interpunzione, che apra un varco al silenzio. E tuttavia ogni personaggio è solo, chiuso al mondo di fuori, votato alla ricerca della propria strategia: che si tratti di un sistema per spazzare via i microbi o di una tecnica di tortura casalinga, che la posta in gioco sia tenere in vita un grillotalpa in un barattolo o «solo un esercizio per darsi pace».
Non a caso, le parti meno convincenti del romanzo sono quelle in cui il vuoto perde solidità e consistenza: quando il protagonista si addentra nel territorio del sogno a occhi aperti e la scrittura tenta il volo, lasciando a terra la sua preziosa capacità di illuminare la storia.
«La nostra era un’esistenza da animali terricoli, che scavano tane e si nutrono di vermicelli grassi e radici, all’opposto di quegli altri ricompresi nel regno dei volatili: esseri leggeri, sgravati dal peso di cose concrete, frequentatori degli spazi aerei».
Anche il vuoto ha un peso. Porte che sbattono, barattoli che si rompono, vetri che si coprono, ora dopo ora, di un sottile pulviscolo che ci obbliga a tastare e spolverare l’intero appartamento, mentre si consuma cibo in scatola al tavolo di una cucina.
«Mi consolava» dice Edo, «la prospettiva di giorni interminabili, mai completamente arresi all’oscurità».
Così, nell’ultima parte, questo romanzo diventa una storia di resistenza e di abbandono all’onda d’urto del vuoto. Quando i genitori muoiono. Quando gli amici se ne vanno. Quando il telefono smette di suonare. Il ragazzo impacchetta l’arredo e si lascia andare. Alla deriva, disteso sopra un materasso.
In questa storia non succede niente, perché in questa storia c’è già tutto.
Un residuo fisso. Bianco. Silenzioso.
La zavorra del corpo vigile e presente di Edo.
Qui, sulla terra, al centro di una stanza vuota. Qui, dove anche il vuoto è pieno.
Chiara Zingariello