Autore: Giorgio Falco
Casa Editrice: Einaudi
Pagine: 351
Chi già anni fa aveva celebrato il funerale del romanzo – per non parlare di quello italiano – magari attribuendo a Virginia Woolf e James Joyce il ruolo di ultimi spregiudicati giustizieri, forse dovrebbe concedersi un’ultima chance e leggere il primo romanzo di Giorgio Falco, La gemella H.
Avevamo lasciato Falco diversi anni fa alla sua opera seconda (L’ubicazione del bene, anch’essa Einaudi), una raccolta di racconti ambientati in un immaginario paesino dell’hinterland milanese, originale e spietata galleria di figure umane descritte con rara bravura, capace di lasciare l’impressione, in chi leggeva, di avere a che fare con uno scrittore di razza.
L’attesa di una nuova opera è stata premiata con la pubblicazione di un romanzo che non solo conferma il talento dell’autore, ma meriterebbe di essere ricordato negli anni: La gemella H è a suo modo quasi perfetto, ogni singola frase sembra misurata come una pietra angolare e il risultato finale è simile a quei muri a secco del sud Italia che nella loro apparente semplicità celano invece un artigianato di pregevole fattura.
Ma chi è la gemella H?
In realtà sono due: le gemelle Hilde ed Helga Hinner, figlie di Maria e Hans, nate nel 1933 e cresciute per i primi anni della loro vita in una cittadina della Bavaria.
La loro storia è prevalentemente raccontata da Hilde, e si dispiega fino ai nostri anni con diverse unità di luogo: la famiglia felice a Bockburg con il padre direttore di un giornale locale, il trasferimento della madre e delle figlie a Merano, la nuova vita delle gemelle a Milano, la scelta definitiva del padre di investire sul nascente turismo della riviera adriatica, a Milano Marittima.
Nel romanzo però c’è anche la storia dell’Italia e della Germania, non quella con la S maiuscola (di Mussolini praticamente non c’è traccia, Hitler viene citato poche volte e l’antisemitismo è una toccata e fuga), ma quella della società che cambia: del capitalismo che mette solide radici, della sete d’autoaffermazione che ha Hans Hinner, del possesso come rivalsa e scalata sociale, il passato da dimenticare per poter vivere pienamente. E tutto viene mostrato dall’autore servendosi di una scrittura sorvegliatissima, misurata col bilancino, dove è difficile trovare un aggettivo di troppo o un avverbio non necessario, e che si sofferma sui particolari apparentemente più insignificanti.
Falco sembra voler narrare la Storia attraverso la normalità di una famiglia tedesca che è costretta dagli eventi a trasferirsi in Italia, e lo fa come un abile direttore della fotografia che smista le luci per dare risalto alla quotidianità più inoffensiva, lo sguardo si concentra così sugli oggetti, concede loro una vita propria («Ma niente è innocuo, anche un carillon è decisivo, crea una malinconia tale da scatenare malessere, e di lì a poco, la rivoluzione»).
La sua scrittura sa esattamente dove andare e dove concentrarsi, con una cura del particolare che sorprende, tanto da far pensare che quella di Falco sia una fenomenologia degli oggetti, il minimale elevato a potenza, il trascurato dalla Storia che detta l’esistenza dei protagonisti («i quintali di spazzatura umida, nelle cui zaffate era possibile decifrare il senso dei giorni, perfino una traccia delle ore: i cumuli di caffè bruciacchiato, l’odore dolce delle scorze di melone gettate con i segni dei morsi della clientela, quello più acidulo dei pomodori, con le bucce rosse rattrappite, sopra le quali volavano moscerini affamati, resistenti anche alle folate di vento, che li scompigliavano invano, sui petali di rose»), ma riesce anche a essere estremamente lirica fin dalla prima frase dell’incipit, icastica come un verso: «Noi mangiavamo le mele solo nello strudel, prima».
La tecnica di concentrarsi non solo sulla descrizione ma anche sulla narrazione stessa di ciò che potrebbe apparire insignificante, magari a volte rallenta il ritmo del cuore della vicenda, ma allo stesso tempo permette a chi legge di avere la piena coscienza che tutto ciò che è scritto alla fine sarà necessario.
La gemella H – che per lo svolgimento della trama e la lucidità narrativa nasconde tra l’altro una miniera di spunti e di lezioni per chi scrive – è soprattutto un libro che ci auguriamo destinato a rimanere nel tempo, uno dei migliori romanzi italiani degli ultimi anni.
Giuseppe Rizza