È un futuro prossimo, ma apparentemente lontanissimo, quello che fa da sfondo al romanzo di Zanotti; siamo oltre il 2027, questo è certo. In seguito a un cataclisma ambientale il clima si è surriscaldato, non piove mai. Il mare è una distesa putrida, scura e disabitata, un animale morente che tutto avvolge nei suoi miasmi; il sole un nemico ustionante, che non concede tregua e obbliga al riparo. Nel vecchio e sconfinato complesso cimiteriale di Staglieno, a Genova, Pepe, che vive con la bellissima madre, svagata donna ancora bambina, e con un padre amareggiato e schiavo delle droghe musicali (una delle tante invenzioni dell’autore), trova conforto nella zia, con cui coltiva il ricordo mai vissuto di un tempo in cui i gabbiani ancora volavano sul mare. Le statue e i modellini degli animali sono i suoi compagni di giochi. Ma più di qualsiasi altra cosa, è l’immagine della bambina «dagli occhi d’albicocca», bellissima creatura fotografata su una scatola di latta, a riempirne le giornate e alimentarne i sogni di una vita «oltre il cimitero». Questo finché un giorno arriva la stagione delle piogge, il diluvio tremendo ma salvifico; mentre gli adulti sembrano esserne terrorizzati, i bambini, chiamati da una oscura voce, escono dalle baracche e, da creature solitarie e prigioniere, vagano finalmente alla scoperta della città. Pepe comincia un intenso viaggio di iniziazione, di allontanamento dall’infanzia, «Ma ecco che dovevo aprire gli occhi. Prendere atto che a ogni nuova tappa occorre rinunciare ai privilegi di quella precedente». Ad accompagnarlo, la piccola e precoce Primavera, cui si aggiungono nel corso del viaggio la misteriosa e inquietante Petronella, suo fratello Corrado e il loro maggiordomo. Ma quando fa la sua comparsa Sofia, la bambina «dagli occhi d’albicocca», creatura sospesa in una teca di cristallo, condannata dalla sua bellezza a rimanere sempre bambina, per Pepe la maturità diventa un’esigenza inevitabile, brusca e priva di gradualità, proprio come il temporale.
L’opera prima di Paolo Zanotti è un romanzo di formazione, ma è soprattutto una bellissima fiaba; e della fiaba ha l’indefinitezza, l’atmosfera di piacevole mistero cui non resta che abbandonarsi, senza pretendere spiegazioni o il rispetto scrupoloso dei vincoli spazio-temporali. Ci sono richiami al Golding de Il Signore delle Mosche, al realismo fantastico, ci sono invenzioni dal sapore borgesiano, echi di letteratura apocalittica, un universo di segni da decifrare. La forza del libro risiede proprio in questa molteplicità di chiavi di lettura, di sfaccettature (proprie dell’infanzia, d’altronde) che, rispetto a una certa corrente della fiaba, gli permettono di mantenere quel distacco che gli evita di essere didascalico; il tutto in una lingua chiara e pulita.
In questo mondo così profondamente modificato (un ecosistema collassato a causa del surriscaldamento globale? Chi vuole potrà leggerci senza difficoltà un monito ambientalista), i rapporti umani sono più complessi e alienanti, la società più multiculturale, l’infanzia soffocata dagli adulti, o ridotta a stato di perenne e dolorosa sospensione.
Forse questa fiaba parla di noi (e a noi) molto più di quanto pensiamo.
Lorenzo Gramatica