Il rosa. E il grigio. E il nero frammentato al grigio, e al rosa, e poi al bianco e al grigio e al nero ancora al grigio della piastrella di granito. Su. Fino alla gomma. Dura. Nera. Di una scarpa. E di lì ancora ascendere, rapidamente, pattinando sulla pelle scamosciata. Intrufolarsi dentro un’asola, aggrapparsi alla stringa, scivolare nella costina di un calzino (che colori quel calzino) e adagiarsi, per riprender fiato, nel risvolto del pantalone. Di lì, sgrattuggiando, risalire il tessuto jeans tra un blu e un po’ meno blu, arrivando a una cintura. Lanosa l’arrampicata sul maglione e rapido il colare lungo la piega della spalla che imprime velocità. Velocità. Velocità con cui risalire fino al braccio teso, valicando il polsino della camicia, la carne del polso e ancora spingersi oltre il pollice, superando le alture delle nocche, tra i bagliori dei riflessi dell’unghia, lì sulla punta del dito. Fermarsi. E guardare.
«Scusate ma quello che è?»
L’indice dell’amico, perentorio, indicava l’angolo in alto a destra della sala da pranzo.
«Cosa?» chiese Giulia.
Due piccoli puntini neri si stagliavano sul giallo paglierino del muro di casa.
«Marco per favore puoi venire un attimo?»
Si sentì lo schioppo della porta della lavastoviglie che si chiudeva. Marco uscì dalla cucina strofinandosi le mani su un asciugapiatti.
«Che c’è?»
«Guarda là.»
Due puntini neri piccoli, piccolissimi, così piccoli da sembrare tre. Marco strizzò gli occhi fino a renderli fessure per mettere a fuoco le macchioline. «Secondo te cosa è?»
«Non saprei. Forse dello sporco?»
«Vabbè, grazie della serata ragazzi, io andrei che si è fatto tardi.»
Abbassato l’indice interrogativo, l’amico afferrò la giacca dall’attaccapanni e si diresse verso la porta. «Non vi disturbate, so come aprire.» Senza dare il tempo alla cortesia, il ragazzo uscì lasciando Giulia e Marco a fissare due puntini, piccoli, piccolissimi, così piccoli da sembrare tre. O quattro. O forse cinque. Poi la routine spense le luci e li portò a letto senza particolari preoccupazioni.
La casa era stata tinteggiata di fresco. O almeno così il padrone di casa gli aveva detto quando, sei mesi prima, il sole di un aprile stranamente caldo asciugava istantaneamente l’inchiostro delle due firme sotto il contratto d’affitto. Il quartiere era quello che era, lo stabile un po’ vecchio, ma l’appartamento era stato ristrutturato, gli infissi cambiati, l’impianto elettrico rifatto. L’ideale per una giovane coppia pronta per il matrimonio.
«Eh, magari fra un po’ eh?» avevano detto Marco e Giulia quasi contemporaneamente, con una voce simile a quella delle persone che hanno mangiato troppo e che, anziché parlare, esalano pensieri. Era estate e si poteva dire di essere felici.
Il risveglio il giorno dopo fu come al solito sospinto dal vento degli impegni lavorativi. Come ogni mattina una coreografia affinata con il tempo consentiva a Giulia e a Marco di non darsi il minimo fastidio. Un’intercapedine d’impellenza faceva da cuscinetto tra i loro corpi, il che permetteva loro di non sfiorarsi neppure. Anche quel giorno tutto andò secondo i piani: alzato dal letto Marco aprì le ante della finestra della camera, guardò fuori, commentò infastidito la pioggia di quell’ottobre particolarmente lugubre. Giulia uscì dalle coperte, chiese dove erano le ciabatte. Trovò le ciabatte. Si diresse in cucina. Spalancò il frigo ed estrasse uno yogurt mentre Marco le chiedeva se voleva del caffè. Giulia rispose di no. Marco allora disse che non c’era problema e che «il caffè con lui non andava certo sprecato». Acceso il fornello, Marco si vestì arrivando poi a spegnere il fuoco, come sempre, un attimo dopo che la caffettiera aveva iniziato a tossire roca. Visto che il tempo in cui Marco beveva il caffè – senza sedersi, non ce n’era bisogno – era solitamente inferiore a quello che Giulia impiegava a vestirsi, Marco riuscì a lavarsi i denti e darsi una pettinata prima che Giulia entrasse in bagno. Mentre lei si truccava e si sistemava, Marco preparò i sacchi della spazzatura che poi avrebbe portato con sé uscendo di casa. Questo solo il martedì (carta e organico) e il giovedì (vetro, frazione secca, organico). Nei giorni vuoti, cioè il mercoledì e il venerdì, Marco accendeva la televisione, faceva il consueto e rapido zapping, si soffermava per qualche secondo su L’Albero Azzurro e poi spegneva. Era giovedì, e Marco quindi si preparò a uscire con il secchiello tintinnante di bottiglie e lattine. Se le cose fossero andate come al solito, si sarebbero salutati sul pianerottolo. Marco le avrebbe chiesto se avesse preso le chiavi di casa, lei avrebbe controllato frugando nella borsa finché il contatto tra le dita e il freddo metallo l’avrebbe fatta schizzare giù dalle scale, dopo un volante bacio sulle labbra, lasciandolo con il compito di chiudere la porta di casa. Quel giorno, però, uscito dalla cucina con il cestino del vetro in mano, Marco rimase per alcuni secondi a guardare il soffitto per osservare se i puntini neri ancora ci fossero. E ancora c’erano. Sentì Giulia augurargli buona giornata ma non fece in tempo a raggiungerla: era già uscita di casa. Si ripromise, la sera, di guardare meglio. Lo scatto secco della serratura consegnò i puntini all’oblio dei pensieri eventuali.
Marco e Giulia si erano conosciuti durante l’università. La loro storia iniziò normalmente così come normalmente proseguì negli anni successivi. Fu quindi con altrettanta normalità che, arrivati a laurearsi a pochi mesi di distanza l’uno dall’altra, notarono quanto in realtà non fosse per nulla normale dover pagare due affitti separati quando se ne poteva pagare uno solo. La decisione, nella sua assoluta normalità venne accolta con plauso da entrambe le famiglie.
Guardare Marco aggirarsi all’interno della casa poteva essere davvero desolante. Nei suoi spostamenti domestici il ragazzo si muoveva con un passo a risparmio energetico: a un occhio esterno poteva sembrare che nella sua camminata ci fosse un che di inconsapevole, come se fossero i piedi, e non la testa, a prendere le decisioni su come e dove portare a spasso quel metro e ottanta abbondante di carne, ossa e ormai pochi capelli. È quindi con sorpresa che un ipotetico spettatore della vita di Marco avrebbe notato come, dalla comparsa dei puntini, il ragazzo avesse cambiato radicalmente le sue abitudini nel tragitto dal salotto alle altre stanze della casa. Se prima era solito camminare con lo sguardo perduto davanti a sé, tanto che la luce veniva spenta con una grande manata a palmo aperto, ora Marco aveva invece preso a fermarsi sulla porta del salotto per inquadrare con lo sguardo i puntini neri. Che erano diventati più di uno o due. O tre o quattro. O cinque. O sei. O forse anche un centinaio.
«Allora… fai una cosa… prendi una matita e fai un cerchio sul muro tutto intorno ai puntini.»
Marco aveva chiamato suo padre. Lo faceva spesso quando si trovava ad affrontare un’emergenza di tipo tecnico. Rubinetti gocciolanti, letture presuntive della bolletta, lampadine fulminate, la caldaia in blocco: da quando si era trasferito a vivere con Giulia, aveva scoperto in suo padre una miniera indispensabile di informazioni. Il padre infatti riusciva sempre a indirizzarlo dal professionista giusto. «Chiama l’idraulico» oppure «Per me è un lavoro da elettricista.»
Ogni tanto, ma raramente, se ne usciva con qualche consiglio pragmatico. «Fare un cerchio intorno ai puntini?», «Delimitane l’area… se vedi che poi passano oltre la linea vuol dire che si espandono.»
«E se si espandono?»
«Be’, a quel punto si vedrà.»
«Ok, quindi faccio un cerchio con la matita.»
«Sì… con la matita.»
«Mamma come sta?»
«Il solito. E voi come state?»
«Il solito.»
Erano le sette di sera e fuori stava piovendo. La convivenza non aveva preso in contropiede nessuno dei due. La loro vita, impegnata ma non impegnativa, camminava con il passo inesorabile delle macchine agricole. Il motore era quello del lavoro, che impegnava entrambi per una buona parte della giornata. Giulia era entrata subito a far parte di un grande studio legale della città in veste di praticante; il suo stipendio consisteva in un rimborso spese di quattrocento euro e nella speranza di un futuro lavorativo decente. Marco invece, dopo aver cercato inutilmente per quattro mesi di vincere una borsa di dottorato, aveva accettato un posto all’interno del settore risorse umane di un call center. Sostanzialmente il suo lavoro consisteva nel valutare il grado di remissiva disperazione di ciascun candidato. In questo l’azienda era stata chiara: non avrebbero assunto nessuno che non fosse «più che attaccato al lavoro», il che significava che avrebbero assunto solamente chi fosse stato disposto, pur di tenere il posto, a sacrificare un famigliare (ma spesso bastavano quattro ore di straordinario non pagato). Un lavoro come un altro, pensava Marco, non esattamente l’impiego di concetto che avrebbe voluto per sé, ma comunque un lavoro. Con questa consapevolezza riusciva ad alzarsi dal letto alla mattina. E a rientrare a casa alla sera. Da che si erano trasferiti avevano litigato sì e no mezza volta, segno che le cose, a detta di entrambi, andavano davvero bene.
«Secondo me dovete parlarne con il padrone di casa.» La vicina fu perentoria.
«Dici?»
«Dico.»
Giulia e la vicina di casa erano diventate amiche subito dopo che lei e Marco si erano trasferiti in quell’appartamento. Le due ragazze, praticamente coetanee, si incontravano solitamente al rientro dal lavoro e non era raro che Marco, tornando a casa, le trovasse a chiacchierare davanti a un bicchiere di vino. Di cosa parlassero a Marco non interessava, ma la faccenda lo rallegrava visto che credeva fortemente nei buoni rapporti di pianerottolo.
«Ma secondo te cosa è?» chiese retoricamente Giulia.
«Per me è muffa.»
«Però secondo me non lo è… potrebbe essere anche altro…»
«Mah, secondo me è proprio muffa.» La vicina tornò a sedersi sul divano prendendo tra le mani il bicchiere e lasciando Giulia a osservare ancora perplessa la densa macchia scura che impiastricciava il muro.
«Marco cosa dice?»
«Dice che aspetta di vedere.»
«Di vedere cosa?»
«Come si evolve.» Giulia si lasciò cadere sul divano di fianco alla vicina. Il vino rimbalzò pericolosamente nel bicchiere. «Con Marco come va?»
«Bene…»
«Bene.»
Fuori pioveva ancora molto. Era novembre.
All’inizio avevano utilizzato una tovaglia blu dagli orli sdruciti gentilmente donata dalla madre di Marco. Non era bellissima, ma (e tutti concordavano su questo) per i primi tempi e in attesa che se ne comprassero una loro, sarebbe andata più che bene. A dire la verità, la madre di Marco di tovaglie migliori di quella ne aveva un numero spropositato, ma aveva scelto proprio la più brutta per una questione pedagogica. Riteneva, così facendo, di dare ai ragazzi la sensazione di «essere agli inizi». Riteneva, inoltre, di stare regalando ai ragazzi, insieme a una brutta tovaglia, anche un bell’aneddoto educativo da poter raccontare ai loro figli. La signora già si immaginava il suo Marco pronunciare alla prole, con il tono solenne delle lezioni di vita: «E pensate che quando sono andato a vivere con vostra madre avevamo solo una tovaglia tutta rotta che ci aveva dato vostra nonna. Me la ricordo ancora, era tutta blu e aveva gli orli rovinati». Sopra la tovaglia blu c’erano dei tovaglioli blu dello stesso servizio. Ma in uno stato migliore. Per mangiare utilizzavano i piatti vinti con i punti del benzinaio. Anch’essi blu. I bicchieri erano invece di un giallo paglierino smunto e spento che non invogliava particolarmente alla bevuta. Le posate provenivano dal servizio della nonna di Giulia, deceduta provvidenzialmente qualche settimana prima del loro trasferimento. Erano vecchi arnesi in acciaio con il manico di una plastica che – un tempo – doveva essere stata di un bianco splendente e che ora, a causa di decenni di utilizzo ininterrotto, faceva perfetto pendant con il giallo dei bicchieri. Così addobbata la tavola esprimeva un senso di innegabile mestizia e non ci volle molto prima che Giulia iniziasse a lamentarsene. Troppo brutta, troppo scomoda, troppo il tempo necessario per apparecchiare il tavolo prima di mangiare. Dopo due mesi i tovaglioli furono sostituiti dallo Scottex. Dopo tre mesi la tovaglia si macchiò di vino rosso e finì a giacere, insieme alle lenzuola estive, nel cesto delle cose che avrebbero lavato con l’arrivo del bel tempo. Si ruppero due piatti e due bicchieri. Alla fine Giulia e Marco pensarono che fosse molto meglio mangiare direttamente sul tavolo. Tanto è di legno e il legno è fatto per resistere.
«Sembra muffa.»
Il padrone di casa stava con le mani dietro la schiena e la testa sollevata per guardare verso il muro della stanza ormai totalmente macchiato di nero. Era un ometto basso, un po’ tozzo, dai capelli bianchissimi e aveva la tendenza ad alzarsi sulle punte dei piedi ogni qual volta finiva una frase. «Sì, è proprio muffa» disse con tono deciso Marco.
«Eh, la casa è vecchia…» sospirò il padrone di casa allargando le braccia e poi facendole ricadere, pesantemente, lungo i fianchi, lasciando che il PAK! delle mani sulle cosce mettesse il punto finale alla frase.
«Sì, ma bisogna fare qualcosa» lo incalzò Giulia.
«Eh, ma cosa?» disse il padrone di casa sconsolato.
«Bisognerebbe ritinteggiare» sottolineò Marco, che con il termine ritinteggiare aveva esaurito un terzo del vocabolario tecnico appreso da suo padre (le altre due parole erano sfiatare – detto di termosifoni – e spurgare – detto di sanitari).
«Sì, ma non adesso, adesso piove ancora» puntualizzò il padrone di casa.
«Eh, ma noi mica possiamo andare avanti così…» sottolineò Giulia.
«No, certo, non è giusto e poi è malsano» approvò il padrone di casa.
«E allora cosa possiamo fare?» disse Marco cercando realmente una risposta.
«Guardate… basta aspettare che smetta un po’ di piovere e che inizi a fare caldo. Appena finisce l’inverno vedrete che il muro asciugherà e la muffa andrà via» dichiarò sicuro il padrone di casa. Smisero di guardare il muro e si sedettero al tavolo.
«Caffè?» chiese Giulia.
«No, grazie.»
«Però ritinteggiare spetterebbe a lei» disse Marco facendosi coraggio e preparandosi allo scontro. «Si capisce. Ma vedrete che andrà via con la bella stagione» disse il padrone di casa alzandosi dalla sedia.
«La accompagniamo alla porta» disse Giulia.
«No, non c’è bisogno che vi disturbiate» disse il padrone di casa.
«Ce l’ha un ombrello? Fuori piove» disse Marco.
«Sì, non vi preoccupate. Arrivederci.»
«Arrivederci.»
Marco e Giulia rimasero a fissarsi dalle opposte estremità del tavolo.
«Sei andato in soffitta a controllare se ci sono perdite?»
Marco rimase bloccato sulla porta di casa con le chiavi in mano. Dal pianerottolo Giulia gli poneva una domanda che aveva interrotto la loro routine mattutina. Marco si sentì a disagio, come se di colpo qualcosa di umido e sporco gli fosse colato lungo il collo.
«Avrei voluto, ma ho lasciato perdere. Preferisco coltivare la speranza che non ci sia proprio nulla da riparare e che tutto possa tornare a posto da solo. Che basti aspettare. Senza dover fare niente. Solo aspettare.» Questo pensò Marco, ma rispose semplicemente: «No, ci andrò domani».
Giulia uscì di casa e da quel momento smise di fare domande a Marco.
«Secondo me vi ha fregato.»
La vicina di casa era più che sicura. «Prima di voi c’era un’altra coppia e anche loro avevano quel problema. Doveva ritinteggiare con la vernice apposta e invece è andato al risparmio.»
Il livore nei confronti del padrone di casa espresso dalla vicina di casa era autentico. Sembrava quasi che la muffa fosse un problema anche suo. Ma non lo era. Questo le consentiva di poter esprimere sentimenti più vivi e autentici nei confronti di quell’ingiustizia, cosa che non avrebbe potuto fare se ne fosse stata anche lei vittima. Avrebbe avuto da pensare alla muffa, a come sanarla. E invece così, senza quel pensiero per la testa, poteva concentrarsi esclusivamente sull’esprimere un sincero e risentito sdegno. «Dovete pretendere che vi metta a posto il muro!»
«Abbiamo provato a parlargliene, ma ha detto che bisogna prima aspettare che asciughi, che faccia bel tempo…»
«Sì, e intanto tu cosa fai? Stai qui con quella roba che non sai nemmeno se è tossica?»
«Ma va’, è solo muffa.»
«Che ne sai?»
«È muffa, è muffa, anche Marco dice che è muffa. Sappiamo entrambi che non è niente di grave, una cosa che è legata al freddo e al tempo, poi passerà.»
«Sì, ma intanto?»
«Intanto niente, aspettiamo che smetta con questa pioggia. E poi siamo sempre fuori casa. Siamo qui solo per dormire, guarda, quasi non ce ne accorgiamo.»
Giulia sapeva di stare mentendo. Non riusciva più a guardarla quella parete. Le faceva senso. La trovava disgustosa e inquietante. E soprattutto aveva iniziato a diventare orrendamente ingombrante. Non riusciva a muoversi per casa senza imbattercisi, come un paio di scarpe lasciate in mezzo al corridoio o una prolunga srotolata sotto le gambe di una sedia. Ci inciampava sempre: con gli occhi e con il naso (la muffa aveva iniziato a riempire la stanza di un odore polveroso e sgradevole). Ma soprattutto con il pensiero e con le parole. Sembrava infatti che non ci fosse altro argomento di discussione tanto con Marco che con i suoi amici. Tutti parlavano solo della muffa. Se Giulia avesse avuto modo di guardarsi dall’esterno, avrebbe scoperto che alla fine era sempre lei, Giulia, a tirare fuori per prima l’argomento. Ma fortunatamente per l’umanità, l’oggettività su se stessi è una dote riservata agli aspiranti suicidi e ai depressi e così la colpa rimaneva della muffa. Marco intanto era rientrato a casa, si era tolto le scarpe bagnate, aveva riposto l’ombrello umido e si era chiuso nello studio senza che Giulia ritenesse in qualunque modo utile coglierne la presenza.
«Secondo te ci amiamo?»
La domanda di Marco giunse inaspettata e rumorosa, durante la cena. Giulia alzò lo sguardo dal piatto e i suoi occhi si incastrarono nella muffa. Per qualche secondo rimase in silenzio, fissandola. Le parve di poterla vedere allargarsi a vista d’occhio. Lungo lo spigolo del muro, sopra la parete, come un rampicante immondo, mangiandosi centimetri di spazio, coprendolo, infestandolo.
«Sì, credo di sì. Ci amiamo» rispose.
«Credo anch’io, non vedo perché non dovremmo amarci.»
«Vero, non ci sarebbe ragione.»
«No… non ci sarebbe.»
Poi fu di nuovo silenzio e rumore di masticazione.
«Domani chiamo qualcuno.»
Marco fissava il soffitto della camera da letto. La sveglia illuminava con bagliori rossastri le lenzuola. «Domani chiamo qualcuno» ripeteva Marco. «Domani chiamo qualcuno e la faccio mettere a posto.»
«Lascia stare. Aspettiamo solo che venga l’estate.»
«Forse hai ragione.»
Giulia sospirò. «Forse sì, aspettiamo l’estate…»
Giulia sospirò ancora e si voltò su un fianco tirando a sé la coperta pesante. Se non avesse fatto finta di dormire, i suoi occhi si sarebbero riempiti del nero della muffa che riempiva ormai tutta la casa. Fuori un cielo torbido lasciava presagire nuova pioggia.