Accabadora

Autore: Michela Murgia
Casa editrice: Einaudi
Pagine: 164
Accabadora è un titolo laconico, una sola parola che racchiude in sé l’essenzialità e il riserbo che merita la storia raccontata da Michela Murgia. L’accabadora è, letteralmente, colei che finisce, l’angelo velato di nero che nella mitologia popolare sarda accompagna la morte affinché questa si compia. È la madre nella sua declinazione ultima, quella pietosa e compassionevole.
La Sardegna degli anni cinquanta è apparentemente così lontana per usi, costumi, cultura, non solo dall’Italia di oggi, ma dall’Italia di allora, tanto che il mare che le separa sembra essere un oceano troppo vasto da navigare. Ed è in questa terra quasi sospesa che si svolge la storia di Maria Listru.
Maria Listru è una “fillus de anima, una bambina generata due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra”. Nata Listru, quarto frutto non desiderato di una famiglia già troppo indigente per riservarle anche solo attenzione e affetto, dall’età di sei anni cresce Urrai, adottata dalla vecchia Tzia Bonaria, sarta vedova di un uomo mai sposato. Le due imparano una nuova geografia emotiva, fatta della consapevolezza di essersi scelte, in un modo meno colpevole e più cosciente di essere genitore e figlia. Ma Tzia Bonaria, che per natura non è potuta essere madre, qui lo è doppiamente. Nelle sue uscite notturne, che Maria intercetta ma non capisce, si cela l’altra faccia della sua maternità, quella dell’accabadora. Questa scoperta coinciderà per Maria con la perdita dell’innocenza, con l’età della rabbia e dell’emancipazione, con l’allontanamento dalla propria terra. La lunga e sofferta elaborazione della vicenda la porterà a essere finalmente donna, quando il destino pretenderà da lei il gesto più sofferto, quello di accabadora della stessa Tzia Bonaria.
Michela Murgia tratta i temi della maternità e della morte in una prospettiva che, se non inedita, è senz’altro coraggiosa, legandoli in un’architettura circolare che riecheggia quella della vita.
Un modo di raccontare lieve e sofferto, capace di restituire dignità alla morte e alla solitudine che l’accompagna senza indugiare nel patetismo del dolore, cui troppo spesso è facile abbandonarsi con una punta di compiacimento. In questa sobrietà di stile risiede l’elemento più apprezzabile del romanzo, di una storia che riesce a intrattenere un rapporto dinamico con il presente e l’attualità senza pretendere di essere allegorica, senza sottolineare in modo grossolano che, sì, qui si sta parlando (anche) di eutanasia.
L’italiano del romanzo, bellissimo perché molto ricco dal punto di vista lessicale, perfetto contrappunto di una costruzione scarna e semplice, risulta impreziosito dall’incontro con il sardo, dando vita a una lingua densa e adatta a far rivivere il legame tra Sardegna e Italia, tra passato e presente. La Murgia confessa nei ringraziamenti un debito di riconoscenza nei confronti di Marcello Fois, per “avermi guarita dalla paura di usare il mio sardo”. Anche Fois, in passato più restio a scrivere della sua terra e a utilizzare il suo dialetto, con Stirpe compie un’inversione di tendenza, lontana dai gialli e dalla Bologna che lo hanno reso celebre. È sempre difficile, forse sbagliato e sicuramente riduttivo, parlare di “letteratura sarda” o regionale. Senza dubbio sono operazioni letterarie, quelle sopra citate, che aggiungono, non tolgono, qualcosa al panorama italiano. Con la speranza che Michela Murgia possa scrivere altri romanzi di questa fattura e raccontare storie così intense e coraggiose.
Lorenzo Gramatica
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