Autore: Claudio Grattacaso
Casa editrice: Nutrimenti
Pagine: 250
La domanda è retorica: è ancora possibile nel 2014 fare letteratura scrivendo di calcio in modo originale?
La mitologia del «pallone» ha padri illustri in poesia come in narrativa: dalle poesie calcistiche di Saba ai neologismi di Gianni Brera, rendere epico un calcio da troppo tempo bacato (doping, scommesse, razzismo e violenza da stadio, solo per citarne alcuni) non è impresa facile. L’unica via percorribile per scriverne in modo appassionante e credibile sembra quella di immergerlo nel non professionismo, nel dilettantismo: un calcio di periferia dove leggenda vuole che i campi siano polverosi e l’erba un miraggio. Una linea d’ombra comunque rischiosa, dato che i fenomeni come il calcio scommesse e il doping fatto in casa sono presenti anche (o soprattutto?) nelle serie minori. Una linea d’ombra ben descritta negli ultimi anni da due autori meridionali come Cosimo Argentina (Cuore di cuoio, Sironi, 2004), che attraverso il calcio dei campetti improvvisati di Taranto ha raccontato con la sua solita talentuosa scrittura una parabola sull’adolescenza, ed Elisa Ruotolo, che con Molto Leggenda (contenuto nella raccolta Ho rubato la pioggia, Nottetempo, 2010) ha scritto probabilmente uno dei migliori racconti italiani degli ultimi anni, dove il calcio dei tornei locali improvvisati diventa cronaca di disillusione e caduta degli dei. Entrambi hanno raccontato un calcio «minore» per descrivere altro, l’hanno fatto con una lingua vivida, che attinge anche in parte al serbatoio dei dialettismi, e che mostra in maniera evidente un lavoro di scavo dal punto di vista linguistico e stilistico.
Lavoro di scavo che non appare evidente nel romanzo d’esordio di Grattacaso, dove la lingua adoperata è, per dirla utilizzando dei celebri versi di Sanguineti, «molto quotidiana (e molto da quotidiano, proprio)», e probabilmente rappresenta la debolezza maggiore del libro.
Protagonista della vicenda è Josè Pagliara, detto Freccia, figlio di mamma comunista e di padre cattolico, cresciuto (dove, l’autore non ce lo dice) fin da giovane – proprio in quei campi improvvisati dove giocare con gli amici di quartiere – con la consapevolezza di possedere un talento calcistico non comune, un talento che sembra soffocare fin da subito qualsiasi altro aspetto della sua vita fino a renderlo spesso inerme, soprattutto nella sfera sentimentale («Possedevo il dono che tutti desideravano. Non conoscevano l’altra faccia della medaglia, la condanna: il destino sceglieva al mio posto, mi rendeva impotente, decideva lui a che angolo svoltare»).
La storia viene raccontata facendo spesso ricorso a scarti temporali e flashback. Passiamo così da una tragedia avvenuta negli anni ’70 che ha segnato l’adolescenza del protagonista, all’esperienza calcistica in serie A, cui segue la discesa nelle serie minori nel corso degli anni ’80, al presente, segnato dalla difficoltà in ambito famigliare nell’esternare i propri sentimenti alla moglie e alla giovane figlia. Questo però senza alcuna nota di costume sulla società italiana, dato che Grattacaso pare interessato prevalentemente al travaglio emotivo del protagonista e dei personaggi che gli ruotano intorno, con un senso di mediocrità che sembra aleggiare e calare definitivamente su tutto e tutti («ormai l’umanità si perde dietro pensieri bui, e la vita non ha più gioia, è una palla floscia che rimbalza da un’ansia all’altra»).
Tentando di rispondere alla retorica domanda iniziale, la risposta in questo caso pare negativa: l’autore non sempre riesce a evitare gli stereotipi del caso (il calcio scommesse, il protagonista che diventa un padre assente perché assorbito dalla sua grande passione calcistica) e, malgrado imbastisca una storia che segue un suo percorso con tanto di epifania finale, non sembra aggiungere elementi di originalità nella particolare sottospecie della narrativa di argomento calcistico.
Giuseppe Rizza