Autore: Stefano Valenti
Casa editrice: Feltrinelli
Pagine: 119
Non è facile scrivere di morte, di fabbrica, di morti in fabbrica.
Il rischio maggiore, oltre al pudore e all’imbarazzo, è che ciò di cui si scrive schiacci tutto: soprattutto il come si scrive, come quel dolore viene distribuito.
Nel caso di Valenti c’è anche una componente aggiuntiva non indifferente: le due storie del libro, pur se intese come opere di fantasia, sono basate su fatti realmente accaduti, e sulla sua pelle: la sua e quella del padre.
Il romanzo, a tratti anche d’inchiesta, narra di alcuni operai della Breda Fucine morti a causa dell’ esposizione alla polvere d’amianto, che ha provocato loro negli anni una serie di tumori, fra cui il mesotelioma.
Il padre dell’autore è parte in causa, dato che ha lavorato per anni nel reparto aste della fabbrica, prima di avere avuto il coraggio di abbandonarla per la grande passione della vita: dipingere.
Ma l’autore (e narratore), oltre a essere il figlio del protagonista, diventa egli stesso corpo della storia quando racconta le tribolazioni personali con il proprio male (un termine più volte ricorrente nel testo), crisi di panico che probabilmente hanno una radice comune alla vicenda paterna.
Eppure, al di là dei due protagonisti già citati, il ruolo maggiore spetta a qualcun altro: alla fabbrica.
Una macchina che strazia le vite di coloro che hanno a che fare con essa, che le deturpa, le umilia, crea solchi nel corpo e nella psiche, un mostro che si alimenta di uomini e donne («Guardava il muro grigio del casermone e lì, aggrappato alla rete metallica che tracciava il perimetro del piazzale, provava la vertigine. La fabbrica era piantata nel mezzo di una distesa lunare e le luci di notte la rendevano simile a un’immensa stazione orbitante»), e che permette ancora di vivere solo nella sua assenza («Quando la sirena suonava e il sostituto arrivava, il dolore cessava d’improvviso. Lo scampato pericolo rinsaldava nervi e muscoli e pareva che niente potesse opporsi fra lui e la vita. Un’altra giornata era finita»).
Valenti ha l’indiscutibile merito di aver trattato una materia che troppo spesso è taciuta sia dalla classe politica che dai mass media, e che risulta spesso assente anche dai libri di narrativa (probabilmente l’ultimo romanziere italiano a scriverne con lucidità e talento è stato Volponi). Lo fa in un modo personale, con grande dignità e soprattutto senza scadere nella retorica.
Magari riesce a essere meno incisivo quando parla del «suo» male, del panico che lo attanaglia e che lo blocca (ma esiste veramente una scala del male?), però con questa opera prima ottiene il risultato di aver ricreato uno stile, una scrittura che, senza grandi elaborazioni formali e svincolandosi dai canoni tipici del romanzo d’inchiesta, riesce a essere sempre al servizio della storia e a trasmettere in chi legge un senso di sdegno per i soprusi e le falle del nostro sistema.
Un romanzo così, per sua natura povero di poesia, non poteva che chiudersi con dei versi tratti dalle Poesie operaie di Luigi Di Ruscio.
Giuseppe Rizza