Autore: Luisa Brancaccio
Casa editrice: Einaudi
Pagine: 139
Il nordirlandese McLiam Wilson nel suo romanzo Eureka Street esordiva con l’ormai celebre incipit: «Tutte le storie sono storie d’amore»; probabilmente neanche il primo romanzo di Luisa Brancaccio è immune da questa regola, anche se declinata in un modo ovviamente del tutto personale dato che qui l’amore è andato a male, è marcio fin dalla radice.
Quello della Brancaccio è infatti un libro sulla famiglia e sul deterioramento della stessa: le crepe sono subito visibili e si allargano durante tutta la storia, fino a trasformare l’impianto familiare in un cumulo di macerie, tanto da far venire in mente come suo parallelo il recente romanzo di Teresa Ciabatti, Il mio paradiso è deserto, dove una famiglia, anche in quel caso più che benestante, va in rovina a causa della crisi morale dei suoi componenti.
L’inizio è fulminante sia per l’andamento e il ritmo della prosa che per ciò che descrive: un giovane, nel giorno del suo compleanno (riceverà un regalo «speciale» dalla sorella), celato da una siepe sta spiando con un binocolo i vicini di casa. Da quel momento in poi la vicenda si concentra – senza alcun legame con la scena iniziale, che anche a fine lettura apparirà del tutto slegata rispetto al nucleo della storia – sulla vita di Margherita, moglie di un illustre primario ospedaliero e madre di tre figli. Margherita è una donna spossata dai farmaci che prende per tentare di dormire, trascorre le giornate cucinando piatti che spesso marito e figli (il «branco»: termine che ricorrerà spesso) ignorano durante le loro cene, sta attraversando una profonda crisi esistenziale.
Nel corso del romanzo verranno inseriti degli episodi che riguardano personaggi esterni alla famiglia di Margherita – in particolare una giovane coppia che decide di lasciare la città a seguito di un trauma – ma che non sembrano ben amalgamati alla trama e appaiono scollati rispetto alla vicenda narrata fino a quel momento. L’impressione è che siano poco utili al racconto e all’intreccio al fine della coerenza interna.
Stanno tutti bene tranne me contiene però almeno due grandi pregi: la prosa è sempre ben sorvegliata, la scrittura è asciutta e senza un filo di grasso, il fraseggiare breve evita inutili giri di parole favorendo così il ritmo della narrazione; la caratterizzazione dei personaggi – e in particolare della protagonista – è decisamente riuscita, dato che spesso con brevi descrizioni e illuminanti particolari l’autrice delinea e a fa intendere in poche righe la loro psiche.
A seguito delle buone qualità della scrittura rimane una punta di rammarico per la scelta di non concentrarsi interamente sulle vicissitudini personali di Margherita e degli altri componenti della famiglia – a discapito così di una maggiore unità e funzionalità dell’opera.
Giuseppe Rizza