Quella sera, quando sua madre cominciò a preparare la borsa con la roba da mangiare, Filippu si sentiva molto emozionato. Appoggiato al bordo del tavolo, le braccia lungo il corpo magro di bambino, la osservava trafficare e pensava ai suoi fratelli, a suo padre, e a tutte le volte che erano usciti a pescare senza di lui.
Sua madre sistemò i pipi chini dentro una teglia di metallo abbastanza profonda, con delicatezza, facendoli scivolare con l’aiuto di un cucchiaio di legno, e ci adagiò sopra delle fette di pane di casa, spesse e compatte. Accanto mise il contenitore con le olive cunzate, e una bottiglia di vino rosso. Poi avvolse tutto in un canovaccio di cotone che chiuse con un nodo in cima, e gli porse l’involto. Filippu lo prese con entrambe le braccia, affondando il naso e i pensieri nel tepore unto dei pipi.
Lo portò così fino al porto, camminando piano per paura di inciampare. Arrivato alla barca consegnò l’involto al padre, che gli indicò dove sistemarsi senza manco guardarlo, continuando nel frattempo a caricare le reti insieme ai suoi fratelli.
Dal suo angolino, Filippu li osservava lavorare buono buono: in barca, a pescare, con i «grandi». Appena il peschereccio lasciò il porto, Filippu si voltò a guardare indietro. Nella luce rosa della sera, si sentì salutare dalla luna, e dalle luci del paese, accese come i ceri alla festa della Madonna de li pisci, mentre il vento scabro e gli schizzi di sale gli irruvidivano la faccia. Le onde leggere schiaffeggiavano piano la prua della barca, trasmettendo un movimento ipnotico alla testa di suo padre, e dei suoi fratelli, fissi come delle statue di pietra. Una cantilena che si irradiava a tutta la barca, alle reti sistemate sul fondo, al secchio di legno per lavare i pisci, alla bottiglia del vino che si tingeva il collo, prima da una parte, poi dall’altra.
I pipi sistemati stretti nella teglia come bambini addormentati nel lettone della mamma, le fette di pane sopra a fare da coperta, da tenero linzolo. La bottiglia del vino tinta di rosso scuro, la pozione magica del senno perduto di Orlando, come aveva visto all’Opera dei Pupi pochi giorni prima, insieme a suo fratello Paolo, alla festa della Madonna de li pisci.
Arrivati al largo la barca si fermò. Mentre i fratelli gettavano l’ancora, il padre indicò un punto lontano, affogato nel nero: l’isola sommersa. «È un’isola nascosta» disse Paolo, «un’isola che riemerge solo ogni cento anni, un vulcano che sale dal mare sparando per aria cenere bollente, come i fuochi d’artificio della festa della Madonna. Ma non è nostra, è degli anglisi, o forse dei francisi, per questo noi non riusciamo a vederla.»
Così concluse, e lo guardò da sopra a sotto, come solo lui sapeva fare, con insistenza, fino a farlo sentire piccolo, sempre più piccolo, tanto più piccolo che Filippu si mise paura di inciampare, e cadere sotto una delle assi di legno del fondo della barca.
Era arrivato il momento di calare le reti e suo padre e i suoi fratelli cominciarono a darsi da fare, con movimenti silenziosi e collaudati. Finito di metterle giù e calati i piombi, si trattava solo di avere pazienza: così si sedettero comodi, buttando solo ogni tanto un occhio alla danza leggera che i sugheri facevano sulla superficie dell’acqua, e cominciarono a raccontare delle storie. Vecchi fatti, antiche leggende, storie di pisci acchiappati e di pisci fuggiti. Poi suo padre cominciò a raccontare la storia dell’isola che era un vulcano: l’Isola Firdinandèa.
La prima volta che salì su dal mare, si fece largo fra le onde dritta e impettita: pareva la statua della Madonna sulle spalle dei piscatori, quando ondeggia sulla salita davanti alla chiesa. La prima volta che salì su dal mare, ci fu un terremoto fortissimo, così forte che tremò tutta la terra, e lo sentirono fino all’America. Il mare si infuocò, e fu tutto un bollire sopra e sotto che durò per giorni. Quando tutto finì, attorno all’Isola c’erano pisci morti, tanti pisci morti, migliaia di pisci morti, che ricoprivano il mare fitti fitti, tutti gonfi e con la panza all’aria, come giuggiulena sul pane della domenica. Uccisi dai fumi dell’Isola.
«Poi, dopo alcuni giorni, così come era salita sopra, l’Isola se ne tornò d’assutta.» Così concluse il racconto suo padre, e finito di dire si alzò in piedi, facendo segno anche ai suoi fratelli: era arrivato il momento di tirare su le reti. Allora anche Filippu si alzò, e si piazzò vicino a loro, che avevano cominciato a tirare su con forza, con il corpo tutto buttato all’indietro che urlava per la fatica.
La rete piombò al centro della barca, mentre loro cadevano indietro, le gambe e le braccia tese al cielo.
Fu allora che Filippu lo vide, illuminato dalla luce tremula della lampara. Gialla l’unghia della mano fra le maglie della rete; terreo il volto in mezzo al blu argento delle squame; silenziosa la bocca aperta nel rumore sordo dei colpi di coda; immobile il corpo fra i guizzi ostinati dei pisci. Un ragazzo, più o meno della sua età. Un ragazzo morto.
Alzò lo sguardo, e vide gli occhi iniettati di sangue di suo padre buttarsi sul corpo, ma non per abbracciarlo e piangere, come aveva fatto con lo zio quando era rimasto ammazzato, colpito dallo zoccolo distratto di un cavallo. Alzò lo sguardo, e vide la bocca aperta di suo padre e i suoi denti bianchi buttarsi sul corpo, afferrarlo per le gambe e le braccia che disobbedienti gli sfuggivano, sollevarlo e ributtarlo in mare, e poi rigirarsi e urlare a gola aperta, senza manco aspettare di sentire il tonfo nell’acqua.
Dopo, quella notte non ci furono più parole. In silenzio sistemarono i pisci nelle cassette, con gli occhi di vetro e la faccia di polvere. In silenzio svuotarono la rete con cura, fino a vedere il fondo della barca, fino a vedere l’asse di legno sotto la quale Filippu si era fatto piccolo piccolo. In fondo alla rete trovarono due pisci morti, e un piccolo teschio bianco, con accanto un osso lungo, un poco meno bianco.
Filippu guardò suo padre e si strinse nelle spalle, pronto ad altri occhi rossi di sangue, e bocche bianche di denti. Ma suo padre era scocciato, o forse solo stanco, e si limitò a ridere, lanciando via il teschio, i pisci morti e l’osso dalla rete con un calcio.
Poi si sedette, e si voltò verso Filippu, facendogli cenno di passargli l’involto della cena. Sciolse il nodo con un movimento deciso, e stappò la bottiglia di vino, bevendone subito un sorso.
La bottiglia di vino colma fino all’orlo di sangue rosso, sangue che gli colava dal mento giù dentro al collo della camicia. Sangue che si mescolò all’olio dei pipi chini.
I pipi sistemati stretti nella teglia come cadaveri in una fossa comune, annegati nel mare nero della luna, e le fette di pane sopra a fare da lapide, da bianco linzolo. Pipi, sangue e olio che colavano a terra, e si impastavano con il sangue dei pisci, e macchiavano per sempre le ossa nere lucenti, che guardavano cieche il fondo del barcone.
Il teschio testa muta, testimone della cena, dei peperoni, tagliati, scoperchiati, riempiti fino a scoppiare, fritti, oliati, presi a morsi, masticati, digeriti. Testa muta, nella prima notte che Filippu andò a pescare con suo padre e con i suoi fratelli.
Il teschio testa muta, che lo andò a trovare, dal quel momento in poi, una notte, dieci notti, mille notti ancora, ogni volta che suo padre e i suoi fratelli si preparavano per uscire a pescare. Il teschio testa muta, teste mute che gli giravano attorno al letto, e gli tiravano il linzolo, e le dita dei piedi, fino a farlo sudare e tremare e battere i denti, fino a fargli salire la febbre alta, mentre la campana rintoccava sorda. Affondava nell’acqua. «No. Filippu nun ci veni a piscare stanotti. Sta male.»
Quella notte, mentre tornavano al porto, Filippu guardò il mare nero lucente, e poi la luna fettina dietro la muntagna, e pensò che forse anche nella sua famiglia dovevano andare sulla luna, che dovevano andarci con tutta la barca, e le reti e i pisci dentro, a recuperare il senno di Orlando, e magari anche il loro. E pensò anche che forse sulla luna non succedevano certe cose, e non si pescavano pisci con la panza all’aria e piccoli teschi, e le ossa di morto erano solo i dolci ricoperti di glassa di zucchero, che si mangiavano per la festa dei morti, insieme a quelli a ciambella, impasto di miele e mandorle.
Quella notte, mentre rientravano a casa nel silenzio della mattina presto, Filippu guardò il suo paese avvicinarsi nelle sue prime luci, e gli sembrò fuggito, scomparso.
Dopo che ebbero attraccato la barca e scaricato le cassette dei pisci sulla banchina, guardò ancora la luna alta nel cielo, e pensò che un giorno ci avrebbe pensato lui, a rifare tutte quelle teste, e a rimetterle sul collo, tutte quelle teste che dormivano sul fondo del mare davanti al suo paese, vicino all’Isola Firdinandèa, con i pisci a piangerle forte, e le alghe a carezzarle.
A rimetterle tutte sul collo, le teste di quei mischini morti mentre cercavano di salvarsi dalla loro terra che affondava, che si inabissava, che scompariva per sempre.
A rimetterle tutte sul collo, una a una, e allora i pisci nella rete avrebbero smesso di tuonargli nella testa, e il ragazzo come lui lo avrebbe preso per mano, per andare in cortile, a giocare al gioco delle cinque pietre. Passata la primavera.
I pisci
di Veronica Galletta
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