Dalla quarta di copertina dell’edizione spagnola di el afinador de habitaciones (ed. Libros del Silencio, 2010):
Una narrazione debordante nella quale si succedono senza sosta le manie compulsive del narratore, la sua ansia mitigata dal cognac, le sue esperienze sentimentali, ossessive e caotiche, e le visita di inquietanti presenze dell’oltretomba. I suoi pensieri si muovono tra l’intelligenza del superdotato e il candore di un adolescente, tra l’umorismo più cinico e il più ingenuo dei romanticismi. Oltre a tutto questo, la letteratura come sfondo vitale e morale, che lo condiziona a tal punto da mettere in dubbio la sua percezione della realtà.
Con questo romanzo Celso Castro ci immerge in una narrazione febbrile, estremamente moderna e originale – e pertanto, difficile da classificare –, e ottiene quello che caratterizza un vero scrittore: creare una voce propria e inconfondibile, che trascende la pagina. Insomma, non è un romanzo qualsiasi.
Hanno detto di el afinador de habitaciones:
Una bomba esplosiva tra cultura alta e delinquenza. Su come perdiamo la vita per gentilezza. Considero un atto di giustizia poetica avvertire del valore sovversivo di Celso Castro.
(Enrique Vila-Matas)
In questa narrazione ci sono una spinta, una vitalità e una consapevolezza di dove sia il centro del bersaglio che mostrano come, dietro l’atmosfera celiniana, il gesto alla Salinger e alla E.E. Cummings, e certe soluzioni alla David Foster Wallace, si nasconda un narratore coraggioso, capace di sostenere un mondo narrativo pieno di riferimenti.
(Juan Ángel Juristo, ABC)
Celso Castro ha creato una voce in cui potranno identificarsi giovani e adulti. Uno specchio dell’anima comune, nobile e vulnerabile: per una volta la letteratura trasmette speranza.
(Roberto Valencia, Quimera)
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e anche ansia, e uscivo tutti i pomeriggi come se qualcosa tirasse il nervo già teso della mia anima, per dirlo in qualche modo, e andavo a –la gaviota– che era un bar che si trovava dopo il mattatoio, e mi sedevo vicino alla vetrina, e chiedevo un bicchiere di cognac, e un altro, e un altro, e il sole diventava arancione, e un altro, e si tingeva di rosso, e ancora un altro, e sprofondava nel mare, e si portava dietro la mia ansia, tutta. e io respiravo. respiravo a fondo, e sorridevo. e guardavo per controllare se il padre di rosalía se n’era andato a cenare. e allora mi alzavo e pagavo a rosalía, perché mi chiedeva di meno, o non mi chiedeva niente, o la pagavo in monete e lei mi dava il resto in banconote. la cosa negativa era che iniziava già a pensare che quei soldi, e il conseguente rischio che suo padre la scoprisse, le conferissero una certa autorità, un certo ascendente su di me. e mi rimproverava costantemente, e per qualsiasi cosa. per esempio, un giorno me ne stavo tranquillo, a calmare la mia ansia e –a osservare scrupolosamente un tramonto sublime– ed entra draque e si siede al tavolo accanto e ordina una birra. e immagino che si annoiasse a starsene solo, o che non fosse interessato ai tramonti. e niente, viene e mi dice ―sembri un vecchio… se bevi quello…― e io gli dissi che bevevo cognac per calmarmi e che a me, personalmente, il cognac non piaceva proprio, e che addirittura mi disgustava, ma era l’unica cosa che mi calmasse, e lui ―ah…― socchiuse gli occhi dinanzi al crepuscolo, e sembrava che stesse meditando, o soppesando quella bellezza, o qualcosa del genere. e pochi secondi dopo ―e come ti chiami?― e mi allunga la mano ―io mi chiamo… cioè, tutti mi chiamano draque…
―draque?
―sì, draque… draque, come il pirata inglese[1]…
e a partire da quel giorno, quando veniva lì, si sedeva con me, e parlava di donne, e del fatto che io ero bello e giovane e che c’erano –donne a palate– e che non avevo motivo di fare un lavoro che non mi piaceva e che, oltretutto, rovinava la mia salute. perché io, nella mia ubriachezza, gli avevo raccontato degli acari e che, differenziandosi a seconda dell’argomento, gli acari di alcuni libri erano diversi dagli acari di altri libri, e che avevo trovato in magazzino un trattato o studio tassonomico degli aracnidi, con fotografie ingrandite e disegni schematici e roba del genere. e chiaro, anche in quel libro c’erano acari. e dissi a draque, e credo che lui condividesse la mia ubriachezza, che io ero convinto, e in questo non facevo altro che seguire nietzsche, che gli acari che vivevano in quel libro –che per loro era come vivere nell’album di famiglia– erano più saggi e più allegri e più… e draque ―cazzo… non mi sorprenderebbe proprio… e chi è quello…?
―nietzsche?
―sì…
―è un filosofo… a te sarebbe piaciuto, diceva: se vai con una donna, non dimenticare la frusta…
―non prendere per il culo… davvero?… cazzo, questo mi assomiglia…
―sì… cioè, l’importante è che parlava sempre di indignazione filosofica, sai? e diceva che solo i maestri sono capaci di ridere quando passano davanti alla propria porta…
e draque annuì con la testa e, dopo un lunghissimo sorso di birra, cazzo… non sapevo niente di questo nice…― e io gli dissi che sì, che era l’uomo più intelligente d’europa, e che io mi ero letto tutti i suoi libri, e che ne avrei cercato qualcuno in magazzino per farglielo leggere. e il giorno seguente gli portai –l’anticristo– e gli dissi, per favore, di non perderlo, perché aveva il timbro della biblioteca. e gli raccontai di mio zio, di mia madre, e che vivevo con mia nonna, e finii col confidarmi con lui, e che la verità era che tutti eravamo anticristi, esseri anomali e opposti alla vita per non so quali conflitti, per un conflitto raro e strano –un conflitto al di sopra di noi, cosmico addirittura– del quale non sapevamo niente, oppressi, come tubi cavi nel vuoto, corpi vuoti e fatui che vibrano angosciati, sospesi a metà nel nulla, corpicini vibratili, scatolette emotive. ed è che, in realtà, non siamo più di questo –casse di risonanza– però ora mi sto un po’ perdendo. insomma, rosalía mi rimproverava costantemente, ed era arrabbiatissima, e non faceva altro che brontolare e lanciarmi occhiatacce, e niente, che se quello a cui aspiravo in questa vita era essere un pappone e andare a puttane, non avrei potuto scegliere un maestro migliore di draque. e fu così per vari giorni, fino a quando piano piano iniziò a recuperare il suo umore abituale, e mi diceva –dov’è il maestro?… oggi non c’è lezione?– e anche –sei rimasto senza libro?… che scemo!– ed era che draque non si faceva vedere alla gaviota
e una o due settimane dopo, mi stavo godendo il tramonto, e sento una manata sulla spalla ―che c’è, giovane… sei ancora a dieta?― ed era draque, e gli lessi in faccia che gli stava succedendo qualcosa. e si siede e ordina una birra e se ne sta così in silenzio, facendo piccoli sorsi, e allora mi dice ―ti mostro una cosa… sai mantenere un segreto?― e apre la tasca del giubbotto, e io ―ah, il libro…― e tira fuori il libro ―no… guarda…― e vedo un riflesso metallico, ed è l’unica cosa che vedo ―è una pistola carica… di me non si prende gioco nessuno…― e che qualcuno gli ha dato dei cattivi consigli ―però non si deve preoccupare, che presto avrà quello che si merita― e che a lui importa solo di margot, recuperare margot, che è affezionato all’altra ―però margot…― e che quando l’aveva conosciuta, già si era reso conto che margot sarebbe stata molto importante e che avrebbe segnato, in qualche modo, la sua esistenza futura e, per questo motivo, non aveva voluto precipitarsi. e che aveva trascorso quattro mesi studiando il suo carattere e il suo comportamento―quattro mesi!… che è facile a dirsi…― e che ora era scappata ―per colpa di quello lì… ma, tempo al tempo― e che, ok, anche lui doveva riconoscere che aveva commesso un errore portandole karen, e che aveva dovuto convincerla, che così avrebbero guadagnato tanti soldi e avrebbero potuto mettere su qualcosa, un negozio, e che karen gli aveva messo in mano venticinque biglietti ―uno sull’altro― per andare a letto con lui, e questo perché sapeva che stava con margot. e niente, che erano diventate così amiche che addirittura dormivano tutt’e tre insieme ―cazzo… non puoi neanche immaginartelo…― e adesso erano scappate. era andato a casa della mami e ―neanche la più pallida idea…― così gli avevano detto, che non ne avevano la più pallida idea ―se ne accorgeranno, non si devono preoccupare… tempo al tempo… se senti qualcosa in giro, già sai― e mi guarda e sorride ―allora, non ti rompo più le scatole… e tu come stai?
― bene, come sempre… me ne sto qui…
―e soffri ancora d’ansia?― e io faccio spallucce e sorrido.
―sì, come sempre… ormai sono abituato― e per cambiare argomento ―hai letto il libro?― e lui dice no, che con quella situazione di merda non ha potuto, ma che aveva iniziato a leggerlo e gli stava piacendo
―sopratutto questa parte del…― e apre il libro e vedo che ha sottolineato tutta la prefazione, tutta, da cima a fondo, e con la penna. e in quel momento pensai a mio zio, a quello che diceva della gente che sottolineava i libri della biblioteca e li rendeva inutilizzabili― questa è buona: c’è chi nasce postumo… ma questa… guarda questa: che mi importa degli altri? gli altri sono semplicemente l’umanità. e si deve essere superiori all’umanità per forza, per levatura spirituale e per disprezzo… fai attenzione: forza, levatura spirituale e disprezzo…― e aveva sottolineato tante volte e con tanta energia la parola –disprezzo– che si era strappata la carta ―questa è grande… questa sì che è grande…
non rividi draque. due o tre giorni più tardi, entra l’ispettore aguado insieme a un altro alla gaviota, e mi chiede come mi chiamo e quanti anni ho e che ci faccio lì a bere cognac e se lo sanno i miei genitori e se lo sa mia nonna e se studio e che lavoro sto facendo e se mio zio sa che frequento un criminale pericoloso e che ha già ferito una donna con un colpo di pistola e che è sconvolto e che se io so qualcosa devo collaborare con loro ―prima che ci siano dei morti, capito?― ah, e che se soffro d’ansia devo andare dal medico ―da uno specialista…― che il cognac non è la soluzione. e così via, che ―per qualsiasi cosa… già sai, eh?― e se ne va― e appena l’ispettore se ne va, arriva rosalía
―vedi?… vedi cosa succede a frequentare certa gentaglia?
―ok, basta così… è solo quello che vuole essere…
―sì, gentaglia…
―va bene, quello che è…
―che ti ha detto?
―niente…
―qualcosa ti avrà detto…
―sì, qualcosa… di non tornare qui… quindi…
―no…
―no cosa?
―no… cosa c’entra questo con noi?
―e io che ne so… so solo che me ne rimarrò a casa a leggere, nella mia stanza…
―ok…
―senza uscire
―allora verrò io a trovarti…
―verrai tu…
―sì, verrò io…
―tra l’altro, non puoi…
―perché?
―devi stare qui…
―tu non preoccuparti…
―e quando vieni?
―quando mi verrà voglia… domani
―allora dammi un bacio…
―domani…
―no, adesso…
―no, adesso no… ci sono tutti…
―e che ti importa…
―non voglio che parlino di me… delle mie cose…
―ok, come vuoi… senti, porta una bottiglia…
così venne tutta sorridente, con la bottiglia, e io andai a cercare dei bicchieri e un succo di frutta che stava in frigo e andammo nella mia stanza. e all’inizio bevemmo, senza sapere cosa dire. e poi, rosalía disse ―che schifo… non so come puoi mandare giù questa roba…― e io le ricordai di nuovo il discorso dell’ansia e che, se non le piaceva, che ci versasse più succo. e allora si avvicinò per prendere il succo e io la afferrai per la maglietta e la baciai, e iniziammo a baciarci e volevo toglierle la maglietta, e lei ―non c’è tua nonna?― e io le dissi di sì, ma che non faceva niente, che era in soggiorno e che, inoltre, non entrava nella mia stanza senza bussare ―capito, capito, me la presenti?
―più tardi…
―no, adesso… voglio che me la presenti adesso…
e chiaro, io provai a dissuaderla, e le spiegai che mia nonna era un po’ rimbambita, che non era niente di grave, che era solo un eccesso di sensibilità e che era meglio non disturbarla, che l’aveva scossa molto la morte di mia madre, e che mi diceva sempre che mia madre era stata come una figlia per lei e che le aveva voluto bene come a una figlia, come alla figlia che non aveva mai avuto e che, da poco, io stavo leggendo, di notte ―senti, discrezione, eh?― e niente, che stavo leggendo e la sento piangere, e vado nella sua stanza, ―nonna, che succede?…― e mia nonna ―niente, niente… non è niente…― e io insisto ―qualcosa ti è successo…― e alla fine mi confessa che ha appena visto mia madre― era lì, seduta… dove sei tu… che mi sorrideva… con il sorriso di sempre…― e avevo sentito un brivido, che mi aveva lasciato di ghiaccio, e mi ero alzato e stavamo tremando tutti e due ―ma nonna…― e lei mi aveva detto che sì, che era vero, e che era già venuta altre volte ―una volta è rimasta fino all’una― e che la addolorava moltissimo e non poteva evitarlo, la addolorava moltissimo vederla così, che sorrideva. e io avevo provato a tranquillizzarla, e che non ci pensasse più, che mia madre era felice e ci voleva bene, e che noi volevamo bene a lei e non l’avevamo dimenticata, e tutto era a posto, che erano sentimenti e che, in alcune occasioni, i sentimenti ci tradiscono e giocano con noi e, insomma, erano sentimenti, l’importante è che fossero buoni sentimenti, e i buoni sentimenti erano questo… e la tranquillizzai un po’, ma io non ero tranquillo, e avevo passato la notte in bianco e con la luce accesa, nel caso fosse apparsa mia madre
e il giorno successivo, di mattina, ero andato a parlare con mio zio e gli avevo raccontato tutto, e che ero molto preoccupato. e la verità è che ero più che preoccupato, ero terrorizzato. e niente, glielo racconto e mio zio si mette a ridere a crepapelle in biblioteca, così forte che glielo fanno notare, e non dovevo prenderla a male, perché rideva della mia faccia, dell’espressione che avevo, che lo divertiva e, in definitiva, non ci dovevo fare caso, perché –quella– era sempre stata una famiglia stravagante –di stravaganti– e, quando lui era piccolo, già le loro gesta erano sulla bocca di tutti, e già dicevano che mia nonna era una sensitiva, e che vedeva cose, quindi non era niente di nuovo
sorprendentemente, anche a rosalía tutta questa storia sembrò perfettamente normale ―se la vede, sarà per un motivo…― e io le dissi che sì, che era perché era rimbambita ―mah, non dire stupidaggini…― insomma, dovetti presentargliela e, di malavoglia, la portai in soggiorno. e vidi che stavano legando, e che la cosa andava per le lunghe, che rosalía si attardava, e che se stava comoda in quella posizione e che se il cuscino e che se non stava meglio ora e che se voleva qualcosa, che le preparasse una tisana o qualcosa. così gli dissi che, niente, che non le disturbavo più, e che io mi ritiravo nel mio studio ―ora vengo, le preparo un tè e…―e chiaro, quando venne mi ero già bevuto più di mezza bottiglia ―e il mio tè… non me l’hai preparato― e rosalía sorrise e mi si gettò addosso, si lanciò su di me facendo la lotta ―a te ho preparato qualcosa di meglio―e mi mordeva e… be’, mia nonna era molto felice ed era entusiasta di rosalía ―è quello di cui hai bisogno, una donna forte, che abbia carattere… perché se no…― ed era –premurosissima– andava a trovarla ogni mattina, mentre io stavo lavorando nel magazzino, e le portava caramelle e cioccolatini o qualche dolce, è che mia nonna era molto golosa —ahi, ti ama molto quella povera ragazza… non so se te la meriti…— ed era vero che si prendeva cura di me come nessun altro, e fu lei a portarmi i guanti di gomma e la mascherina e degli occhialetti che si era comprata per un corso di nuoto e che non usava, ed era un peccato che avendo degli occhi verdi così belli, ce li avessi sempre irritati, e si era innamorata di me —il primo motivo: per i tuoi occhi— e ricordo che, armato con quell’equipaggiamento, mi ero letto a bruciapelo un libro enorme del bauhaus, tutto proust e più di un centinaio di opere letterarie spagnole –secolo XVI e XVII– fino a quando mio zio si stufò e mi tirò fuori da lì, perché non facevo niente, e preferiva tenermi vicino, dove poteva vigilarmi e… credo di essermi perso di nuovo. quello che voglio dire è che andava tutto bene e rosalía era così affettuosa, si dedicava tanto alla nostra storia, con quella attività instancabile, con quell’ottimismo che io consideravo così raro e così prezioso, che iniziava a risultarmi insopportabile vedere come lo sprecava, come lo sperperava con me.
così, vivendo in quell’equilibrio precario, in quell’apparente stabilità, era logico aspettarsi che una sciocchezza qualsiasi avrebbe demolito in un sol colpo –quella piccola costruzione idilliaca– e, inoltre, io me ne stavo tutto il giorno al chiuso, ed ero pallido, e con dei solchi intorno agli occhi per colpa degli occhialetti. e mi sentivo come un animale in gabbia, che andava da una parte all’altra della stanza, che si lamentava di tutto. e rosalía mi guardava con le sopracciglia inarcate e mi diceva che stavo cercando di –monopolizzare il nostro rapporto– la nostra relazione, e che già conosceva quelle astuzie, che aveva qualche anno più di me e –molta più esperienza– sentimentale, e che quando io ancora dovevo imparare a camminare, lei già correva. e io le rispondevo —guarda che sei contorta…— e che si sbagliava, che io non stavo cercando di –m o n o p o l i z z a r e– che la smettesse con le stupidaggini e le arguzie inutili, che l’unica cosa che mi stava succedendo —è che soffoco qui, capisci— che ero sempre più ansioso. e prendeva la bottiglia e se la metteva davanti agli occhi —vedi? … guarda bene…me la sono bevuta quasi tutta, e niente!— e non esageravo, ero sempre più ansioso, e il cognac mi faceva sempre meno effetto, e uno di quei pomeriggi arrivò il colpo. e compare rosalía con la bottiglia avvolta in un foglio di giornale, e la verità è che non la portava mai avvolta in un foglio di giornale, la portava in una busta di plastica, ma io non ci feci caso e presi il foglio di giornale e lo buttai così, da una parte, sul letto. e mi verso un bicchiere bello pieno e me lo bevo in silenzio, e poi me ne verso un altro e lo sto bevendo e —gli altri non esistono?
—immagino di sì… che c’è, ne vuoi?
—sì…
—oggi lo vuoi…
—sì, oggi lo voglio…
—ok, allora vai a prenderti un bicchiere…
—molto gentile…
—e portati questo foglio …
—quello l’ho portato per te, è di qualche giorno fa… leggilo, magari impari qualcosa…
e allora io prendo il foglio e lo apro, ché ancora aveva la forma arrotondata della bottiglia, come un calco, e leggo non so cosa riguardo agli investitori, che sono –allarmati– o qualcosa del genere, e lo giro e –TROVATO MORTO IN STRANE CIRCOSTANZE– e lì c’è la faccia di draque con gli occhi… disteso sull’erba, caduto, sul monte di san pedro, e lui –sotto stretta sorveglianza– e i –tre fori di proiettile– che aveva in testa, e un articolo o commento educativo e non privo di ironia –UN APPRENDISTATO DA SUPERUOMO– e guardo la fotografia di nuovo e la verità è che non riuscivo a smettere di guardarla. e fu un’intuizione, sì, qualcosa di assolutamente intuitivo, e vedo quell’angolo bianco fuoriuscire dalla tasca del giubbotto: il mio libro, il libro che gli avevo lasciato. e in quell’istante sento una tenerezza molto dolce che mi si rapprende in gola e mi inumidisce gli occhi, ed è anche ansia. e rosalía —che, che te ne pare?—
— che me ne pare… mi sembra una buona cosa… mi sembra che non posso credere che tu abbia avvolto la bottiglia con questa notizia… di sicuro hai raggiunto un livello di insensibilità spaventoso… complimenti…— ma che non aveva nessuna importanza, già ero abituato, mi ero abituato a vivere tra imbecilli. imbecilli di merda! vivendo una vita di merda in una città di merda, e che per me la vita non era altro che quello, merda! e una lotta permanente contro quella merda, che voleva ingurgitarci e assimilarci e trasformarci in merda. e che in fondo non era altro che questo, assimilazione! e che perfino la letteratura non era nient’altro che il riflesso di quell’assimilazione, e che io avevo appena finito di leggere il lazarillo e il guzman e il chisciotte, e non c’era altro che assimilazione dappertutto e che, per esempio, quando si riuniscono il baccelliere, il prete e il barbiere, ed esce il baccelliere a combattere contro don chisciotte, con il microrganismo estraneo, eh? le forze sociali, le difese, i leucociti, i fagociti, la descrizione dei fagociti che fagocitano, capisci? uscendo alla ricerca di quel microrganismo estraneo per attaccarlo, per neutralizzarlo… e tutta la letteratura era così, la descrizione di quella lotta permanente, di quella lotta persa –julien sorel, bovary, raskolnikov, nanà, karenina, samsa… tutti uguali, assimilati!– e avevano assimilato anche draque, e avevano avuto bisogno di tre colpi di pistola per assimilarlo. e chissà, forse un giorno sarebbe toccato a me, e sarebbero venuti a giustiziarmi per potermi assimilare definitivamente, e qualche stupido avrebbe scritto un articolo come questo. un apprendistato da superuomo! con tutte le sciocchezze superficiali che gli sarebbero venute in mente, e qualche idiota, eh? avrebbe avuto un’idea ancora più brillante: quella di usare la mia fotografia per avvolgere una maledetta bottiglia di cognac! e allora non riuscii più a respirare tanto ero indignato, e cominciai a singhiozzare e a gemere in un modo che faceva pena sentirmi, e così all’improvviso che dovetti tapparmi la bocca con le mani per non farmi vedere da rosalía —lasciami… non mi toccare!— e mi liberai dai suoi abbracci, perché ero stufo che le persone si comportassero così, come bestie insensibili, e di dover poi sentire le loro scuse e i loro piagnistei e le loro rettificazioni. e mi asciugai le lacrime e mi versai un altro bicchiere, e continuai col discorso dell’assimilazione, che mi dava del filo da torcere, e che a me non mi avrebbe assimilato nessuno e roba del genere. e niente continuai –a dire banalità– fino a stancarmi, e alla fine anche lei sembrava annoiata, così le dissi —guarda, è meglio se domani non vieni… né domani, né dopodomani… non venire più, è la cosa migliore…
[1] draque in spagnolo si pronuncia drache, quindi allo stesso modo in cui gli spagnoli tendono a pronunciare il cognome del pirata inglese Francis Drake.