Strisciando sotto la recinzione si era graffiato un braccio. Osservò quel piccolo segno rosso all’altezza del gomito e lo stuzzicò per un po’, poi lasciò perdere e prese il borsone che aveva lanciato al di là della rete prima di passare.
Le finestre dell’ex caseificio erano state tutte sfondate. Per anni i ragazzini della zona si erano divertiti a devastare ciò che era rimasto intatto nell’edificio: porte, vetrate, tubature, rifugi di vagabondi.
Era stato il passatempo di intere generazioni, quello di prendere a sassate le finestre del terzo e del quarto piano. Poi si era passati al secondo, al primo e così via.
Una volta distrutto tutto, quasi ci si dimenticò di quel luogo. I più grandi andarono a cercar lavoro in città o si sposarono. I più piccoli si tenevano a distanza, per via delle storie di fantasmi che i fratelli maggiori raccontavano tanto per farsi due risate.
Perciò si sentiva tranquillo, all’ex caseificio. Il fascino del luogo abbandonato si era disperso con l’avvicendarsi delle generazioni e per scopare di solito si andava in collina.
Entrò nell’edificio umido e infilò subito le scale. Le pareti erano state riempite da scritte di ogni genere, perlopiù frasi oscene accompagnate da numeri telefonici.
Si fermò al secondo piano, ciondolando a causa del peso del borsone. Venendo dal corridoio era la seconda porta sulla destra.
La stanza era esattamente come l’aveva lasciata il giorno prima. Posò il borsone ed estrasse tutto quello che c’era dentro, disponendolo ordinatamente sul tavolino: un copripoltrona a fiori, due vasi, una cornice, alcune riviste pornografiche dell’89, un panno elettrostatico, il poster di Star Wars.
Prese il panno e iniziò a strofinarlo con cura sopra tutte le superfici. Diventò nero in fretta e fu costretto a disfarsene prima del previsto. Impilò i giornaletti nella mensola che aveva ricavato da un’asse di legno, attaccò il poster al muro scrostato e sistemò sul comodino la cornice senza foto. Infine distese il tessuto a fiori sulla poltrona. I vasi li lasciò dov’erano.
Sedette, facendo penzolare le braccia. Tornò a esaminare il graffio sul braccio. Se univa i due lembi di carne, la ferita spillava minuscole bollicine di sangue che si gonfiavano e poi spandevano.
Il ragazzo era piccolo e paffuto. Non grasso.
Lo chiamavano Rotolino, perché una volta in prima media uno più grande lo aveva infilato in un bidone della spazzatura e lo aveva fatto rotolare lungo la discesa che arriva fino alla chiesa. La corsa di Rotolino si era arrestata molto prima, davanti all’alimentari: aveva sbattuto la spalla e si era fratturato la clavicola.
Ai genitori raccontò di essere caduto con lo skate e, in quanto al nuovo soprannome, se ne era fatto presto una ragione.
Si guardò intorno, contemplando il lavoro che aveva portato avanti in quelle due settimane. Muoveva la testa disordinata alla ricerca di oggetti mancanti. Nel giro di qualche giorno sarebbe stato tutto perfetto, tutto come sarebbe dovuto essere.
Si osservò attraverso uno specchietto che qualcuno aveva lasciato sulla corriera. Tentò di ravvivarsi il ciuffo, senza risultati.
Poi prese uno dei giornaletti, pescando a caso dalla pila. Li aveva trovati in un cassonetto sulla statale. Qualcuno si doveva essere sbarazzato di una collezione intera di porno che andava dal 1988 al 1992. Lui era riuscito a infilarne in borsa soltanto sei.
Sfogliò la rivista da cima a fondo, studiando con attenzione quelle acconciature e quei pochi indumenti fuori moda, le posizioni sforzate assunte dai corpi.
Non si sentiva affatto eccitato, anzi, quelle tette sproporzionate lo disgustavano, eppure avvertiva uno strano calore, lo stesso che aveva provato il giorno precedente, quando aveva pagato suo cugino per acquistare un pacchetto di Marlboro Light, custodito adesso dentro il cassetto del comodino.
Nemmeno lo aveva aperto. Del resto detestava fumare. Una volta suo cugino lo aveva costretto a provare e quasi ci era rimasto secco.
Tolse la plastica al pacchetto e sfilò una sigaretta. La tenne fra le dita per un po’, facendo un paio di tiri senza accenderla, poi la rimise di nuovo dentro.
Fuori il sole tramontava. Doveva darsi una mossa.
Passò la mano sui mattoni a vista ancora per un momento. Annerite dagli anni e dall’abbandono com’erano, le pareti della stanza gli suggerivano una sensazione di vecchiaia, di permanenza primordiale.
Lungo la statale l’asfalto restituiva un calore grave, che attaccava la testa. Camminò sul ciglio per un paio di chilometri, prendendo a calci i piccioni morti, poi svoltò in direzione del campo rom.
A un centinaio di metri dal gruppo di baracche si stagliava una distesa di robaccia. Si avvicinò. Sul sentiero sterrato ciondolava una zingara con una sottana lunga e il pezzo di sopra di una tuta da ginnastica.
Era piuttosto giovane e aveva un collo elegante. Lo sguardo era perso chissà dove.
Il ragazzo si avvicinò al cumulo in cerca di qualcosa di interessante, ma non toccò nulla fino a quando la zingara non lo ebbe notato e, voltata nuovamente la testa, tornò a ignorarlo.
Solo allora cominciò a considerare gli oggetti, pescandoli con un bastone. Ne estrasse una sveglia rotta, due scatole di latta per sigari, un barattolo e uno zerbino sporco. Infilò tutto nel borsone tranne la sveglia, che lasciò lì dov’era.
Abbozzò un cenno del capo alla zingara e fece marcia indietro.
Durante il cammino pensò a cose di poco conto. Principalmente si concentrò sulla sua ombra, appiattita sull’asfalto. Era tutto il pomeriggio che faceva su e giù per la statale e si sentiva piacevolmente stanco. A un certo punto spostò il borsone sul ventre e iniziò a prenderlo a ginocchiate mentre camminava, ma si stufò in fretta.
Tagliò per i campi. La terra scricchiolava sotto i suoi piedi.
Nello spiazzo davanti casa, suo padre puliva gli interni della macchina.
Indossava una maglietta bianca e dei pantaloni vecchi rimboccati fino alle ginocchia.
«Sei tu» disse senza dare intonazione interrogativa alle sue parole.
«Dove sei stato. Sei tutto sporco.»
«Sono andato al campo a fare due tiri con Rocco» mentì.
Suo padre lo squadrò poco convinto per un istante, poi si scosse: «Vai a darti una lavata, la mamma sta già preparando», e rituffò la testa nell’abitacolo.
Il ragazzo si chiuse a chiave in bagno e aprì la doccia. Sedette sul gabinetto, rigirando fra le mani una delle due scatole da sigari. Magari avrebbe convinto suo cugino a procurargli un sigaro, un giorno o l’altro. Quando fu trascorso un quarto d’ora spense la doccia, si spruzzò un po’ d’acqua sui capelli e uscì dal bagno.
Dopo aver cenato coi genitori tornò nella sua stanza e passò il resto della serata a pulire gli oggetti raccolti dagli zingari, interrompendosi a ogni rumore sospetto. In attesa di portarli all’ex caseificio, nascondeva le cose che trovava sotto il letto. Se qualcuno glielo avesse domandato, non avrebbe saputo spiegarne il motivo. Lo faceva e basta.
Si addormentò ancora vestito e solo a tarda notte trovò la forza per alzarsi e spegnere la lampada sul comodino.
La mattina seguente era in piedi da poco quando la madre bussò alla porta di camera sua.
«Tesoro, c’è Rocco che ti aspetta giù. Dice se andate a giocare.»
Si affacciò alla finestra e vide suo cugino palleggiare sgraziatamente nello spiazzo.
Sbuffò e scese.
Rocco era un vitello di ottanta chili per centosettanta centimetri. Aveva tre anni più di lui e per
questo si prendeva la libertà di trattarlo con una certa superiorità. I suoi coetanei lo consideravano un idiota, per questo preferiva girare con ragazzini più piccoli che lo ammiravano e che lo avevano eletto capo.
«Ehi andiamo al campo, sbrigati.»
«Non lo so, Rocco. Devo fare un po’ di compiti per le vacanze.»
«Cazzo dici! Siamo ancora a luglio. Dai muoviti, prendi la roba.»
Il «campo» non era altro che un rettangolo paludoso con due pali di legno conficcati nel suolo. Non c’era nemmeno la traversa. Se uno tirava forte e centrava uno dei legni, c’erano buone probabilità di ritrovarselo sulla testa.
Al campo li attendeva un altro ragazzino, amico di Rocco. Era di un paese delle vicinanze. Nonostante fosse secco e magrolino, nessuno lo infastidiva per via della cicatrice che gli attraversava la guancia. Alcuni ipotizzavano che fosse il segno di una coltellata.
Venne messo in porta, e per un’ora buona Rocco e il suo amico si divertirono a tirare con tutta la forza che avevano. All’inizio si sforzò di intercettare quelle cannonate, rischiando di farsi portare via la faccia, poi rinunciò, e si preoccupò soltanto di scansare il pallone e di andare a recuperarlo.
Quando si furono stancati, Rocco si abbandonò a terra e accese una sigaretta che fingeva di aspirare.
«Ti annoi Rotolino?», lo chiamava così solo in presenza di altri.
Lui alzò le spalle.
«Allora andiamocene. Vi mostro una cosa.»
Mentre si incamminavano sulla statale, Rocco elencò una serie di nuove bestemmie che aveva inventato. Il ragazzino con la cicatrice se la rideva di gusto.
Se passavano delle macchine, i due alzavano il dito medio o urlavano insulti, mai prima di aver verificato che la vettura avesse raggiunto una distanza rassicurante.
Iniziò a inquietarsi non appena scorse in lontananza l’ex caseificio.
«Dove andiamo?» domandò al cugino.
«Là» disse puntando il dito grassoccio verso l’edificio abbandonato.
«A fare?»
«Lo vedrai» sghignazzò.
«No, dimmelo subito. Lo voglio sapere adesso», la voce uscì troppo stridula e ridicola.
«Oh, che palle! Te la fai sotto, Rotolino?»
«No, voglio saperlo e basta. Altrimenti non ci vengo.»
Si piantò sulla strada e non si mosse.
«Come ti pare» disse Rocco da dietro le spalle.
I due continuarono a camminare. Li raggiunse correndo.
Passarono attraverso il buco scavato sotto la rete. Rocco si incastrò e ne uscì imprecando.
E se avessero trovato il suo rifugio? Doveva assolutamente impedirglielo.
«Che tristezza qui» disse con allegria sforzata. «Perché non ce ne torniamo al campo?»
Gli altri non lo considerarono nemmeno.
«Venite» disse il cugino imboccando le scale.
I passi di Rocco e del suo amico rimbombavano forte lungo la tromba, quasi a voler scacciare delle vipere invisibili. Lui invece si preoccupava soltanto di mettere un piede di fronte all’altro, gradino dopo gradino. Le ginocchia sempre più molli, il respiro corto e trattenuto.
Cercava di non far rumore e di comportarsi come aveva visto fare ai ladri di alcuni film, quelli che ricordavano un po’ Zorro, vestiti di nero attillato e con la mascherina. Rubare in casa propria, pensò, non era forse la cosa più ridicola che gli fosse capitata?
Entrato nella stanza, la sua stanza, il ragazzo si rese conto che ogni tentativo di distogliere l’attenzione dal rifugio sarebbe stato comunque vano, dato che Rocco li aveva condotti lì proprio per quello.
«L’ho trovato un paio di giorni fa» disse Rocco eccitato. «Sono venuto con gli altri e ho scommesso che sarei salito ai piani superiori. Se la facevano addosso, avreste dovuto vederli. Ho trovato ‘sto posto e quando sono sceso se la sono data a gambe tutti quanti. Avevano paura che tornasse il nuovo inquilino!»
Si mise a ridere forte con le mani sulla pancia. Lui rimase sulla soglia, impietrito.
«Ma chi ha fatto tutto questo?» chiese il ragazzo con la cicatrice guardandosi intorno.
«Un barbone, ci scommetto. Un barbone un po’ toccato. Guarda, Rotolino: ha lo stesso poster di Star Wars che hai tu in camera. Se vuoi lo aspettiamo e faccio le presentazioni. Chissà quante altre cose avrete in comune», rise di nuovo.
Il ragazzo con la cicatrice stava sfogliando le riviste.
«Mia mamma dice che dalle nostre parti si aggira un tipo strano, mezzo ritardato. È saltato fuori poche settimane fa.»
Trovò le sigarette e se ne mise in tasca un paio.
«Già» disse Rocco, poi prese in mano la cornice e la scagliò contro il muro, fracassandola.
«Che stai facendo!», quando l’impatto infranse il vetro della cornice non poté far a meno di chiudere gli occhi e ritrarre la testa come una tartaruga.
«Spacchiamo tutto.»
«Ma sei impazzito?»
«Perché?»
«Potrebbe tornare…»
«E questo ti spaventa? Non è casa sua, non ha alcun diritto di venire qui e occupare il primo posto che trova. Gli sta solo bene. Ma se hai paura ti capisco, sai. Vai pure a casa.»
Si voltò dall’altra parte e iniziò a prendere a calci il comodino. L’altro ragazzo uscì un attimo per cercare qualcosa nelle altre stanze. Tornò con un’asse di legno, ghignando.
Lui li guardava, impietrito. Era come se qualcuno lo avesse infilato di nuovo in un bidone, e lo facesse rotolare lungo il ciglio di una scarpata.
Stava per andarsene, poi qualcosa lo trattenne. Non si trattava di paura, e nemmeno di coraggio. Era la percezione concreta di quello che qualche anno più tardi avrebbe iniziato a chiamare «la fine delle cose».
Rocco aveva preso i cassetti del comodino e li aveva lanciati dalla finestra, mentre l’altro ragazzo dava bastonate a caso a tutto quello che gli capitava a tiro.
Stette appoggiato sulla soglia per un po’, poi – senza sapere bene perché – si avvicinò alla poltrona e iniziò a menar calci sul bracciolo, sino a quando non l’ebbe sfasciato.
Strappò il poster.
Ma non si fermò: impugnò il bracciolo e imitò l’altro ragazzo, battendo in modo ancora più cieco e scoordinato.
Spaccò i due bicchieri scheggiati che aveva recuperato dal cesto dell’immondizia della mensa, il monopattino senza una ruota abbandonato vicino al campo, una cesta di vimini trovata in soffitta.
Colpiva senza pensare a niente, senza rimpianti o romanticismi. Colpiva e basta.
Prima o poi, anche il taglio sul braccio sarebbe scomparso.