Lo Stage
di Simone Tempia

N.d.a.
Questo racconto – che leggete qui nudo e crudo – aveva una copertina. E aveva un’impaginazione. Per tale ragione, visto che non potete vedere tutto questo ben di dio, l’autore – cioè me – si limita a dedicare l’opera Lo stage a Chiara Fazi, Giovanni Pallotta e Marcello “Riseabove” Crescenzi.
Buona lettura.

«Prego può sedersi lì.»
La stanza misurava quattro passi in larghezza e sei in lunghezza. Aveva le pareti grigie. Il soffitto grigio. Non c’erano finestre. Sul pavimento uno spesso strato di moquette croccante. Anch’essa grigia. La luce proveniva da un neon appeso al soffitto. Michele Pintossi si guardò un poco intorno e chiese con voce malferma al collega: «Lì?» indicando una sedia in legno posta al centro della stanza.
Il collega, con tono sbrigativo disse: «Sì, lì».
Michele Pintossi si accomodò quindi sulla sedia di legno. Appoggiò la valigetta a fianco di una gamba della sedia. «E ora?» chiese.
Ma il collega era già uscito dalla stanza chiudendosi dietro la porta.
Michele Pintossi, trentanove anni, una laurea presa tardi e un lavoro perduto presto, aveva firmato il contratto di stage la mattina stessa. Full time, ampia flessibilità, lavoro in team, problem solving, mansioni non definite, rimborso spese. O così o niente, purtroppo, per il Pintossi che non lavorava ormai da sei mesi e per cui gli occhi della fidanzata (per un soffio quasi moglie, ma poi la crisi sai com’è) erano davvero diventati troppo troppo pesanti. Specie al mattino, sulla porta di casa, quando lei usciva per andare al lavoro e lui no.
Il Pintossi tenne una posizione composta per una ventina di minuti. Fissando il muro si chiedeva, non senza un accenno di agitazione, cosa gli avrebbero fatto fare. Fotocopie? Portare il caffè? Assistere qualcuno in qualche mansione umiliante? Era psicologicamente pronto ad affrontare lo stage. Galleggiando nel pessimismo arrivò quasi senza accorgersene all’ora della pausa pranzo. Attese per una decina di minuti che qualcuno lo venisse a chiamare, poi aprì la porta della stanza. Trovò tutti gli uffici vuoti e silenziosi. Camminando per le scrivanie mute prese l’ascensore. Scese in strada. Mangiò un panino speck e brie al bar con mezza di naturale e un caffè non zuccherato.

Quando rientrò, dieci minuti prima della fine della pausa, trovò che erano tutti quanti già al lavoro. Camminò stringendo forte il manico della sua valigetta fino all’ufficio del collega che, come gli era stato riferito, sarebbe stato il suo referente per lo stage. Bussò anche se la porta era aperta. Quello si destò dalle sue carte, lo fissò, guardò l’orologio e poi sospirò rumorosamente. Si alzò dalla sedia e con un secco «vieni» lo precedette fuori dall’ufficio.
«Ma la pausa pranzo dura fino alle due, vero? Mi avevano detto fino alle due… o era prima? Scusi se sono arrivato tardi.»
Le parole del Pintossi arrancavano per raggiungere le orecchie del referente dal passo veloce.
«Sì… sì… alle due… sì… alle due» rispondeva quello. Arrivarono di nuovo davanti alla stanza, lui aprì la porta, gli disse: «Ecco, la strada spero che tu l’abbia imparata».
Pintossi entrò e quello chiuse la porta senza nemmeno aspettare che si fosse seduto. Passò il pomeriggio così. Seduto.

A cena risero molto, il Pintossi e la fidanzata, di quello strano giorno passato a fare nulla.
«Forse cercavano qualcuno che testasse la robustezza delle sedie» disse la fidanzata. Il Pintossi parlò del suo referente, ne fece l’imitazione piccata, lo definì «uno stronzo» e, dall’alto della sua laurea in ingegneria edile, abbozzò anche un infondato profilo psicologico del soggetto. Mangiarono degli straccetti di pollo al limone, un’insalata di lattuga poco condita e finirono una bottiglia di Merlot aperta il giorno prima. Dopo cena non parlarono più di lavoro.

Il giorno seguente il Pintossi si recò in ufficio di buona mattina, comprò il giornale e diede venti centesimi all’anziano signore seduto sui gradini dell’uscita del metrò. Il tonfo della moneta che si adagiava sul fondo, nel bicchiere schiacciato e sporco della Coca Cola, gli diede una vaga sensazione di benessere. Entrò nello stabile aziendale, prese l’ascensore, arrivò negli uffici. Camminò lungo il corridoio, si affacciò dal referente, lo salutò. Quello ricambiò con cordialità il suo buongiorno e quando Pintossi chiese allegro «Cosa c’è da fare oggi?», quello rispose un altrettanto cordiale «Il solito, vada pure nel suo ufficio». Si diresse quindi fino alla sua stanzetta. La sedia di legno sempre in mezzo alla spessa moquette. Decise di lasciare accostata la porta. Si sedette.
Dopo una quindicina di minuti qualcuno chiuse la porta.
Il secondo giorno al bar non avevano fatto i panini speck e brie. Quindi prese un panino con cotto, fontina e maionese. Bevve una bottiglia di naturale e un caffè in cui mise mezza bustina di dolcificante dalla consistenza farinosa. Ritornò dalla pausa pranzo con quindici minuti di anticipo e trovò l’ufficio già in piena attività. A parte questo, la giornata trascorse esattamente come quella del giorno precedente.
A casa con la fidanzata parlarono di nuovo. Ma meno. Mangiarono i bastoncini di pesce fritti e un contorno di verdure grigliate dell’Esselunga. Bevvero acqua. Andando a letto il Pintossi pensò che forse era ora di cambiare il copripiumino.

Dopo una settimana il referente entrò di colpo nella stanzetta. Erano circa le undici e un quarto. Il Pintossi stava leggendo la pagina degli esteri de «la Repubblica». Il referente lo guardò molto male. Prese fiato come per dire qualcosa di importante, ma poi espirò rumorosamente chiudendo la porta. Da quel momento non comprò più il giornale.
Dopo quindici giorni il Pintossi chiese se poteva portare da casa il suo computer portatile. Il referente gli chiese a cosa gli potesse servire. Non seppe che rispondere. Il giorno dopo portò il computer al lavoro, ma la rete wi-fi era protetta da una password. Il computer venne lasciato per tutta la giornata seduto, come il Pintossi, che non trasse nessun giovamento dal condividere la sua condizione con un computer. Decise di non portarlo più.

«Oggi mi hanno finalmente dato una pratica da sbrigare.»
Sul tavolo c’era della pasta al sugo di nasello. Non era male, forse un po’ senza senso, ma non male. «Ah sì? Finalmente!» disse la fidanzata del Pintossi vagamente perplessa per quell’esperimento culinario poco riuscito.
«Come ti sembra?» aggiunse.
«Forse un po’ senza senso, ma se ci metti sopra del pepe non è male» disse lui.
«E che pratica era?»
«Niente di che, dovevo compilare dei campi con i dati di un cliente. Nome, cognome, codice fiscale, indirizzo. Cose così. Ne ho compilati una decina. Credo di aver fatto un buon lavoro.»
La fidanzata annuì e mise un po’ di pepe nella pasta. Sul tavolo c’era una bottiglia di birra Moretti. «Non mi stupirei se mi chiedessero di lavorare anche il weekend» aggiunse poi lui.
«Speriamo di no» rispose lei.
«Ma sì, dài, speriamo di no.»
Andarono a dormire. In realtà anche quel giorno il Pintossi lo aveva trascorso seduto sulla sua sedia. Nella sua stanza grigia. Dalla moquette grigia. Con la luce che proveniva dal neon.

Il ventuno di quel mese arrivò la prima busta paga da quattrocento euro. Il Pintossi la tenne nascosta ai suoi genitori affinché continuassero a versargli, almeno ancora per qualche mese, parte della loro pensione per il pagamento dell’affitto e delle bollette. Con lo stipendio portò la fidanzata a cena in un buon ristorante. Lui prese un antipasto di mare tiepido e un secondo (tagliata di controfiletto con riduzione all’aceto balsamico). Lei un primo (paccheri al sugo di gorgonzola e noci). Come dolce presero entrambi una crème brûlée alla lavanda e sembrò, almeno al Pintossi, di mangiare una bustina di antitarme della nonna. Bevvero una bottiglia di Nero d’Avola. Non parlarono molto. Rientrando a casa vagamente ubriaco, il Pintossi pensò che aveva pagato un po’ troppo rispetto a quello che aveva mangiato.

Fece il passacarte, poi l’assistente, il consulente, il portaborse, il segretario, l’assistente di un segretario, il segretario di un assistente, il compilamoduli, il responsabile di area, il formatore, ancora il segretario, ancora il compilamoduli, il consulente, il praticante, il suggeritore. Riempì campi, scrisse lettere, tradusse missive, corresse errori, fece fotocopie, scrisse resoconti al posto di altri, parò il culo a un paio di colleghi, fece straordinari, si trattenne oltre l’orario di lavoro, uscì prima e chiese un permesso, fece delle slide, dei layout, delle presentazioni con Powerpoint, insegnò alla vecchia segretaria un trucchetto con il computer, riparò una stampante, rispose al telefono, mise il taccoletto del parcheggio sulla macchina del responsabile e partecipò addirittura a un progetto di caratura internazionale. Conobbe colleghi e colleghe, praticanti e stagisti come lui, vide licenziare un anziano collaboratore e promuovere al suo posto un giovane arrivista senza scrupoli, fece pranzi di lavoro, meeting con buffet, pranzi in piedi a base di finger food. Mangiò salatini giapponesi, arachidi salate, patatine al gusto pizza, tartine al caviale (vero), e paté francese (vero), assaggiò la torta alla panna multistrato inviata da un cliente soddisfatto come ringraziamento all’intero ufficio. E poi pranzi saltati a base di tarallini e snack comprati alla macchinetta dell’ufficio con il caffè troppo acquoso. O troppo amaro. Perse due volte la chiavetta elettronica delle macchinette, ma un collega gentile gli diede la sua, tanto ne aveva due.
Tutto questo e ancora di più faceva, con grande sforzo, tutti i giorni il Pintossi dalle 20.00 alle 20.15, quando la fidanzata gli chiedeva come era andata la giornata. Per il resto del tempo stava seduto sulla sua sedia, in mezzo alla moquette grigia. Alle pareti grigie. E al neon che faceva luce dall’alto.

Un lunedì il referente lo venne a chiamare intorno alle tre del pomeriggio. «C’è bisogno di te» gli disse con tono assolutamente impersonale. Il Pintossi dovette quindi smettere di immaginarsi il lavoro della giornata (che avrebbe raccontato con dovizia di dettagli durante la cena) e si alzò dalla sedia. Non ne fu molto contento in realtà. Seguì il referente che, ad ampie falcate, percorreva tutto il lungo e stretto corridoio. Arrivarono fino all’ascensore. Lo presero. Salirono di un piano. Altro corridoio, altre porte, altri uffici. Fino a che non sbucarono (e il termine è quanto più azzeccato, vista la sensazione cunicolare di quella struttura fatta di angusti open space) in una grande sala riunioni vuota. Oltre la sala riunioni un ulteriore grande ufficio pieno di persone indaffarate intorno a un’altra impassibile figura. «Sarà il direttore» pensò rammaricandosi del fatto che era molto diverso da come, la sera di qualche settimana prima, l’aveva descritto alla fidanzata quando si inventò di essere stato mandato a portargli alcuni urgenti documenti. Mentre il Pintossi stava già cercando di inventarsi qualche buona scusa nel momento in cui, disgrazia volesse, la fidanzata avesse visto sul giornale la foto del vero direttore, il referente bussò con una nocca alla porta e, con tono forzatamente informale, lo annunciò. Il direttore fece un cenno del capo del tutto annoiato e il Pintossi venne condotto, dal referente, davanti al direttore e poi fatto accomodare su un divanetto di pelle color bordò. Lui si sedette.
Vide passargli davanti collaboratrici dalle lunghe gambe fasciate da calze velate che si infrangevano su scarpe ballerine color senape, giallo canarino, blu notte, verde pisello, rosso rossetto della nonna del Pintossi. E poi fior di assistenti, alcuni molto in forma, un paio in sovrappeso, tutti impegnati a «buttare lì idee» che alla fine di idee buttate ce n’erano davvero così tante che il Pintossi si propose per raccoglierle e metterle tutte in un cestino.
«Per carità, non si muova, davvero, lasci fare.»
Uno sciame di creativi e operatori della penna gli strappò dalle mani il mucchietto di idee e, ronzando «suggestioni emozionali», scomparve oltre la porta del dirigente. Il quale impassibile continuava a fissare un punto indefinito di quello spazio che era tutto suo. Il Pintossi provò a chiedere, sommessamente, se poteva rendersi utile in qualche modo a una giovane assistente dalle ballerine color carta da zucchero. Quella gli rispose con un risolino dal retrosuono isterico e ricominciò a frullar intorno alla stanza. Dalle tre e un quarto all’ora di uscita rimase seduto sul divanetto di pelle color bordò. Poi tornò nella sua stanza, prese la valigetta e se ne tornò a casa.

Un martedì il Pintossi si presentò con un pettinino. Entrato nella stanza iniziò a riordinare, filo per filo, la moquette. Dopo un’ora irruppe nella stanza una signora di bassa statura, ma dalle spalle e i fianchi molto larghi. Aveva capelli neri, legati con una coda di cavallo e folte sopracciglia che, a vederle, parevano della consistenza delle setole di una spazzola levapelucchi di quelle che la mamma gli passava addosso prima di farlo uscire dicendogli: «Datti una sistemata». Indossava un abito azzurro che sembrava una tovaglia. Con la mano guantata di gomma gli tolse il pettine dalle mani e gli disse con tono bonario: «Ma cosa fa cosa fa? Mica deve fare questi lavori lei! È una cosa che dobbiamo fare noi. Che dobbiamo fare noi. Noi. Mica lei». E poi uscì chiudendo dietro di sé la porta.

Un giovedì si recò a passo spedito nell’ufficio del referente e disse: «Non ce la faccio più. Mi licenzio».
Il referente, con la testa immersa nella schermo del computer alzò lo sguardo verso di lui e gli chiese: «È successo qualcosa?»
Il Pintossi lo guardò negli occhi e disse: «No, non è successo niente».
«Allora come mai si vuole licenziare se non è successo niente?» chiese con tono molto cordiale il referente. Anche il Pintossi, a quel punto, si pose la domanda. Rimase rimuginando sulla faccenda alcuni secondi, mentre l’attenzione del referente rimaneva appesa a una sua risposta come un quadro mal fissato al muro. Il Pintossi non ragionava mai troppo bene sotto stress e quindi, nonostante avesse un lungo lunghissimo discorso già pronto, non riusciva ad afferrarne il bandolo. Era lì come un musicista che, perso il filo dello spartito, deve raccapezzarsi di dove è arrivata l’orchestra per rinfilarsi nel discorso musicale; ma quando trova il punto, ecco che quella è già passata oltre. E così, incespicando sui pensieri, disse solamente un approssimativo «Mi sento inutile».
Se il Pintossi fosse stato un buon osservatore avrebbe visto un brivido correre lungo la schiena del referente. Invece tutto quello che poté osservare fu un grosso sorriso. L’uomo lo fissò e gli disse con un afflato di gentilezza sincero: «Ma lei non è inutile!»
Ecco che il Pintossi ritrova il filo. «Non faccio niente dalla mattina alla sera, mi lasciate chiuso in una stanza, io sono inutile!»
Il referente si alzò, si avvicinò al Pintossi, lo prese sotto braccio e uscendo dall’ufficio disse: «Vede, lei non è per nulla inutile». Si avventuravano tra scrivanie e sedie, tra macchinette e poltroncine. «Lo vede? Vede tutte queste persone? Ecco, tutte queste persone lavorano grazie a lei.»
«A me?»
«Sì, certo. Grazie a lei. Lei è per loro un esempio, la sua assoluta», si fermò per qualche secondo come a cercare la parola giusta «staticità. La sua staticità è per noi una specie di monito.»
Passeggiavano tra sedie girevoli e schedari, scatoloni e piante d’arredo.
«Sa qual è stato il problema che ha reso le nostre imprese poco competitive all’estero in tutti questi anni?»
«No» sussurrò il Pintossi.
«La sicurezza.»
«Scusi?»
«La sicurezza. La sicurezza del posto di lavoro. La gente era sicura che nessuno l’avrebbe licenziata e allora si lasciava andare. Faceva pause. Si ammalava Pintossi! Si ammalava!»
«Non capisco»
«Vede, da quando c’è la crisi, da quanto tutti siamo diventati traballanti e il lavoro non è più sicuro, allora… be’… insomma… siamo tutti più “attaccati” al nostro lavoro. Capisce Pintossi? Siamo tutti molto più desiderosi di farci vedere “indispensabili” per l’azienda.»
«Sì, ma io che c’entro?»
Camminavano tra computer e dispense, cestini di design e poltroncine color fumé.
«È come il gioco della sedia. Se lo ricorda? Quello dove c’era la musica e si girava intorno alle sedie e c’era una sedia in meno rispetto al numero di bambini che giocavano. Se lo ricorda, no? E alla fine quando la musica si fermava bisognava sedersi tutti quanti e quello che rimaneva in piedi era fuori.»
«Sì, sì, me lo ricordo.»
«Ecco, vede, caro Pintossi. Con il suo ingresso in azienda, si è venuta a creare quella sedia in meno. Lei è in più, non ha niente da fare, ma potrebbe avere qualcosa da fare, potrebbe prendere eventualmente il posto di uno di noi quando la musica dovesse fermarsi. E così tutti, me compreso, ci stiamo impegnando a far vedere che quella sedia è nostra e solo nostra, che non possiamo essere sostituibili da lei.»
«E funziona?»
«Sì che funziona! E alla grande! Guardi, le dirò che nei quattro mesi in cui lei è stato qui nessuno, e dico nessuno, ha chiesto la malattia. Abbiamo avuto gente che si è fatta l’intera influenza in piedi al lavoro pur di non rischiare di tornare e trovarla seduto sulla sua sedia. Io per primo ho scoperto alcuni rimedi eccezionali per prevenire il raffreddore. Una meraviglia! Mai stato più sano e più a lungo!»
Erano davanti ai finestroni che davano sulla strada. Era inverno e stava venendo buio. Il tramonto tingeva di colori fruttati il cielo.
«E io?»
«Lei cosa?»
«Io, cosa ci guadagno in tutto questo?»
«Lo stipendio, no?! E poi sta imparando una cosa importante…»
«Cosa?»
«L’importanza di non lasciare la sua sedia.»
«In che senso, scusi?»
Il referente si avvicinò alle orecchie del Pintossi e sussurrò, in tono confidenziale: «Ho sentito che sembra vogliano prendere un nuovo stagista…»
«Ma come?»
«Eh, Pintossi… è la crisi! I giovani oggi hanno molte meno richieste. Io fossi in lei mi darei da fare anche perché, insomma, lei non è più giovanissimo…»
«Oh, grazie della dritta» disse il Pintossi tra il grato e il preoccupato.
«Ma ci mancherebbe… se non ci aiutiamo tra di noi.»
«Grazie ancora.»
Il Pintossi tornò nella sua stanza dalla moquette grigia. Prese la sua sedia. La collocò al centro della stanza. Vi si accomodò. Destato di colpo si voltò verso la porta. Era socchiusa. Si alzò. La chiuse. Ritornò alla sedia. Si riposizionò. Lo sguardo al muro. La schiena dritta. I piedi allineati. E le mani strettamente ancorate al sedile.

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