Provvisorio
di Simone Torino

Polvere

Nella nuova fabbrica, sappia, è tutto grigio. Grigi i grembiuli, grigio l’acciaio delle macchine, grigi i pezzi, grigio il pavimento e grigia la polvere nell’aria. Non è polvere come quella che ha in casa, questa le mangia i polmoni. Polvere di roccia e metallo. Ed è lei a produrla.In una fabbrica di fresatori non si può non fare polvere.
«Te, sei il fresatore.»
Una fabbrica in cui si levigano ventole e turbine, pezzi di altre fabbriche stampati male, sbavati, incrostati o mal puliti.
«Hai già fatto il fresatore? Ti spiego.»
Il pezzo arriverà in postazione, lei dovrà mettere i guanti, la mascherina, accendere la macchina e fresarlo.
«Questa qui, guarda. Questa è la tua fresa.»
Un trapano dritto, senza impugnatura. In cima, invece della punta, c’è un cilindro rosa, di roccia, grande quanto un rullino di diapositive. La accenderà, si posizionerà e ci darà dentro.
«Scrosta, togli punte e angoli, lisci tutto bene e non lasciare bava.»
La polvere nell’aria filtrerà dalla mascherina: un po’ le rimarrà nel naso, un po’ le finirà nei polmoni assieme a microscopiche scaglie di metallo.
«Quando la punta è consumata nel cassetto ci sono i ricambi. Cerca di tener pulito.»
Pulisca. Non come a casa sua. So che non bada ai batuffoli, sporcaccione. Né ai peli in bagno. So tutto, cosa crede. Pulisca casa, che fa schifo. Sporcaccione.

Anticipi

Le cinque e dieci. I numeri rossi illuminano il pavimento. Brulica di insetti bianchi. Non li vedi ora, ma quando il sole filtrerà dalle tapparelle rimbalzando sul parquet, distinguerai quelli più grassi muoversi, avanzare, girare, tornare. Non adesso. Alle cinque e dieci non vedi niente. C’è un po’ di luna, ma è solo fluorescenza. Ti piace, la luna. D’estate, in veranda, guardi le nuvole passargli davanti. Alle cinque e dieci però devi dormire. Ti giri dall’altra parte, stringi gli occhi, poi li rilassi e ti godi i verdi, fucsia, gialli, rossi, arancioni. Rosa.
Niente. Ti concentri sul materasso, cerchi i buchi familiari, ti sistemi e stringi ancora gli occhi. I colori svampano. Rossi, forti, accesi, turbinano ricordandoti i ragazzi terribili, i colleghi ridenti: lavoratori più più. Quelli felici. C’è un giro di cocaina importante nella nuova fabbrica. Voci dicono che è il capo, ma non il capo officina, il capo capo, a fornire. Lui e un paio degli operai che si è portato dietro dalla filiale di Milano. L’altro giorno ne hai incontrato uno al bagno, mentre ti lavavi le mani.
«Devi andare in cesso? Vado io, eh?»
Era uscito quasi subito, paonazzo, sorriso tirato e occhi fuori.
«GRAZIE!»
Era corso in salone, strillando e fischiando.
«ALLORA, SI LAVORA O NON SI FA UN CAZZO!»
Con una risata aveva imbracciato la fresa ed era saltato a cavalcioni di una ventola per navi, senza neanche la mascherina. Lavoro duro.

Ticchettio di unghie sul pavimento, un miagolio, e una massa pesante prende posto accanto a te. La spingi giù con una pedata. Puoi dormire, vuoi dormire, ma ti sibila una narice. Provi ad infilarti un dito nel naso per cercare la sporgenza che affila l’aria e la trovi, una crosta piatta e secca, dalla radice molliccia. La sradichi. Anche al buio sai che quella caccola, che stai per appallottolare e lanciare sul pavimento, è nera. Non verdastra o giallognola, no. È nera. Come il nero che incrosta una marmitta, o quello dentro un camino, o nei tubi di una stufa. Quello che tu e gli altri chiamate il cracio.
Tenti di riposare. Sdraiato. Immobile. Controlli il respiro, concentrandoti sulle ossa, affondando nel materasso. Scorporandoti. Aggiusti la gamba verso il muro e spostando il piede ti accorgi che l’alluce gratta le lenzuola. Lo tasti. C’è un pezzo d’unghia che sporge, rotto. Lo stacchi e lo butti per terra. Poi osservi la fluorescenza della luna mostrare vagamente l’armadio, la scrivania, il vuoto della stanza. I fili ai quali è attaccata la lampadina penzolano dal soffitto. Non hai il lampadario. Non serve. Un comodino farebbe comodo.
Ti siedi sul letto, appoggi una mano contro il muro. È freddo e rugoso. Anche tu sei freddo e rugoso, lo pensi e ti rendi conto che è il pensiero di uno che non dorme. Ti ributti sul letto e tenti di immaginare delle pecore, ma sono pigre, non saltano lo steccato. Stanno lì, ammassate, brucano. Non riesci a contarle. In mezzo alle pecore spunta il capo capo.
«Mi raccomando, non lasciamo sbavature, eh! Che poi le rimandano indietro!»
Sono spuntati anche i ragazzi terribili. Ridono, tosano. Non lasciano sbavature.
A furia di girarti il materasso si è spostato e batti in uno spigolo del letto. Il formicolio è lo stesso di quando hai preso la scossa da piccolo, infilando una spina nella presa. Quando passa, ti spremi la testa come per far uscire succo di cervello. Non esce niente. Fuori ti sembra più chiaro. Guardi la sveglia: le cinque e tredici.

Colleghi

Buongiorno! Ha dormito bene? Sì? Vada a cambiarsi. Lo spogliatoio è una stanza cinque per tre, addossati alle pareti ci sono armadietti in ferro senza serratura, non stretti, mi raccomando non segua le polemiche dei suoi colleghi! Nell’armadietto (largo!) metta i vestiti e il pranzo, e chiuda bene. No, non per i topi, le ho detto di non seguire le polemiche! Chiuda bene e basta! No, non c’è il lucchetto. Se ne compri uno, o si ingegni! Faccia come gli altri, un pezzo di cartone piegato, lo infila tra stipite e anta ed è a posto. Cosa fa, apre la finestra? È bloccata. Sono tutte bloccate. Col freddo che fa, guardi, meglio così. Per la puzza avete solo da lavarvi! Cos’è, crede di non puzzare lei? Quando sfila le scarpe viene su un odore così brusco che morsica il naso! Puzza lei, puzzano i suoi colleghi, puzzate tutti. Lavatevi di più! Segua l’algerino. A fine giornata si denuda e si infila in doccia. Prima di aprire l’acqua giostra la porta nei cardini fino a chiuderla, poi apre un filo d’acqua, così il pavimento si bagna poco.

I suoi colleghi sono africani, marocchini, un ragazzo molto maleducato della Costa d’Avorio, un algerino che non parla, maestro di kung fu, un rumeno nazionale di rugby (ha sposato un’italiana), un altro rumeno suo amico o parente, un ex pugile con la faccia rovinata da buchi e gobbe, un ragazzo alto, di Treviso, ex serie A di pallavolo, che fa una settimana sì e una no, perché ha una malattia al fegato e le medicine che prende lo annientano. Lo senta parlare, questo ragazzo. Lo sente? Sdrucciola consonanti come un ubriaco. Dovrebbe dire: Per fortuna c’è mia moglie, invece lo ascolti. Sentito? Sc’è mia moiie, non riesce neanche a parlare! Le palpebre gli stanno sempre a metà, non può lavorare bene, come si fa a lavorare così! Con gli occhi mezzi chiusi! Lei li tenga bene aperti, e non provi ad ammalarsi! Infine i due fratelli, suoi compaesani. Il più giovane, lo sguardo fisso, azzurro, porta un cappello da ciclista girato al contrario. Spesso lo toglie per darsi una grattata. Il più vecchio fuma una sigaretta dietro l’altra, lavora in maglietta e senza guanti. Parlano solo tra loro.
«C’è uno che ha fatto le lastre no? Ai polmoni perché aveva paura di avere un tumore e gli hanno trovato una macchia no? Ma secondo te cosa può essere può essere un tumore devono accertarlo prima no? Non è mica un tumore no?»
«Ma chi?»
«Ma uno uno che conosco fatti i cazzi tuoi.»
Poi ci sono i ragazzi terribili, ah! Veri lavoratori. Prenda esempio! I lavoratori migliori sono loro! Li guardi! Guardi che sorrisi! Non sono lucidi e belli?

Se ha fretta di andare a casa, vada! Chi ha fretta non si toglie neanche le scarpe. Gli altri hanno tempo da perdere, chiacchierano nello spogliatoio. I marocchini tra loro, gli italiani tra loro. Il ragazzo della Costa d’Avorio, il maleducato, è quello lì basso, magro, rasato, non è capace a parlare, mischia italiano e francese, dovrebbe stare zitto, non stia ad ascoltarlo.
«Tu, une femme, devi prànderla prìm, avant, con les parol, devi farli i complimàn, comprend? Poi la pràndi col corp, avec questo, comprend
Ma lo guardi! Si stringe in mezzo alle gambe, muove il bacino mugolando. Si vergogni! Maleducato!
«Tu dois être très gentil, devi essere beaucoup gentil, con les femmes, comprend? Loro devono chieder, e chieder, e chieder encor. E tu devi darlo encor, et encor, et encor

Ma se il suo collega le dice «Va. Va che roba» mostrandole il fazzoletto, lei che fa, guarda? Cos’è, le piace vedere un fazzoletto bianco e azzurro ai bordi, lordo di moccio nerastro al centro? Lei, per soffiarsi il naso, vada in bagno e usi la carta. Poca! Che fa, si appoggia al lavandino? Non si starà riposando! E la faccia, non fa mica freddo! La pipì fuma? Ma scusi, lei ha freddo? Be’, si copra!

Faim

A letto, finita la giornata, lavato, mangiato, guardato un po’ di televisione, non riesci a dormire. Ripensi alla riunione. È stata giù, nel capannone, non negli uffici. Il capo capo ti ha guardato. Ha guardato tutti.
«Dalla prossima settimana ragazzi, faremo, a turni alterni, orari un po’ differenti.»
«Euh!» «Come!» «Cos’è sta storia?»
«Vi ho divisi in due gruppi. Il gruppo A comincerà a venire alle sei, il gruppo B verrà alla solita ora, ma si fermerà fino alle diciotto. Adesso, silenzio, adesso dirò i nomi.» Da domani, fai parte del gruppo A.
«Ma cazzo!» «Che senso ha?» «Tanto vale fare mattina e pomeriggio, no?»
«I turni, sono, così.»
Borbottii vari, ma non ti sei opposto. Nessuno lo ha fatto. E sai perché. Questo è un lavoro che nessuno vorrebbe. Che solo poveracci, disadattati, malati, ex carcerati, tossici, possono fare. Sì, ci sono delle lauree tra i marocchini. Nessuno sa però, e non si parla. Non sono riconosciute. La paga poca, il lavoro degradante. Andare via, andare dove? Un’altra fabbrica? Altri orari, peggiori magari. Altri problemi, diversi dalla polvere, meglio o peggio? Una fabbrica vicina lavora il magnesio, gli scarti vengono fusi e ristampati, ogni due settimane va a fuoco, qualcuno si ustiona, gente licenziata, altra muore. In un’altra ci si occupa di montare cellulari, entra solo chi ha conoscenze.
«Bisogna avere faim. Beaucoup de faim. Bisogna che tu as des fils et une femme. Eux aussi avec la faim. Fame, comprend
Finita la riunione, il ragazzo della Costa d’Avorio si masticava un’unghia guardandosi le scarpe.
«Se tu hai faim, fai tutto. Se non puoi fare rien, inventi.»
Scarpe seiduesei, la punta in ferro spuntava dalla tela. Parlava a bassa voce.
«Par exemple vol. Moi, avant de me mettre à voler, je peux arriver à travailler vingt quatre heures par jour. Si on me laisse. Mais je connais beaucoup de gens, des gars intelligents, je te dis, qui volent. Comprend? Capisci?»
«No. Scusa non ho capito.»
«Bien. Bien, ça va

Turni

Non si risparmi. Lei, deve, lavorare. Il lavoro nobilita l’uomo, non vuole essere nobilitato? Non vuole essere nobile? Non vuole fare carriera? Rimbocchi le maniche e si faccia coraggio. È giovane, c’è ancora un sacco di vita da lavoratore davanti a lei. Ha visto il suo collega? Non veniva a lavorare. Un fagnano. Faceva lo spiritoso e si imboscava. Tre lettere. Tre lettere, poi a casa. Licenziato. E dopo, le famose lacrime di coccodrillo. Dopo. Ma ormai il latte è versato. La frittata fatta. Bisogna imparare dai propri errori. Impari dagli errori. C’è sempre da imparare. Lavori. Magari qualche altro straordinario, per dire.

Il gatto

Il gatto è sdraiato per terra. Lo tocchi, è freddo. Lo scuoti, è rigido. Lo alzi e lo guardi. Ha gli occhi aperti, fissi. Cerchi lo sguardo del gatto morto che tieni in mano, non lo trovi. Vai sul divano, ti sdrai, lo accarezzi.
Mangi delle uova strapazzate. Sul tavolo, il gatto ti guarda. Però ti accorgi che come l’hai messo non guarda te, guarda il frigo. Ti abbassi ad altezza tavolo, lo sposti di qualche centimetro, controllando l’assetto. Ecco, ti guarda. Prendi un pezzo di formaggio, provi a metterglielo in bocca. Non entra. Cerchi di aprirgliela, ma è dura, poi con rumore simile a uno scrocchio di dita, scatta di colpo. Metti il formaggio sulla lingua, ma rotola sul tavolo. Riprovi, rotola ancora. Ti alzi, cerchi nei cassetti, trovi un gomitolo di spago, ne tagli un pezzo. Rimetti il formaggio sulla lingua, gli chiudi la bocca e con lo spago fermi la mandibola. Ricominci a mangiare, ma ti accorgi che il gatto non ti guarda più. Un occhio si è spostato strabico. Lo prendi in braccio e lo accarezzi. Ti sembra di accarezzare moquette. Prendi il piatto con le uova e lo sbatti contro il muro. Prendi il bicchiere, lo sbatti contro il muro. Prendi la bottiglia: contro il muro. Ti alzi, posi il gatto, lentamente cominci a sbattere contro il muro.

Quando ti svegli, c’è un ronzio basso, di fondo. Sei per terra, accanto hai del sangue. Provi a tirarti su, ma il cervello fa un doppio giro della morte facendoti vomitare le uova mangiate. Provi a toccarti la fronte. Macchie colorate scorrono davanti alle pupille. Dei rossi, dei verdi, dei rosa. Rosa pallido. Un rosa strano, non sai come definirlo. Di nuovo quel ronzio basso.
Ti alzi appoggiandoti al muro. Il pavimento non è fermo, si muove. Ti accorgi che il ronzio basso è il campanello. Suona da un po’. Senti anche una voce, fuori dalla porta. Ti chiama. Ti avvicini all’ingresso. Rassicuri. La voce è preoccupata, ma se ne va. Vai in bagno e vomiti altri rimasugli di uova.

Alle tre di mattina hai finito di seppellire il gatto in giardino. Guardi la terra smossa e ti chiedi se dovresti farci la pipì sopra. È il tuo gatto, vorresti segnarlo agli altri, ma non lo fai. Fai la pipì accanto al muretto, invece. Guardando il ponte del Lys. I giardini pubblici. Non sai chi ti ha avvelenato il gatto, né perché. Sai che è rientrato dal balcone, si è sdraiato per terra ed è morto sul pavimento, il muso in una chiazza gialla e schiumosa. Chi potrebbe essere? Il vicino con i tacchini? Quello che ha quel cane enorme? Uno dei condomini? Non lo sai. Farai qualcosa? Forse. Forse farai qualcosa.

La macchina della giustizia

«Oh scusa se ti ho chiamato, com’è che ti chiami già? Eh be’, questo lo infilo così? Non ricordo. No, aspetta, si mette così? No no. No, così. Poi? Giro. Ah no, schiaccio quello. Ma perché è rosso? Non era rosso. No. No, non era rosso! Mi vuoi fregare? Vuoi fregarmi? Questo chi è, te chi sei? Chi? Mai visto. Collega? No, mi spiace. Cosa fate? Oh, cazzo vuoi? No. Aspetta, no. No, sono un po’ come si dice. Confuso? No, non si dice confuso. Si dice, aspetta, confuso! Ecco, ecco: confuso. Sì, non mi toccare. Mi siedo un momento, sì, mi siedo. Adesso mi siedo, chi cazzo chiami! Non sono seduto? Ah, sono in piedi. Sì, mi siedo, mi siedo. Così sono seduto? Infatti. Mi sdraio? Vabbè, mi sdraio. Comunque non era rosso. Sì sì, mi sdraio. Sono sdraiato? Sto sdraiato. Sì, sto sdraiato, ma te stai zitto, Cristo!»

«Cosa mi metti, cosa mi mettete. Oh ci vediamo domani, eh? Ci vediamo domani! Eh? Capo! Cosa tiri! Capo, cazzo! Ouh! OUH!»

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