Le cose succedono così, mentre ti lavi i capelli magari.
Mentre sei lì, fuori, nella campagna aperta, dietro ai vigneti e il mondo ti sembra un posto lontano, poco più di un pretesto per scrivere libri di storia. E invece no. Anche se tu non ci pensi, c’è la guerra. Te lo ricordi solo quando la radio, nascosta, costruita con mezzi di fortuna da tuo fratello, gracchia improbabili e incomprensibili bollettini di guerra. O almeno incomprensibili per te. Per te che tiri dritto davanti alle camionette traboccanti di giovani delle SS biondi e sfacciati, che si leccano i baffi come un gatto di fronte al topo quando passi tu. Tu che sei giovane. Tu con i capelli corvini e non più lunghi come un tempo. Tu che hai già ventisette anni e la colpa, gustosa per quei ragazzi in divisa, di aver scelto la tua famiglia, il lavoro in mezzo alla campagna, la libertà, invece di un uomo a cui legarti senza convinzione.
Ogni tanto hai un pensiero vago per un soldato che è al fronte. Un soldato che non conosci. E che è lì, senza convinzione appunto. E che un giorno magari vi incontrerete. E la convinzione vi entrerà dagli occhi, senza rifletterci, solo guardandovi. Ma è il pensiero di un attimo.
Quello che persiste da sempre nella tua mente invece è un pensiero d’aria, di spazio, di libertà e campagna. E’ la vendemmia. E’ il pranzo per i contadini di tuo padre, preparato all’alba con le altre donne a cui cerchi di somigliare il più possibile infilandoti negli abiti più lisi che riesci a trovare anche se tu, signorina in tempo di guerra, puoi permetterti di rifiutare la carne di pecora perché il solo odore ti nausea. Sai che è un insulto alla miseria: buchi allora le vesti per espiare questa tua colpa. Quello che tiene uniti tutti i tuoi pensieri è tua madre, ormai anziana, che sostiene il mondo sulle sue spalle di donna minuta. Lei è l’immagine stessa della forza e un uomo, in fondo, non ti serve se riesci a somigliarle.
Le cose succedono così, mentre di notte dormi tranquilla respirando l’annuncio della primavera portato dall’odore che l’erba rivela ai primi caldi.
E senti degli spari. Uno. Due. Cinque. Otto.
Dicono di essere partigiani. Dicono che vogliono i vostri soldi. Sparano ai piedi di tuo padre, che ha più di sessant’anni e a volte se ne dimentica. “Balla, vecchio, balla!”. Bum! Uno sparo, due spari.
Corri tu, corre tua madre, corre Primo, tuo fratello, corrono lo zio Antonio e Germano il contadino. Corre Orietta, la tua giovane amica tanto diversa da te. Arriverebbe anche lei fino alla fine delle scale se il marito – lei si è sposata – non la fermasse intimandole di tornare indietro.
“Balla vecchio!” la voce tace e gli spari continuano. Contro la terra, contro la polvere, a un soffio dai piedi di tuo padre. Che balla, per salvarsi dalla follia di quei quattro ragazzotti armati e violenti, come solo gli stupidi sanno esserlo. E con gli stupidi, non c’è da scherzare.
Non sanno che si sono messi a sparare contro un ex Capitano dei Bersaglieri. Un tiratore scelto. Che è tornato dalla prima linea del Piave, dove ha barattato i suoi occhi, lasciati lì a piangere i morti, con un plotone di fantasmi che ogni notte replica la propria esecuzione. E non lo fanno più dormire da quasi trent’anni.
“Dacci i soldi vecchio” smettono di sparare. Tuo padre si dirige verso la casa, verso le scale. E tu sbuchi dalla porta in camicia da notte, perché la preoccupazione è più forte della paura.
“No” dice il più grosso dei quattro, con la pistola ancora in mano “Non ti scomodare, vecchio. Ce li porta la ragazza i soldi”. Tuo padre non reagisce e con la testa ti fa cenno di eseguire i loro ordini. Anche perché tu hai una pistola puntata contro e lui sa che non è il caso di agire. Non adesso.
Corri per le scale a cercare l’involto di pelle dentro cui tuo padre tiene il denaro. E mentre i piedi nudi saltano sulle fredde scale di pietra, ti accorgi che l’odore che senti è ancora quello che ti avvolgeva nel sonno. Erba estiva. Ti domandi se sia possibile e sia giusto. Forse anche l’erba, per rispetto, dovrebbe smettere di avere quell’odore in momenti come questi.
Di sotto, tutti ti aspettano.
I buoni assieme ai cattivi.
I cattivi che hanno anche loro una casa e una madre da qualche parte.
Tu non ci credi veramente, ma formuli questo pensiero per avere meno paura. Corri giù con un pacco in mano. Il biglietto di via per i quattro disgraziati che, per fortuna, se ne vanno.
E bisogna far sparire proiettili e bossoli: se i tedeschi li trovano penseranno che ci sono delle armi in casa. E allora tutti gli sforzi fatti per salvarsi, tutti i giorni passati nelle grotte sotterranee di tufo a dormire contro le botti di vino che invecchia, come noi, saranno stati vani.
Tua madre dirige i lavori. Pulisce la terra dalle prove. Così domani penseremo che nulla è accaduto. E ci saranno solo i filari di vite, i contadini, questo odore di erba che ti entra nei polmoni mentre ti lavi i capelli in aperta campagna.
La vita si spezza e poi continua: gli uomini, quelli troppo giovani o troppo vecchi per diventare vittime o assassini, e le donne tutti insieme in un’attesa che cancella il tempo.
Tuo padre, quando è solo e crede di non essere visto, scuote la testa in un lungo interminabile “no” alla vita, a questa di vita. La scuote a destra e a sinistra tentando di scrollarsi di dosso pensieri di vendetta, stavolta nei confronti di quei quattro idioti che hanno puntato una pistola contro la sua giovane figlia, tu. Che il giorno dopo ti sei coperta di pidocchi bianchi dallo spavento. Come se la paura avesse messo le gambe e fosse corsa via dal tuo corpo per non ucciderti.
Tuo padre e gli altri uomini, riuniti in un esercito improbabile, radunano le armi che avevano ben nascosto in casa e partono alla ricerca dei quattro bastardi. E per fortuna, non li trovano.
Al loro ritorno c’è Germano, il contadino rifugiatosi in casa vostra, che conversa con uno di quegli sbruffoni in divisa che tu odii tanto. Parla, si dimena come ballasse un racconto confuso e offre al giovane ufficiale uno spettacolo interessante. Lo capisci da come lo guarda, mentre giocherella con un piccolo oggetto cilindrico che fa rotolare fra medio e pollice della mano destra. Una mano assassina, sicuramente.
Il giochino del tedesco è un proiettile. Uno di quelli dei partigiani, sfuggiti ai vostri occhi. Il racconto di Germano è l’abbozzo di una condanna a morte che aspetta solo una firma e l’esecuzione. Il contadino, messo di fronte al proiettile trovato davanti alla porta di casa vostra, non ha saputo dir di meglio che era un proiettile dei partigiani – e tu non ci credi, ovviamente, che sono partigiani – e che gli uomini di quella casa hanno imbracciato i fucili e sono andati a cercarli per vendicarsi.
Tenere un’arma in casa, sotto l’occupazione dei nazisti, equivale a morte certa.
Ma il tedesco se ne va.
Senza guardare la strada. Senza guardare la camionetta che lo aspetta, fissando lo sguardo sul proiettile che ancora rotola sulla sua mano guantata.
E senza parlare. Tanto non avresti capito comunque nulla, tu che di tedesco capisci solo una parola: “Kaput”.
Tuo padre non lo ammazzerà, Germano. E solo perché da sempre rifiuta la violenza.
Lui che ha studiato e che per non prendere i gradi da militare si finse analfabeta. Ma poi gli beccarono le lettere d’amore che scriveva a tua madre.
Lui che si mangiò il sale a manciate per farsi venire la nefrite ed evitare così di essere mandato al fronte a sparare ad altri che si son finti analfabeti e hanno mangiato sale a manciate anche loro.
Lui che si buttò dal balcone con un peso attaccato addosso, nel tentativo di farsi uscire un’ernia e ne uscì più sano di prima. Lui che le provò tutte e si ritrovò in mezzo al sangue degli altri, sul Piave in prima linea. Quel sangue come vino rosso, che colava da bottiglie acerbe stappate prima del tempo. Versato solo per tornare a casa da te e da tua madre. In fondo cosa avrebbe potuto dire un povero contadino come Germano di fronte ad un assassino che aveva in mano prove sufficienti per ammazzarvi tutti?
Si continua perciò ad aspettare, senza sapere cosa. In fondo niente si può aspettare con certezza, se non la vita, che arriva dopo nove mesi, o la morte, che viene per tutti prima o poi, ma non si sa quando.
Così si mangia e si cucina, si parla e si ascolta la radio, si dorme vicino alle botti e ci si lavano i capelli nei campi fingendo di non sapere.
Le cose succedono così, mentre strofini con acqua e sapone quella massa corvina che i tedeschi ammirano nei tuoi rari passaggi in strada.
Le cose succedono così, mentre la paura ti attorciglia i capelli attorno alle dita e crea una rete di protezione per evitare che l’anima ti scappi via dalla testa quando ti accorgi che una camionetta tedesca è arrivata fino alla porta di casa tua.
Neanche si ferma, che tre militari col fucile spianato saltano giù correndo e gridando.
Scende anche l’ufficiale guantato, ancora col suo sadico giocherello fra le mani.
Gridano in tedesco.
E speri di non capire nulla.
Perché l’unica parola che tu capisci in quella lingua è “Kaput”.
Nascosta dietro al pozzo, stesa in mezzo all’erba alta, con le mani che ancora non ti si sfilano dai capelli, assisti a quella che ti sembra una messa in scena, un drammatico spettacolo, una cosa che ti aspetteresti di vedere al cinema. Ma non nella tua vita. Mai.
Sono tua madre, tuo padre, tuo fratello, Orietta e il marito, zio Antonio e Germano gli attori che stanno lentamente salendo in scena, sbucando uno ad uno dalla porta di casa, spinti da un fucile e dalle urla in tedesco. Urla confuse, parole dure, incomprensibili. Tranne una: “Kaput”.
Sei troppo lontana per essere vista, ma abbastanza per vedere e sentire.
Sentire quel “Kaput” di cui ben conosci il significato.
Sono tutti in fila uno vicino all’altra.
Orietta è aggrappata al marito, fin quando il tedesco li separa con immotivata violenza. A cosa serve separarli se tanto li dovete ammazzare? Non è la morte che li diverte. E’ impossessarsi della dignità degli altri e vedere la loro paura cacciargli gli occhi fuori dalle orbite. Senza di questo uccidere, per alcuni di loro, non è divertente.
I tuoi genitori sono vicini spalla a spalla. Vicini gli uni agli altri aspettano di nuovo qualcosa. Forse quella cosa certa che tutti chiamano morte e che, ora lo capisci, pensavi non ti riguardasse.
Avvolta da quell’odore d’erba senza rispetto né pietà, preghi Dio con le mani giunte sopra la testa. I capelli puliti fino a una manciata di minuti prima, sono ora fili di fango che ti colano sul viso. Ti rigano le guance e piangono al tuo posto. Tu non puoi piangere perché le lacrime ti impedirebbero di vedere e capire cosa sta succedendo. Rimani immobile e in silenzio preghi Dio. Lo preghi di farti morire con loro. E trovi che sia un’idea vigliacca. Affronteresti la morte, ma non hai il coraggio di alzarti e raggiungere gli altri tu che, fortunata, hai trovato rifugio nell’erba. Tu che, disperata, rimarrai qui sola a ricordarli tutti. L’unica cosa che puoi fare è pregare digrignando i denti e strizzando gli occhi per la paura, in quei pochi secondi in cui non guardi per cercare in quella scena il segno di un miracolo.
Due dei tedeschi del plotone camminano avanti e indietro sfiorando con la canna del fucile tutto ciò che hai di più caro al mondo.
Li guardano, li studiano, forse li contano, mentre l’ufficiale si avvicina e ripete, anche lui, la stessa operazione. Comincia dal vecchio zio, che se ne sta lì ritto e solenne col cappello che gli hai regalato tu e che lui non si toglie mai, passa davanti alla coppia di giovani sposi senza mostrare interesse e lancia uno sguardo di sfida a tuo fratello e tu preghi Dio che non reagisca. Poi i suoi occhi fissi in quelli di tuo padre. Che gliel’avrebbe fatta vedere lui se fossero stati ad armi pari, al fronte. Che lo avrebbe centrato in testa da una ragguardevole distanza. Ma quella guerra, così vigliacca – ma ne esistono forse d’altro genere? – gli toglie ogni possibilità, se non quella di tenere alto lo sguardo.
Poi ti viene ancora quel pensiero che non c’entra nulla: è il ventre di una donna che li ha partoriti quei soldati, è il cuore di una donna che li aspetta a casa e li ama. Ma questo pensiero, stavolta, sembra morire senza confortarti.
O forse il pensiero non muore. Forse quel pensiero è come una preghiera, che Dio ascolta. E che anche quell’assassino, partorito da una donna, ascolta.
Perché quando arriva a tua madre la guarda. E allora l’ufficiale tedesco parla in italiano stentato. E il suo tono sempre imperativo, cambia e lo senti dire: “No, mamma, no”.
La tira fuori dalla fila, tua madre anziana e bella, che volta la testa e guarda tuo padre. Forse gli ricorda sua madre. Magari i suoi occhi verdi non sono tanto diversi da quelli di una mamma tedesca, così come la sua gonna lunga, i capelli raccolti e il grande grembiule che porta legato in vita. E sempre in un italiano stentato l’ufficiale pone le sue condizioni: “Se noi trova un’arma in vostra casa, voi tutti Kaput”. Poi blatera ancora qualcosa in tedesco ai suoi uomini, mentre tua madre è già corsa via, fuggita, scappata, dimenticata dai soldati troppo presi ad organizzare la caccia alle armi. E tu te la immagini già, tua madre. C’è un’entrata che dà sul retro della casa, in una stanza usata come dispensa, ora vuota a causa della guerra, dove, nascosti sotto il pavimento, ci sono fucili e pistole. Ci sono persone contro cui il tempo può poco e tua madre corre, come te, più di te, più dei tedeschi e dei loro rumorosi stivali. Raccoglie tutte le armi nel grembiule col cuore in gola e una lucidità inimmaginabile. Corre fuori dalla casa, con chili di piombo avvolti nella stoffa e premuti contro il grembo, come fossero un figlio da nascondere e salvare. Corre in mezzo al vigneto, mentre i passi dei tedeschi fanno tremare la casa di pietra. Frettolosi, disorientati cacciatori che non troveranno la loro preda. Lei corre, in mezzo all’erba alta, alle sterpaglie che le graffiano le gambe lasciate scoperte dalla gonna che, forse, li salverà tutti.
La vedi spuntare, piccola e agile come una volpe, da dietro le viti. C’è un punto lì in mezzo dove la terra è più morbida, dove quelle armi, fino a due giorni prima, erano rimaste sepolte per mesi. Lei si china apre piano il grembiule e poi comincia con ferocia a scavare la terra morbida. Con le mani, con le dita, con la terra che si infila sotto le unghie e le separa sempre più dai polpastrelli. Sembra che le unghie le vengan via dalle mani, che le dita le esplodano. La polvere le avvolge il volto. Forse la mangia quella terra che da sempre per lei è stata vita e ora più che mai. Quella terra che sarà fossa per l’unica prova che ora potrebbe trascinare lì sotto tutta la sua famiglia. Sua figlia dov’è? A questo pensa mentre butta quel peso enorme sotto le viti e lo soffoca con la terra bagnata che ricompatta con ampi gesti di entrambe le braccia. E resta lì, sfinita, sulle ginocchia. Si volta e ti vede. E rimanete ferme a guardarvi. A guardare i tedeschi andar via senza neanche una parola, senza curarsi degli altri ancora in fila. Non hanno trovato nulla. Di uccidere sette persone, quindi, non se ne parla proprio.
Di nuovo tutti insieme si aspetta, cosa ancora non si sa. L’odore d’erba ha smesso di essere inappropriato e di darti fastidio. Ti sciacqui i capelli dal fango e finalmente piangi.
Magari pensi che quel soldato, sconosciuto, lontano, ti sta davvero sognando al fronte. E anche lui ha avuto oggi la tua stessa paura. Senza conoscerti, desidera i tuoi capelli corvini. Senza sapere come, avverte la tua presenza. Un giorno vi incontrerete e la paura sarà come se non ci fosse mai stata. Perché le cose succedono così, mentre ti sciacqui i capelli dal fango alzi gli occhi e vedi di nuovo tutti quelli che ami. E pensi che la vita, l’amore e la morte in fondo, sono solo cose che capitano.