Dall’età di sei anni Ropiten fu portato dal padre al circolo, due sere alla settimana. Il padre giocava a biliardo di soldi con i suoi amici, e Ropiten stava lì a guardarlo. Per i primi tempi si addormentava ma poi, crescendo, fu capace di resistere sveglio fino alla fine delle partite.Imparò tutte le regole, e cominciò a seguire il gioco con molta attenzione. Anche se parteggiava per il padre, la sua testimonianza era qualcosa di obbiettivo e grazie a lui i giocatori di biliardo si accorsero che certe volte sbagliavano a tenere i punti. Così, quando Ropiten aveva quattordici anni, fu incaricato di segnare il punteggio per tutte le partite. Dapprima suo padre e gli altri controllavano che non sbagliasse, ma presto si accorsero che Ropiten non faceva sbagli, mai, e tutti potevano concentrarsi esclusivamente sul gioco. Era la prima volta che il circolo disponeva di un segnapunti ufficiale per le partite di biliardo, uno che non stava lì ad aspettare il proprio turno per giocare ma preferiva manovrare le palline di plastica sull’asta di legno.
Poi, una sera, il padre di Ropiten ebbe un infarto, proprio al circolo, mentre giocava. Fu disteso sul biliardo e quando arrivò il dottore gli salvò la vita, ma gli disse anche che non era più tempo, per lui, di fumare sigarette e giocare a biliardo, perché aveva il cuore malato. Così il padre di Ropiten non potè più andare al circolo. Ropiten aveva diciott’anni, e continuò lui solo ad andare al circolo due volte alla settimana per segnare i punti nelle partite degli amici di suo padre. Gli volevano tutti molto bene e ogni volta, dopo le partite, gli offrivano da bere e lo riaccompagnavano a casa. Il giorno dopo lui raccontava al padre chi aveva vinto e chi aveva perso, quante partite, quanti soldi, perché. Poi Ropiten andava all’ufficio di rappresentanza di lane e tessuti del padre, a lavorare. Il padre restava a casa in vestaglia, e gli dava consigli per telefono con la sua esperienza.
Dopo un po’ di tempo, anche se aveva smesso di fumare e di andare al circolo e di lavorare, il padre di Ropiten morì, per un altro infarto. Il dottore disse che allora era destino, e contro il destino non si può far nulla. Ropiten si trovò solo a mandare avanti l’ufficio di rappresentanze di lane e tessuti, e il lavoro non andò né meglio né peggio di quando suo padre gli dava consigli per telefono.
Alla sera, due volte alla settimana, Ropiten continuò ad andare al circolo e a segnare i punti. Gli amici di suo padre continuarono a giocare a biliardo di soldi e a fumare, nessuno di loro aveva infarti e a nessuno il dottore vietava nulla. Questo, a Ropiten, parve ingiusto. Gli parve ingiusto che suo padre fosse morto senza che cambiasse proprio nulla, nemmeno dove aveva passato il tempo per tanti anni.
Così, una sera, d’improvviso, a Ropiten venne in mente una cosa. Mentre era lì che segnava i punti gli venne in mente che avrebbe potuto imbrogliare. Ci provò, segnò più punti a un giocatore e meno a un altro, e nessuno si accorse di nulla. D’altra parte il suo imbroglio non era stato decisivo, perché il vincitore avrebbe vinto ugualmente anche se lui non avesse barato. Perciò la volta successiva imbrogliò con più coraggio, fino ad alterare il risultato della partita. Di nuovo nessuno si accorse dell’imbroglio, il perdente che aveva vinto mise i soldi sul biliardo e il vincitore che aveva perso se li ficcò in tasca. Allora Ropiten capì che nessuno avrebbe mai sospettato di lui.
Cominciò a imbrogliare sistematicamente, con un criterio preciso; al suo arrivo al circolo stava attento a quale giocatore si accendeva per primo una sigaretta, e chiunque fosse Ropiten gli segnava solo tre punti ogni quattro che realizzava.
A seconda dei casi le alterazioni di Ropiten potevano rovesciare o non rovesciare l’esito delle partite, ma in nessun caso si trattava di risultati regolari. Poco alla volta, Ropiten vide gli amici di suo padre cominciare a discutere per delle questioni di punti. Qualcuno, alla fine della partita, cominciò a mostrarsi perplesso di avere perso, o di avere subito un distacco troppo pesante; ma subito il suo avversario gli spiegava come e quando aveva perso o aveva accumulato il distacco. Se quello non si convinceva, l’altro chiamava a testimoni tutti i presenti, che si schieravano da una parte o dall’altra a seconda delle simpatie personali. E se qualcuno osava sospettare che Ropiten si fosse sbagliato a segnare i punti, subito il giocatore avvantaggiato era pronto a dimostrare che non era vero, e qualche testimone ci giurava sopra. Da una sera all’altra il giocatore danneggiato e quelli avvantaggiati cambiavano, a seconda di chi avesse acceso per primo la sigaretta e così, imbrogliando ma non a vantaggio di qualcuno in particolare, Ropiten non venne mai messo in dubbio come segnapunti. Vennero fuori soltanto molti sospetti reciproci tra i giocatori, rancori lontani che risalivano molto indietro nel tempo, a quando Ropiten segnava i punti correttamente e suo padre era ancora vivo.
Allora a Ropiten venne un’altra idea, e subito la sperimentò. Smise all’improvviso di imbrogliare, così come aveva cominciato. Le discussioni proseguirono ugualmente. I risultati delle partite tornarono a essere regolari, ma i giocatori non smisero più di bisticciare. Anzi, si spinsero oltre, arrivarono ad insultarsi, a minacciarsi le botte, finchè una sera uno tirò due pugni all’avversario che lo aveva battuto. Altri due saltarono addosso a lui e lo presero a calci, e al gestore del circolo venne spaccata una stecca sulla testa. Vennero chiamate le ambulanze, e assieme alle ambulanze arrivò la polizia, che prese il nome a tutti e si portò tre giocatori al commissariato. Ropiten, comunque, fu riconosciuto estraneo alla rissa.
Fu così che le partite di biliardo, al circolo, non le giocarono più nemmeno gli amici di suo padre, che stavano bene di cuore e continuavano a fumare ma non erano più amici tra di loro.
Altri giocatori, che Ropiten non conosceva, presero il loro posto. Anche il gestore del circolo smise di fare il gestore del circolo, perché dopo la botta in testa non riuscì più a lavorare: vendette la licenza a uno più giovane e si ritirò a riscuotere un’assicurazione.
Ropiten non andò più a segnare i punti per gente che non conosceva, e rimase tutte le sere della settimana a casa a guardare la televisione. Si annoiava, però almeno si poteva dire che suo padre era morto per qualcosa.
Morto per qualcosa
di Sandro Veronesi
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