Ho passato la mattina fissando la cella AB38 di un foglio Excel.
«Hai debrieffato?», «Bisogna swappare obiettivo», «Quando è previsto il kick off sul follow up dell’action plan?», non distinguo le voci attorno a me.Il BlackBerry vibra e mi sveglia da questo incubo a occhi aperti.
È la mail di una certa Paola di Torino, mi invita al suo birthday party. Il tema della festa è Sex and the City per le donne e Blues Brothers per gli uomini.
Paola ha trecento invitati, ogni risposta in modalità «Invia a tutti» fa vibrare il mio BlackBerry. Una certa Titty dice che non sa cosa mettersi. Un certo Leonardo detto Leon dice che non sa chi sono i Blues Brothers: conosce solo i fratelli Brooks, quelli delle camicie. Ludovica, detta Lodo, lo tranquillizza dicendo che i Blues Brothers sono «tipo Iene». Leon ringrazia.
Mentre maledico il BlackBerry, mi specchio nello schermo di un Mac da 30 pollici: giacca Super 120’s Loro Piana blu, camicia bianca a doppio filo di cotone ritorto e cravatta Made in Naples. Nel mio guardaroba, ogni cravatta mi ricorda un anno gettato nel cesso. Mi regalano solo cravatte: a ogni promozione, al mio compleanno, a Natale. Sempre cravatte.
Quella che indosso oggi me l’ha regalata il mio supervisor, all’interno mi ha fatto ricamare una dedica: «Nulla si crea, nulla si distrugge. Tutto si copia e incolla». Ogni occasione è buona per ricordarmi qual è l’unico scopo della mia vita: performare, si usa dire così da queste parti.
Passo la giornata fra le quattro mura in cartongesso di un open space pronto a trasformarsi per qualsiasi workshop, open day, showroom, summit, shooting, dinner party, exhibition e non so cos’altro. Recito la parte di chi ce l’ha più lungo degli altri, la mia vita è popolata da visi di plastica e buonumore dopato. Stringo mani.
I miei colleghi si sono accorti che qualcosa non va, da qualche tempo a questa parte manco dal solito tavolo della solita discoteca. Il solito giovedì. Stamattina di fronte alla macchina del caffè, bevendo il solito doppio con doppio zucchero, mi hanno comunicato il loro affetto: «Umberto, ti abbiamo organizzato un blind date per il pranzo di oggi. Claire è quello che ti ci vuole. Lascia fare a noi…»
L’appuntamento è da Nobu alle 13.30. A Milano c’è un’afa senza deadline. Un cielo azzurro Viagra fa da backstage a questo cazzo di venerdì di metà luglio.
Claire arriva alle 13.45: è in perfetto ritardo.
Ha capelli lunghi e ossigenati, carnagione da lungodegenza ospedaliera e secchiello Louis Vuitton. Come lei qui dentro ce ne sono almeno trenta. Eppure la riconosco subito: il mio intuito è infallibile.
«Tu devi essere Umberto?»
«Hai indovinato, devo avere proprio una faccia da Umberto» sorrido.
Lei non ride: prima battuta che non va a segno.
«Io sono Chiara ma tutti mi chiamano Claire. Scusa il ritardo: questi casting sai quando cominciano ma non sai mai quando finiscono.»
«Immagino…» dico, prendendo tempo.
Dentro di me si apre un file che conosco a memoria: universitaria, aspirante fotomodella, aspirante showgirl, aspirante attrice di soap, aspirante attrice di cinema impegnato.
Non lavora come modella, non lavora come showgirl, non lavora come attrice: insomma, non lavora in genere e si fa mantenere dal sottoscritto.
Il file si chiude con un’immagine che conosco molto bene.
Nel frattempo, un tizio con uno di quegli improbabili tagli a spazzola da orientale ci fa accomodare accanto a un gigantesco acquario che potrebbe essere un’opera di Damien Hirst.
Nel tragitto verso il tavolo incontro i genitori di una mia ex.
Lei è in bianco fata, lui indossa un baseball cap viola che fa pendant con i divani di Nobu.
Tema della conversazione: le vacanze estive. Meta consigliata: la Grecia, preferita alle Baleari. Lodata l’efficienza Alitalia, molto sconsigliato viaggiare Iberia.
Poi saluto nell’ordine:
– un’attrice di soap off off che ha la quarta ma sta pensando di farsi la sesta e che mi chiama «Adalberto»;
– un ex cocainomane che ha attraversato il Pacifico con una barca a remi da sette metri e mezzo perché non aveva soldi per il rehab (ora è nel Guinness dei primati e si è disintossicato);
– un ex promessa del centrosinistra milanese che ha mollato tutto per girare il mondo in skateboard.
Schierate in perfetta simmetria, a destra e a sinistra del nostro tavolo, ci sono solo coppie, tutte uguali: outfit da consultant terzo livello per lui, look «cazzo me ne frega tanto sono figa anche in jeans e All Star» per lei.
Le donne recitano la parte delle annoiate, gli uomini si danno da fare per estorcere sorrisi. Sono straordinariamente fieri di avere due metri di carne depilata accanto e fanno di tutto per sentirsi all’altezza, non sanno che il loro è un doppio incarico ad interim, driver e sponsor.
E io sono come loro, peggio di loro.
«Tu sei un manager, vero Umberto? I tuoi amici dicono che sei uno dei migliori.»
«Esagerano sempre, i miei colleghi: diciamo che faccio del mio meglio per far credere ai superiori di essere indispensabile.»
Claire mi guarda storto, seconda battuta che non va a segno.
Mi distrae una tizia che lavora al marketing di Chupa Chups – una certa Susan –, è all’ingresso con un tizio che sta implorando il cameriere per avere un tavolo.
La mia testa va in modalità standby, mentre Claire tocca i seguenti argomenti:
– al Masa, ristorante giapponese di Manhattan, cancellare una prenotazione costa centocinquanta dollari a persona;
– Ermanno Scervino è il nuovo Roberto Cavalli;
– uno stalker ha sparato a una sua amica: il proiettile era diretto al cuore ma il silicone lo ha bloccato.
In questo momento rimpiango persino il carteggio fra Paola e i suoi amici della festa Sex and the City-Blues Brothers. Ma forse Claire sembra gradire le mie espressioni di default, perché conto sette volte la frase «Mi piace parlare con te perché sai ascoltare».
Poi con un improvviso cambio di umore fa chiamare il direttore di sala – porta un badge con scritto «Lounge manager» – e pretende un altro tavolo. Sembra molto arrabbiata, ora.
Ma neanche il nuovo tavolo va bene, e Claire decide che dobbiamo tornare al primo.
In trance yogica, assecondo ogni sua scelta.
Sempre Claire fa alzare l’aria condizionata, poi la fa abbassare, infine la fa spegnere.
Finalmente il cameriere passa per le ordinazioni e anche se vorrei un Double Mexican Hamburger e una birra in un bicchiere di plastica, ordino del Sunomono e dei Rainbow Maki. Claire comincia un siparietto stranoto: voglio questo piatto senza quest’ingrediente e con quest’altro, poi vorrei una mezza porzione di questo con doppio zenzero e, infine, acqua oligominerale mediogassata gallese a temperatura ambiente.
Un’aspirante famosa, se vuole diventare una celebrity, per prima cosa diventa allergica a quasi tutto. Sofisticare i consumi è un modo per sentirsi unici e inimitabili.
Ordino una bottiglia di Gewürtztraminer e Claire lo fa rimandare indietro tre volte: una perché è troppo caldo, una perché è troppo freddo e la terza perché sa di tappo. Claire è astemia.
Comincio a sudare, quando un tizio che si fa chiamare Mantra from Tokyo – indossa una t-shirt con scritto «Più musica meno cemento» – prende posto in consolle dj.
Mantra from Tokyo è specializzato in musica ambient-lounge ed è dj resident a Le Baron di Parigi; la sua session inizia con il remix di una partita di ping pong.
Claire è entusiasta della performance: mi racconta che nel cd Plat du Jour, Mantra from Tokyo ha campionato il suono di un granello di zucchero e quello di trentamila polli d’allevamento.
Appunto mentale: scaricare da Itunes Plat du Jour.
Claire dice anche che Mantra from Tokyo è uno da venti a sera, senza precisare venti cosa.
La fisso e provo a indovinare il suo, di cachet. Dopo una cena al Gold e un after dinner al Just si dovrebbe concedere.
Flash forward: lei e io che scopiamo in una suite del Principe di Savoia. Niente di che.
Pranzo, cena, discoteca e albergo five stars: mi innervosisco pensando che una scopata così mi costerebbe più della top escort di arcAton, che almeno qualcosa da dire ce l’ha.
Mentre la mia mente vaga alla ricerca di un motivo qualsiasi per rimanere qui, e dal tavolo accanto una modella di colore ripete in loop «I don’t fly commercial» all’Ad della prima società italiana di screditamento online, Claire attacca a parlare di segni zodiacali.
Sento la parola «Gemelli» e di seguito una sfilza di «Io sono»: «Io sono…», «Io sono…», «Io sono…», «Io sono…»
Poi attacca con «Io amo»: «Io amo…», «Io amo…», «Io amo…», «Io amo…» Il verbo amare è associato, di volta in volta, al feng shui, ai chihuahua, alle Aston Martin e al cappuccino d’orzo.
Capisco che sta elencando le cose che non le piacciono quando passa a «Io adoro»: «Io adoro…», «Io adoro…», «Io adoro…», «Io adoro…»
Mentre penso seriamente alla lobotomia, il cameriere porta il conto.
La ricevuta è piegata in due: strofino la carta tra pollice e indice e, con la calma di un pokerista, la apro. È la solita frustata di Nobu che anche oggi vuole estorcermi duecentocinquanta euro. Claire finge di prendere la borsa, finge di essere decisa, finge di voler pagare. Farfuglia anche qualcosa che somiglia a «Faccio io».
È arrivato il mio momento: ce la devo fare, devo vendicare tutti i figuranti attorno a me. Le passo la ricevuta e dico: «Occhei, fai tu».
Claire è in preda a un attacco di panico, prende a ridacchiare nervosamente e aspetta che riveli lo scherzo.
Controllo ogni muscolo del viso e mi concentro per non sbattere le palpebre, respiro regolarmente.
È un tango figurato, il nostro: la fisso e aspetto una sua mossa. Lentamente, Claire infila le mani nella borsa, le mani le tremano. Io sono in freeze frame.
Sorry, cara, non è un bluff: vado fino in fondo.
Lei rovista nella borsa e, opsss: «Ho dimenticato il portafogli nella Smart».
Il BlackBerry vibra ma lo lascio nel taschino della giacca, ogni scossa mi infonde sicurezza. «Ti aspetto qui, vai pure a prenderlo» dico.
Claire si alza con gesto plateale e scende al parcheggio.
Fuori comincia a piovere.
Io pago il conto e me ne vado.
Blind date
di Daniele Bettella
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