La prima notte
di Giovanni Martini

Per colpa di quella chiave ero di nuovo lì. Dovevano essere le sette del mattino. Avevamo fatto notte nella sala da pranzo, Betta e io, fino alle quattro e dieci circa. Io avevo diciannove anni, lei ne aveva diciassette e mezzo. Lei era molto bella. Castana liscia, non tanto alta. Io difficilmente passavo la notte fuori di casa. Non avevo il coraggio di allontanarmi troppo. Ma quella notte avevamo parlato un po’ di noi, Betta e io, ed era stato piacevole ascoltarsi mentre fuori pioveva. Fateci caso. Quando tocchi qualcosa di brillante succede sempre qualcos’altro da un’altra parte, di altrettanto brillante. La pioggia, per esempio, era brillante.

Poi aveva smesso di piovere. Fermai nel giardino.
«Ohi Gio’, che fai lì?» Betta disse appena mi vide dalla finestra. C’eravamo salutati due ore e tre quarti prima.
«Non volevo disturbare. Ciao Betta, scusa.»
La madre aprì la porta a vetri, nel retro.
«Entra di qua, Gio’. Potevi suonare, che male c’è?»
«Non volevo interrompervi. Mi dispiace signora.»
«Vuoi un cornetto Gio’? Sono caldi del fornaio» la donna mi porse una busta strappata nel centro. Ce n’erano alla crema e alla fragola e alla vaniglia ripieni, due semplici e una ciambella.
«Non volevo disturbare. Vado via subito.»
Il padre entrò col pigiama, spettinato.
«Tieni Gio’, non sapevamo che fare. Se telefonarti.»
«Grazie avvocato. Anche io non volevo disturbare.»
Mi porse il mazzo di chiavi. Lo misi in tasca.
«Gio’ è troppo svanito, non è vero ma’?» Betta sorrise e morsicò la pancia ripiena del cornetto alla fragola.
«Le avevo poggiate sul tavolo» dissi e grattai la nuca. «Per via di quella chiave lunga che mi buca le tasche. Non volevo tornare dai miei, non volevo disturbare nemmeno loro.»
«Prendi un cornetto, Gio’. Assaggia.»
«Non vorrei disturbare. Lei è molto gentile, avvocato.»
«Alla crema calda, è appena montata Gio’. Siediti» il padre indicò una sedia. «Allora Gio’, come va la scuola?»
«Non ci riesco. Male» dissi.
«E perché?» la mamma chiese osservandomi.
«È un cimitero con le lapidi.»
«Ah ah ah ah…» il padre rise. «Buona questa.»
«Non scherzo avvocato. Mi fa questo effetto, un cimitero con le lapidi» risposi e poi morsicai un cornetto. Mezzo minuto dopo avevo una tazza di latte davanti a me, sul tavolo.
«Grazie, ma io non volevo disturbare» masticando dissi.
«Basta Gio’, hai rotto. Mica disturbi, se disturbavi ti lasciavamo le chiavi dal portiere. Sei troppo simpatico Gio’.»
«È vero» la madre mi strizzò un occhio.
«Non sono abituato, avvocato. Di solito faccio colazione al bar. È tutto molto buono qui.»
«Ah ah ah ah» il padre ancora rise. «Sei troppo simpatico.»
Una porta si aprì, e qualcuno entrò.
«Oh, Gio’! Fai colazione con noi? Hai fatto notte con Betta, non è vero?» il fratello Marco era in pigiama scozzese. Sedette al tavolo e morsicò la ciambella.
«È per le chiavi di casa» la madre informò.
«Ho passeggiato un po’ qui intorno, poi sono tornato.»
«Ah ah ah ah» il fratello rise. «Che simpatico che sei, Gio’. Prendi un goccio di tè, mettilo nel latte.»
«Grazie. Siete molto gentili.»
«Dove sei stato Gio’, fino a quest’ora? Dove hai passeggiato?» Marco voleva sapere. Mi fissò e poggiò la tazza sul tavolo.
«Qui intorno. Da nessuna parte.»
«Dimmi Gio’. E a scuola ci andrai oggi?» Marco disse. Poi fece l’occhiolino.
Detesto chi mi fa l’occhiolino.
«Perché mi hai fatto l’occhiolino?»
«Forse c’è sciopero, non è vero Gio’?» Marco aggiunse e fece ancora l’occhiolino.
Non lo sapevo, se c’era. Quindi restai zitto.
«Oggi è una giornata magnifica. Voi che ne dite?» la mamma intervenne e sorrise materna a noi quattro. «Guarda che giornata magnifica!»
«Non credo» ribattei. «A quest’ora dovrebbe essere già più chiaro. Secondo me pioverà, tra un po’» aggiunsi – e sporsi un occhio oltre la persiana alzata sul giardino, alle mie spalle.
«Che c’è?» chiesi poi, voltandomi di scatto.
In un certo senso mi stavano scrutando tutti e quattro. Non era bello trovarsi osservati da qualcuno, specie voltandosi all’improvviso. Mi innervosii o forse mi preoccupai. Chiesi di nuovo che c’era, e lo dissi non molto gentile.
«La lettera, Gio’…» la madre affettuosa rispose. «È molto carina e piena di delicatezze per Betta. Davvero.»
«L’ho letta anch’io» il padre intervenne. «Non ti facevo così, Gio’. Sei stato molto carino. Hai scritto cose graziose.»
«Mi sono pisciato sotto» Marco alzò una fetta di pane imburrato, e mi guardò. «In quel pezzo lì, quando dici che le donne ti bucano lo stomaco. Ma lo pensi davvero, Gio’?»
«Quella lettera era privata. Era per Betta» dissi e morsicai il cornetto alla crema di vaniglia.
Ci fu silenzio, nemmeno spalmavano più le fette biscottate. Nemmeno le masticavano.
«Mi spiace Gio’» la mamma aggiunse apprensiva. «Questa cosa è venuta spontanea. Betta l’ha poggiata sul tavolo all’ingresso insieme alla posta. Era lì.»
«Non c’è niente di male, Gio’» Betta disse tranquilla.
«Potevi risparmiartela» dissi.
Mi versarono dell’altro latte nella tazza, ringraziai.
«È la prima volta che leggo una lettera indirizzata a mia figlia» il padre mi fissò sorpreso. «Sai quanto è geloso un padre, no? La tua lettera non mi ha dato fastidio, al contrario.»
«È piena di carinerie, vero Betta?» la madre disse.
«Mamma. Mi passi il cucchiaio, per favore?» Betta versò del miele nel latte. Attese che squagliasse e poi bevve.
«Si sente Gio’, si sente che dici la verità» il padre insistette. «Cose del genere, io, nemmeno le dico a voce.»
«Gio’, non c’è niente di male» Betta ripeté. Poi finì di bere il residuo del latte al miele, nel fondo della tazza.
«Non la dovevi far leggere a nessuno.»
«Ci siamo commossi, papà e io» la madre sussurrò. «La lettera è molto bella. È piena di delicatezze.»
«L’ho scritta a Betta, non a voi.»
«Le risate!» Marco disse. «Com’era quel pezzo del piagnisteo in purgatorio?» e mandò giù due sorsi in fila di latte. «Che quando esci con una ragazza ti duole la colite? Com’era?»
«Marco, basta con queste parole!» la madre urtò la nuca al figlio. Era un leggero scappellotto, molto leggero. Lui avanzò verso la tazza del latte, e ancora rideva. Ma poco.
«Vatti a lavare le ascelle, che è tardi e che puzzi!»
Il padre guardò me, poi in terra.
«Come mai il giornale è arrivato in anticipo, stamane?» disse e fece attraversare «Il Tempo» nel mezzo del tavolo. Era intonso e umido d’inchiostro.
«Tieni Gio’, dai una letta prima di andare. Ci fa piacere se resti ancora. Ci stai troppo a cuore.»
Aveva poggiato la copia sotto al mio naso, sul tavolo imbandito – piegata in due.
«È vero» la madre interruppe. «È stato gradevole fare colazione con te. Leggi il giornale, Gio’. Poi vai a scuola.»
Di leggerlo non mi andava proprio.
«Quella lettera non era per voi» dissi.
«Dai Gio’, non c’è niente di male» Betta era tranquilla.
«Siamo poveri diavoli, noi» il padre scosse le spalle. «Siamo esseri umani pieni di debolezze, vero ma’?»
«Eccoci qua, a lavorare tutto il giorno per i figli» protettiva la donna scrutò il marito, e annuì.
«La lettera non c’entra con questo.»
Furono le otto e qualcosa. Marco si alzò, e stiracchiandosi mi raggiunse. «Allora Gio’» disse dandomi una pacca sulla spalla. «Mi consigli qualche bel localetto per andare a ballare?»
Lo vidi. Non mi stava granché simpatico. Aveva il pigiama scozzese e odorava di letto. Non risposi.
«Piantala Marco» la madre intervenne alzandosi. «A noi, Gio’, farebbe piacere se frequentassi Betta. Davvero.»
«Potreste rafforzare la vostra conoscenza, col tempo» il padre disse e ammiccò garbato. «A noi farebbe piacere.»
«Sul serio. Gio’, sei così carino.»
«Andiamo in discoteca, torniamo alle due» Marco disse. «Se non sono le dieci, sono le undici. Da solo mi fanno tornare presto, capisci Gio’? Magari insieme si aggancia qualche straniera.»
«Marco santo Dio, zitto. Che dici?»
«Perché l’avete letta anche voi?» chiesi.
«Era lì, era lì insieme alla posta…» la madre sussurrò. «È stata un’innocenza, è stato perché vogliamo bene a tutti e due.»
«A me non sembra» a voce bassa dissi. Poi avvertii il diaframma alzarsi nel petto. Mi veniva da urlare, ma non urlai.
«Hai scritto cose molto vere» il padre intervenne.
Marco allungò un braccio, e avvicinò un portacenere.
«Agganciamo qualche danese, Gio’. O qualche polacca. Le portiamo al Circeo a casa tua» propose. «Ci giochiamo a tamburello.»
«Odio far leggere le cose che scrivo» dissi.
«No Gio’» la madre era commossa. «È tutto vero quello che hai scritto, è tutto vero.»
Mi veniva ancora da urlare. Così urlai, forte nella stanza.
«HO SBAGLIATO TUTTO SIGNORA! SBAGLIO SEMPRE TUTTO!»
«No Gio’, Dio santo: è tutto vero, è tutto vero…»
«Basta solo un po’ d’inglese» Marco disse. «Facciamo il bagno nudi sotto gli scogli. Dai Gio’, accetta.»
«Marco, è tardi: vatti a lavare, corri!»
«Ho faticato molto per scriverla» dissi e gettai la salvietta sul tavolo. Avevo abbassato la voce, ma ero ancora arrabbiato.
«Non sono abituato a raccontare i fatti miei.»
«Ripensaci Gio’, ok?» Marco liberò una striscia di pigiama impigliata nell’incavo della natiche; dopodiché uscì dalla stanza, calmo.
Mi voltai. Guardai loro tre; urlare ancora era inutile. «Volevo scusarmi, signora» a quel punto dissi, a testa china. «Grazie di tutto. Mi spiace per le urla, non volevo.»
«Non ti devi scusare affatto Gio’. Ci stai troppo a cuore.»
«Arrivederci signora, e grazie ancora.»
Sorrisero lieti; allora salutai alzandomi, strinsi loro le mani, e uscii di lì oltre il cancello sul vialetto.
Mezz’ora dopo ero a casa. Salii le scale, aprii la porta, e fu subito l’ingresso illuminato. Feci un bel respiro. Dovevano essere le otto e quarantacinque. Riconobbi subito l’odore caldo del parquet, dopodiché scorsi il sole dalla finestra sugli interstizi fra le brevi assi di legno in terra; batteva chiaro. Poggiai il mazzo di chiavi sulla mensola, accesi una sigaretta, e raggiunsi mia nonna in cucina. La volevo vedere, la volevo salutare.
Entrai in cucina; era di spalle, al tinello.
«Ciao nonna. Ho dimenticato le chiavi» dissi avvicinandomi. «Stamane ho fatto tardi. Entrerò alla seconda ora.»
Non rispose subito. Capava fagiolini verdi, ne gettava il gambo nella brocca d’acqua; le cime finivano nella pattumiera.
«Ci stai lentamente uccidendo tutti» di spalle sussurrò.
Non me l’aspettavo, così restai fermo in mezzo alla cucina.
«Mi spiace molto, non volevo disturbarvi.»
«Tuo padre si è sentito male. Chiamalo subito in ufficio.»
«Preferivo non svegliarvi» giustificai. «Pensavo vi svegliaste più tardi, senza accorgervi di niente.»
«Anche tua madre si è sentita male.»
Mia nonna era vecchia, aveva pantofole molto sporche. Anche le caviglie erano molto sporche e venose. Disse: «Tua madre ha pianto tutta la notte, tuo padre ha chiamato ospedali per tutta la notte; io ho preparato caffè fino alle otto».
Feci un lungo sospiro e poggiai una mano sulla fronte.
«Sono una persona molto chiusa» dissi.
«Sei un egoista. Vuoi far morire chi ti sta vicino. Tua madre soffre di cuore. Tuo padre è cagionevole. Io sono vecchia.»
«Non desidero la morte di nessuno, se non la mia» dissi.
Rispose qualcosa in dialetto abruzzese, ma non capii una parola di ciò che disse. Così abbassai gli occhi e ancora guardai le sue gambe.
Aveva calze rimboccate ai piedi, orli di stoffa pendevano giù dalla sottana, ed era molto sporca sulle caviglie.
«Farai una brutta fine. Te lo dice una vecchia» disse. Questo lo disse in pura lingua italiana, e lo capii bene.
«So di aver sbagliato tutto» dissi.
Non commentò. Con il coltello recise la cima di un fagiolino e gettò la cima nella pattumiera. Fissò quindi pensierosa il tinello – in silenzio; poi fece scivolare il gambo nell’acqua.

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