Lei è la cameriera del bar. È la ragazza che la mattina – una coda di cavallo perfetta, il trucco fresco sulla pelle elastica – sorride ai clienti che fanno colazione con cappuccino (Vuole anche un po’ di cacao?) e brioche (Quelle alla marmellata sono finite, mi spiace).È la ragazza che il pomeriggio – il sorriso un po’ più finto e il trucco ripassato con precisione sui bordi, come a scuola nell’ora di disegno – mentre i clienti vengono a prendere un caffè, tra un appuntamento allo studio d’avvocati non distante e un acquisto nei dintorni, sta già sistemando i taglieri e gli stuzzichini per l’aperitivo. È la ragazza che la sera – la divisa verdeblu sostituita da una giacchetta leggera, il berretto con visiera appeso in un angolo fino alla mattina successiva – ritorna a casa per preparare l’esame di Filologia romanza.
Quando aveva sette anni e giocava a rialzo con le amiche nel cortile del suo palazzo, quella bambina che sarebbe diventata cameriera in un bar sognava da grande di tagliare i capelli da una parrucchiera, come sua sorella maggiore. Però crescendo poi ha studiato, e mentre adesso sua sorella continua a tagliare i capelli – con la differenza che ora il negozio in cui lavora è di sua proprietà, e tre pomeriggi a settimana l’aiuta un’apprendista che si occupa dei tagli facili (quel posto sarebbe potuto essere il suo posto, pensa la ragazza che fa la cameriera quando, dalle vetrate del bar, ultimamente le capita di intravedere l’auto gialla della giovane apprendista sfrecciare lì davanti) –, mentre la sorella parrucchiera, che è uscita dalla terza media con ‹‹sufficiente›› e poi ha detto ai genitori: Non voglio più studiare; mentre adesso sua sorella ha una casa tutta sua, la ragazza che invece fa la cameriera in un bar è ormai raro che venga attraversata come un tempo dal pensiero che nella sua vita sia tutto sbagliato: in fondo il lavoro che fa le piace.
C’è un momento, in particolare, che ama moltissimo. Quando un negozio vicino – o lo studio d’avvocati – telefona al bar per chiedere che qualcuno porti cose tipo: Sei caffè, due d’orzo in tazza grande, un dec e tre normali di cui uno macchiato, due cappucci con zucchero di canna e un marocchino con Nutella grazie; lei è la prima a offrirsi. Oltre al suo capo, lavorano nel bar altre due cameriere (una è studentessa come lei, l’altra è più grande, è lì da qualche anno e conosce bene il mestiere – lei sospetta abbia una relazione con il capo), e mai nessuna di loro ha voglia di portare a spasso un vassoio con su tutta quella roba.
Ma lei sì, ed è davvero ammirevole la cura con la quale appoggia sulle tazze e sulle tazzine dei cappuccini e dei caffè quei coperchietti pensati per trattenere il calore, davvero commovente l’attenzione con cui avvolge un pezzetto di carta argentata intorno al bordo del bicchiere in vetro che contiene il marocchino, davvero straordinaria la precisione con cui dispone i cucchiaini, e i bicchieri d’acqua frizzante per ciascun caffè e cappuccino, le bustine di zucchero e infine i cioccolatini sul vassoio che dovrà trasportare dal bar ai clienti. Ecco, lei adora quel momento, e ancora di più le piace girellare per le vie sorreggendo fiera in equilibrio su una mano sola tutti quei prodotti caldi di caffetteria, muoversi agile nel traffico e suonare il campanello di chi ha ordinato facendo una telefonata al suo capo (è lui che risponde al telefono) dicendogli: Segna sul conto.
E a vederla in quelle occasioni sembra in effetti che una grazia insolita la investa, anche il suo portamento raggiunge l’eleganza propria di chi sa di essere ammirato. Quando fa una commissione al di fuori del bar non si lascia distrarre da nulla, spegne anche il telefonino, che il suo capo gentilmente durante il servizio ai tavoli le fa tenere acceso a patto che utilizzi l’auricolare (l’emoziona ricevere un messaggio mentre sta lavorando, sentire attraverso l’auricolare – dal quale non si separa mai – quel suono perfetto solleticarle l’orecchio; ogni volta che le arriva un messaggio immagina, come nel più scontato degli spot pubblicitari, una goccia di profumo che cade dolcemente sulla pelle), insomma è chiaro che quel compito le piace, se potesse farebbe quello tutto il giorno, anche con la pioggia. Sapere di essere attesa da qualcuno – una persona che ha un’attività e vuole prendersi una pausa in compagnia di un amico che passava di lì, oppure una persona che anche grazie a quel caffè cerca di concludere un affare con un cliente –, presentarsi sorridente e ordinata nella sua divisa (Se sorridi è più facile che ti diano la mancia, le ha detto una volta la collega anziana, ma non dimenticarti mai di sculettare), essere perfetta e provvidenziale, ecco ciò a cui aspira la ragazza che fa la cameriera, lei che in assoluto di quel preciso istante forse sopra ogni altra cosa ama sentire gli altri dire: È arrivata la ragazza del bar.
Ha lasciato da poco il fidanzato, ed è felice: era stanca di traghettare con sé quel fantasma alle feste e alle cene con gli amici, nei finesettimana privati e nelle occasioni pubbliche. Lei in compagnia era sempre stata brillante, ma da quando stava con lui – le aveva fatto notare un’amica – non sembrava più così interessante come un tempo; dopo che le avevano detto questa cosa, la ragazza che oggi fa la cameriera – e che all’epoca ancora non lavorava lì, anzi neppure ci aveva mai messo piede in quel bar – si era sentita come se il suo ragazzo non fosse il suo ragazzo ma una falena attratta dalla luce, un parassita di cui disfarsi. Le stava attaccato in maniera quieta ma insopportabile, e col tempo si era convinta che lui non avesse nessun altro con cui stare, non un amico, nessuno eccetto lei.
L’ha lasciato e ha tolto dallo sfondo del cellulare la foto che lei stessa aveva scattato due estati prima, in vacanza: lui disteso su uno scoglio, sul viso un’espressione buffa da ragazzino.
L’ha lasciato e si sente leggera, il suo appartamento non puzza più di sigarette: lui studiava Filosofia e fumava, dormiva quasi sempre da lei seminando cenere dappertutto. Un paio di mesi prima (in un angolo della sua mente era germogliata da tempo la volontà di lasciarlo, ma il coraggio mancava), aveva comprato un apparecchietto raccogliodori che contemporaneamente – avendo al suo interno una bomboletta di spray sostituibile – rilascia un piacevole profumo di mughetto, ma adesso non serve più. Ha smesso di appendere di notte all’aperto sul piccolo balcone i vestiti, che s’impregnavano di fumo e la intossicavano; in casa era costretta a tenere i capelli – anche loro assorbivano fumo e cenere – raccolti in una coda come sul lavoro, i suoi migliori amici erano diventati gli elastici per capelli, quelli ricoperti di spugna leggera: ne teneva sempre uno di riserva nella tasca anteriore dei jeans (sua sorella le diceva che se si ostinava a tenere i capelli sempre legati, a casa e al bar, prima o poi sarebbe diventata calva). Durante il giorno, se metteva una mano in tasca, sentiva quella presenza innocua contro la coscia: come il segmento di un piccolo calamaro in attesa di intrappolarle i capelli in una coda. Quando stirava i jeans, la tasca era spesso marcata da quel cerchietto che stava lì a dimostrare quanto a lungo avesse tenuto un elastico per capelli in tasca, doveva passarci bene sopra il ferro da stiro per far sparire il segno. Ora non deve più costringere i suoi capelli e se stessa, i suoi vestiti non avranno più addosso quell’odore, ora quell’apparecchietto spargiprofumo ha perso la sua utilità.
Quando lei l’aveva visto in uno dei cataloghi che arrivano per posta – due bombolette per ricaricarlo in omaggio se si effettuava una spesa complessiva superiore ai 99 euro – non ci aveva fatto molto caso: i suoi occhi nocciola erano scivolati rapidi sulle pagine patinate sature di offerte imperdibili; quel catalogo lo sfogliava per noia mentre era in sala d’attesa dal dentista. Poi – neanche fosse un ammiratore intento a seguirla, un ammiratore testardo che precedeva le sue mosse – l’aveva incontrato ancora, stavolta in un negozio di oggetti per la casa: senza ricordarsi di averlo già intravisto tempo prima su un catalogo – e a un prezzo più basso – si era decisa a comprarlo.
L’aveva piazzato sopra la colonnina porta cd, che nel suo appartamento sta in una posizione strategica: dominando sia il soggiorno sia la piccola cucina, quell’angolo si direbbe pensato apposta per il raggio d’azione della bomboletta. Da lì, ogni novanta minuti come lei stessa l’aveva tarato (il massimo del tempo possibile fra un’emissione e l’altra), quell’apparecchietto alitava un sospiro profumato al mughetto sintetico – il suono sembra proprio quello che faceva il gatto che aveva da piccola quando starnutiva, pensa ogni volta con un sorriso –, allontanando per un po’ la puzza di cenere che s’infilava fra i cuscini del divano e più in generale in tutti gli angoli dell’appartamento che ora, pensa la ragazza mentre attraversa la strada per raggiungere la fermata del suo autobus che la porterà a casa, ora che ha lasciato il filosofo fumatore quell’appartamento è tornato suo (lui non le ha ancora restituito le chiavi, deve ricordarsi di chiedergliele di nuovo). Quell’apparecchietto non servirà più, riflette mentre osserva un signore che tiene per mano una bimba piccola, e neppure dovrà più prendere la pillola: è tutto giusto così, nella sua vita, a questo pensa la cameriera del bar rincasando.
La mattina seguente è al lavoro – i capelli raccolti nella solita coda graziosa che fuoriesce dal berretto con visiera, l’auricolare del telefonino nell’orecchio sinistro – e le viene in mente che la sera prima era così stanca e così leggera che alla fine si è scordata di disattivarlo, quell’apparecchietto che le profuma la casa. Poco male, lo farà quella sera, si dice mentre prepara Una spremuta ben zuccherata, grazie. In fondo tiene quasi compagnia: ogni novanta minuti uno spruzzo al mughetto scandisce il tempo, le dice che sta studiando da una e mezza, tre, quattro ore e mezza, come fosse un metronomo profumato (il fidanzato ne era infastidito, lei si era accorta che ogni volta in cui si attivava lui rimaneva come turbato, sebbene non l’avesse mai ammesso). Il tempo che ha trascorso con il suo ragazzo – quasi quattro anni –, se lei lo scomponesse, diverrebbe un lungo elenco di giorni che ha deciso di ignorare.
La ragazza che fa la cameriera comprende solo adesso che quello, il bar, è il suo posto, altro che la parrucchiera come sua sorella. Certo, l’università è importante e lei ci tiene, ma al centro delle sue giornate ora c’è lei e soltanto lei. Mentre prepara Tre caffè di cui uno macchiato al tavolo quattro, svelta – all’università sta completando un percorso di studi umanistici, e si compiace di come i bar negli ultimi anni abbiano dato un piccolo ma importante contributo linguistico al recupero dell’espressione ‹‹di cui uno››, che rischiava di andare persa – capisce insomma di essere arrivata a un punto di svolta, ecco qual era il prossimo atto, quello che attendeva di essere messo in scena dietro le quinte della sua vita: l’essere identificata come ‹‹la ragazza del bar››.
Il resto, è una storia triste che porta a una fine tragica.
Una ragazza giovane – qualche anno in meno della cameriera del bar – è appena uscita dalla casa del suo nuovo fidanzato. Cioè, non è proprio il suo fidanzato, si tratta di uno studente di Filosofia più grande di lei con il quale si vede da un po’ di tempo. A dire la verità quella da cui è uscita non è neppure la casa del suo non-fidanzato, ma l’appartamento di un’altra persona, non ha capito bene di chi (lui però, la prima volta che si sono dati appuntamento lì, le ha assicurato che il proprietario non rincasa mai fino a sera, di stare tranquilla).
Quello che conta è che loro due neanche venti minuti fa erano sul letto: la ragazza giovane non aveva molto tempo perché doveva andare al lavoro, il ragazzo era già svestito e lei seminuda si era messa a cavalcioni su di lui. A un certo punto dalla stanza accanto, nell’angolo tra il soggiorno e la cucina, si è sentito come uno starnuto di gatto. Lei si è voltata, neppure troppo impaurita, più che altro incuriosita da quel suono; quando però ha capito che non c’era nulla da temere, e poteva tornare a quello che stava facendo – cioè farsi slacciare il reggiseno – si è accorta che ora era lui a essere diverso, non se la sentiva più di andare avanti. Alla fine la ragazza giovane è uscita dall’appartamento prima del previsto, lui ha detto di non stare troppo bene, lei avrebbe voluto fargli un discorso del tipo: Non devi preoccuparti, capita a tutti gli uomini prima o poi; di fronte a qualche altro confuso balbettamento di lui ha infine deciso di lasciar perdere.
Dunque ora è in auto, e deve andare al lavoro. Sta guidando, ma cerca anche di risistemarsi un po’: tiene molto al suo impiego part-time, e se quel ragazzo con il quale esce da poco non l’avesse tipo cacciata dall’appartamento con una cosa che assomigliava parecchio a una scusa, è probabile che lei quelle operazioni le avrebbe fatte con calma in bagno. Dopo il sesso lui si accende sempre una sigaretta, e la ragazza giovane di solito uscendo dal bagno lo raggiunge facendo anche lei qualche tiro nervoso: quell’odore di tabacco che le rimane incollato addosso lungo la giornata la eccita.
Intanto, dallo studio d’avvocati non distante dal bar, arriva una telefonata che chiede se qualcuno può gentilmente portare Sei caffè normali e un po’ di latte caldo a parte, per favore.
La cameriera non si lascia sfuggire quell’occasione: il lavoro è tutto ciò di cui ha bisogno, si ripete, e quindi – anche se al tavolo 3 aspettano una spremuta da un pezzo, e deve sbrigarsi – vuole svolgere al meglio il suo compito. Dopo aver disposto le tazzine tutt’intorno alla piccola brocca del latte caldo badando che siano equidistanti, dopo aver verificato che nella zuccheriera ci siano bustine normali, dolcificante e zucchero di canna, dopo essersi sincerata che ogni tazzina abbia un cucchiaino e un cioccolatino e un bicchiere piccolo d’acqua frizzante, si muove verso lo studio d’avvocati. Nella fretta non si è nemmeno ricordata di spegnere il cellulare, cosa che fa sempre durante le consegne.
Sicura nella sua divisa verdeblu, il berretto con visiera ben posizionato in testa e la mano ferma a reggere il vassoio, la cameriera esce dunque dal bar.
Secondo una ricerca sulle principali cause degli incidenti automobilistici dovuti a distrazione, al primo posto c’è l’uso del telefono cellulare. Al terzo – a pari merito con la propensione a smanettare sui tasti dell’autoradio – c’è la disattenzione causata dalla presenza di un’altra persona (nell’ottanta per cento dei casi si tratta del partner, con il quale o si amoreggia o si discute in maniera accesa, situazioni che portano comunque al medesimo drammatico epilogo). Al sesto posto ci sono le distrazioni causate dalla presenza di un animale (spesso un cane, quasi sempre privo di colpe, magari nervoso perché chiuso troppo a lungo dentro l’abitacolo sotto il sole). Soltanto all’undicesimo posto c’è una voce generica che include le ‹‹cure personali››, come il truccarsi utilizzando lo specchietto dell’automobile per le donne, o il rifinire la rasatura tramite un rasoio elettrico a batteria per gli uomini.
Mentre guidava – guardandosi di tanto in tanto nello specchietto per controllare che tutto fosse in ordine – la ragazza giovane aveva pescato con la mano destra un Cotton Fioc dal beauty appoggiato sul sedile del passeggero. Voleva pulirsi l’esterno delle orecchie, non era sicura di essersi lavata così bene quella mattina: il dubbio le era venuto poco prima, quando il ragazzo – mentre lei lo stava spogliando – aveva tentato di leccarle l’orecchio. Lei, un po’ incerta a proposito della sua igiene personale, aveva mosso appena il collo per sfuggirgli.
La dinamica dell’incidente non è ancora stata chiarita: la ragazza che faceva la cameriera in un bar, infatti, si trovava sulle strisce pedonali, ma è anche vero che per i pedoni era già scattato il divieto di attraversare quel tratto di strada. Il semaforo era appena diventato verde per le automobili, e la ragazza giovane al volante a quanto pare era distratta – tanto che un Cotton Fioc le avrebbe poi perforato il timpano al momento dell’impatto, procurandole un danno permanente all’udito. Quando aveva spostato gli occhi dallo specchietto alla strada davanti a sé (dove una cameriera con un vassoio in mano se ne stava ferma immobile sulle strisce) non era riuscita a frenare in tempo.
La ragazza del bar, prima di raggiungere l’altro lato della strada, aveva sì avvistato un’auto gialla che procedeva nella sua direzione, ma aveva altresì calcolato il tempo – stimandolo sufficiente – che avrebbe impiegato per attraversare: quello che non poteva prevedere, invece, era l’arrivo di un messaggio al cellulare. Quel suono perfetto lei l’aveva modificato nel menu ‹‹impostazioni›› – scegliendo quella precisa e fatale modulazione di note – per riconoscere all’istante i messaggi inviati dal suo ragazzo. Nel momento in cui aveva capito che si trattava proprio di lui, si era come paralizzata. La confondeva un po’ l’idea che lui la cercasse, e se la sua reazione a un semplice messaggio era questo piccolo panico che l’aveva assalita (aveva avuto il tempo di riflettere), allora le conclusioni a cui era giunta in quei giorni – la sicurezza del suo ruolo, quello di cui lei aveva davvero bisogno – erano sbagliate: forse la sua vita era più complessa di quanto potesse pensare.
L’auto l’aveva travolta proprio in quell’attimo, il vassoio era volato in una direzione e lei in un’altra.
Quando una persona viene investita di solito le scarpe schizzano lontane dal corpo, e se l’impatto è particolarmente violento, a volte è molto difficile ritrovarle (vanno a cacciarsi sopra il tetto di una casa, sotto altre auto parcheggiate, oppure chissà dove). Nel caso della ragazza che faceva la cameriera in un bar era stato il berretto a rimbalzare via lontano, e insieme al berretto con visiera anche l’elastico – che le teneva i capelli raccolti in una coda graziosa – era sparito.
Anche il contenuto del vassoio si era scomposto secondo logiche imprevedibili, quasi che in quel breve momento in cui era stato sospeso per aria forze diverse lo avessero governato: i cioccolatini e le bustine di zucchero si erano sparpagliate tutt’intorno; i bicchieri con l’acqua frizzante erano ricaduti a terra quasi nel punto esatto dell’impatto, senza spaccarsi; le tazzine e la piccola brocca erano rimbalzate sul tettuccio dell’automobile di chi guidava, rovesciando caffè e latte un po’ ovunque, così come era successo ai piattini, che spezzandosi avevano seminato cocci dappertutto; i cucchiaini, invece, si erano limitati a tintinnare brevemente sul marciapiedi, mentre il vassoio stesso e i piccoli coperchi (quelli da mettere sulle tazzine per non disperdere il calore) erano rotolati lungo la strada per un po’, prima di arrestarsi.
Nello studio d’avvocati, quel pomeriggio, qualcuno spazientito a un certo punto aveva detto: Ma che fine ha fatto la ragazza del bar?
Il messaggio che la cameriera aveva ricevuto – quello del suo ex ragazzo – diceva semplicemente che quella sera, quando lei avesse staccato dal lavoro, sarebbe passato al bar a restituirle le chiavi del suo appartamento.
La cameriera morì qualche ora dopo in ospedale, e nessuno seppe mai se avesse riconosciuto la ragazza che l’aveva investita: si trattava dell’apprendista che aiutava sua sorella tre pomeriggi a settimana occupandosi dei tagli più facili, la ragazza che – avendo lei preferito studiare, e poi mantenersi lavorando in un bar – aveva preso quello che sarebbe potuto essere il suo posto.