Alieni
di Giusi Marchetta

È il clacson questa cosa che non smette di pulsare nel suo cervello. Farebbe di tutto per cacciarlo dalla sua testa, ma è solo un suono: non lo può afferrare e tirare via. Così apre gli occhi, pochissimo, facendo passare solo uno spiraglio di luce: c’è un ramo, infilato nel parabrezza. Lei apre la bocca e caccia un lamento ma non lo sente perché il suono del clacson è troppo forte e copre tutto, anche il suo grido pazzo, che non riesce a fermare quando allunga la mano e gira gli occhi e vede che è Carlo che suona, con la sua faccia.

Quando si risveglia non sente più nulla e fuori è buio. Il ramo è ancora lì, a un centimetro, e lei allunga la mano, tremando, per allontanarselo dagli occhi. Non ci riesce: è incastrato nel parabrezza. C’è entrato così forte che sarà impossibile tirarlo fuori.
Sta attenta a non girarsi. Preme la mano destra sul petto per calmare il cuore e allunga l’altro braccio verso il sedile accanto al suo: prima gli tocca la schiena che è piegata in avanti, poi sale fino alla nuca, ai pochi capelli dietro la testa e ancora su, tremando, fino alla fronte finché la mano non si bagna e le viene da gridare. Si trattiene e si gira piano, con gli occhi socchiusi: Carlo è piegato in avanti, la testa è tutt’uno col volante. Sanguina; dalla fronte, dagli occhi, dal naso.
Lei lo chiama, gli tocca la spalla.
Alzati, parla.
Non si alza, non parla. Lei gli tira la giacca, gliela strappa.
Bastardo.
È come quando va in garage e ci passa le ore e se lo chiami non risponde e non viene.
Ritira la mano, la pulisce sul sedile ripassandola più volte avanti e indietro e si macchia la gonna. È un peccato: sangue e vino non si tolgono.
Non sa che fare perciò comincia a piangere finché si ritrova senza fiato: è la cintura che la soffoca. Allunga la mano ma è inutile: il pulsante è bloccato. Tremando la tira con una mano, con due, niente. Può piangere più forte e allora lo fa.
«Aiutami.»
Carlo la ignora: dalla bocca la bava e il sangue gli colano sulla camicia fino alle scarpe. «Aiutami» ripete ma biascica e viene fuori un «aiumi» e perciò anche se lui la sentisse non capirebbe.
Non lo guarda. Andando a tentoni, gli cerca la tasca, ci infila la mano, e afferra il coltello. Lui ci squarta i salmoni e adesso lei farà lo stesso con questa cintura. La tende e fatica a segarla piano, strusciando la lama su e giù per un’infinità di tempo. La stoffa cede: è libera.
Il ramo davanti agli occhi la minaccia. Lei afferra la maniglia.
Gesù, Maria, apriti.
La portiera si spalanca e sbatte contro il tronco dell’albero. Lei sorride. Fa forza sulla gamba destra per sollevarla. Improvvisamente le viene da pensare alla spina dorsale, al bacino e a tutte quelle ossa che possono restare rotte per sempre.
Gesù, Maria, no. Ti prego no, ti prego, fammi alzare.
Non funziona, non ci riesce. Allunga le mani e si tocca le cosce, tremando: c’è qualcosa che la blocca.
È un ramo più piccolo.
Ride. Con tutta la forza che le rimane lo solleva, tira su la gamba e la butta di lato, fuori dalla macchina. Prima di girarsi, butta un’altra occhiata a Carlo: è sempre immobile.

Fa freddo e lo sa perché batte i denti. La strada è buia e non passa nessuno.
«Ci siamo persi» dice, massaggiandosi le braccia.
Ma no, ha detto Carlo prima, accendendosi la pipa. È solo un po’ di campagna.
Lei gira attorno alla macchina, passando dal lato di lui.
«Preferirei che non lo facessi» dice. «Appesti tutto di fumo.»
Nel buio si intravede il cofano bianco accartocciato sull’albero, ferito anche lui, proprio in mezzo al tronco. Lei pensa a quando hanno comprato la macchina, tredici anni fa, al tizio che gliel’ha venduta e a sua madre che le smacchia la tovaglia dopo la sua festa di laurea.
«Vino» ripete ad alta voce, non sa perché. La macchina, l’albero e la terra si muovono e non riesce a fermarli. La strada è scomparsa.
Bufale, ha detto lui alla fine della curva. Visto che belle?
«Guarda la strada» ripete lei adesso. Si allontana dalla macchina; sente l’albero che la fissa e capisce che è ancora vivo e che la ucciderà se non va via, come ha ucciso Carlo. Comincia a correre. E prima perde una scarpa, poi anche l’altra e non se ne accorge finché le forze non l’abbandonano di colpo e cade nell’erba. Piante velenose le pungono la faccia.
Fammi sentire, ha detto lui, alzando il volume della radio. Lascia qui.
«Basta, basta» dice lei adesso. Sta piangendo. Nelle orecchie sente uno stridio lungo, continuo. Cicale, a migliaia. E friniscono: un frrrronte di arrria calda causssserà precipitazzzzioni abbondanti sul ressssto della penissssola.
«Basta, basta.» Si tappa le orecchie. Eppure lo sente lo stesso.
Li ammazzano come le bestie. Prima gli fanno buttare il sangue in campagna e poi li ammazzano, ha detto, e ha fatto cadere la cenere accanto al suo sedile.
Smettila, pensa lei. «Smettila!» grida. Ma lui non l’ascolta. E nemmeno le cicale.
I fatti di Rosarrrrrrno vanno letti in chiave episssssodica? E Cassstelvolturrrrno allorrra? È la camorrra a dettarre legge in quesssto Paessse?
Le cicale si avvicinano e sono tutte nelle sue orecchie e non ce la fa a cacciarle via. E alcune sibilano e altre friniscono e lui ha continuato a fumare e ha detto: È una guerra. È una malattia.
E le cicale tutte insieme hanno iniziato a ripetere che è una guerra, una malattia, ed è inutile torcersi le orecchie, strapparle, fa solo male.
«No» dice lei «smettila, ti prego smettila.»
E loro smettono.
Lei riapre gli occhi e abbassa le mani.
Ecco, ho spento la radio. Contenta? ha detto lui. E lei ricomincia a piangere.

La macchina non la vede più. Cammina nel prato, sente l’erba bagnata sotto i piedi. Sono le precipitazioni, pensa. È un fronte d’aria calda che viene dal nord e il resto della penisola non può farci niente.
D’un tratto è sola al mondo e niente esiste più perché intorno a lei c’è solo erba e aria. E un fronte caldo che le attraversa.
«Non è vero» risponde. «Non esistono.»
Lui ha riso. Perché no?
«Perché no» dice lei. «Perché no.» Lo ripete perché ha voglia di sentire la sua voce che le risponde e vuole avere ragione.
Magari vanno e vengono sulle loro astronavi, per questo nessuno li ha visti. Cioè pochi li hanno visti, ha fatto lui, sterzando per evitare un fosso.
Lei fa no con la testa. «È assurdo.»
O forse vivono qua, ha detto lui e ha sorriso. Forse hai sposato un alieno.
Forse, pensa lei adesso. Cammina, anche se non sa dove sta andando. È tutto uguale al buio, lei stessa è come l’erba che calpesta. Eppure qualcosa si vede laggiù in fondo: una casa o un paese. Carlo lo salveranno appena in tempo e sarà un dottore a dirlo, abbiamo fatto appena in tempo, con la faccia seria.
Comincia a correre e passa dall’erba alla terra, che si infila tra le dita dei piedi, si attacca alle piante, le ricorda che è scalza e che corre al buio su tane di talpe e serpenti, sul concime e le ortiche. Ed è vicina ormai, manca poco, non vale la pena fermarsi, riprendere fiato, non serve. Piano piano le ombre prendono forma nel buio ed è quasi arrivata quando li vede e si blocca.
Davanti a lei, in fila, uno stuolo di assassini sull’attenti.
Fa un passo indietro, due, ma non gli volta le spalle. Sono tutti uguali gli alberi: stanno fermi, immobili, e ti aspettano.
Penso che mi piacerebbe, sai? Perché no?
Lei trema ma non gli risponde.
Venitemi a prendere! ha scherzato Carlo e poi ha riso. Peggio degli uomini non possono essere.
Lei trema.
E lui ha detto: Eh, Olga? Tu che dici? Olga?
E lei urla.

«Signo’? Signora? Porca miseria.»
Apre gli occhi e vede un uomo.
«Carlo.»
«Signo’? State bene? Mi sentite?»
Non è Carlo. È più giovane: avrà quarant’anni, un viso scavato e labbra screpolate che lo fanno sembrare brutto. Ma ha sopracciglia folte sopra due occhi verdi e le braccia che la sollevano sono forti e muscolose: un contadino.
«Come vi sentite?»
Apre la bocca ma non sa rispondere. Dice il suo nome.
Lui la guarda incerto, non sa se lasciarla andare. Lei si scosta. Vede gli alberi alle sue spalle e si gira, respirando forte.
«Come state qua a quest’ora?»
Lei trema. Non capisce bene cosa dice questo tizio. Le cicale, quelle le ha capite subito.
Il contadino scalcia come un cavallo e sospira forte, guardandosi intorno dappertutto. Fa domande, una dopo l’altra. Lei non risponde.
«Che cazzo!» dice lui. «Che cazzo! Mannaggia a me!»
Fa paura perché si prende a schiaffi in testa e poi l’afferra e urla ancora. Se ci fosse Carlo non avrebbe paura e l’uomo non urlerebbe.
«Mi sentite?» chiede l’uomo.
«Sì» dice lei.
«Non potete stare qua. Ve ne dovete andare.»
Lei lo guarda ma non dice niente.
«Camminate» dice lui, e la spinge verso gli alberi. Lei lancia un urlo.
«Shhh!» dice lui. «Ma che c’è? Che vi piglia?»
Lei non smette di gridare e lui subito dice: «Vabbuò, vabbuò: state qua. Mannaggia a me!».
Lei si calma, chiude la bocca. Il contadino la fa sedere a terra e poi si accende una sigaretta. «Aspettate» dice, poi si avvia verso gli alberi e lei lo guarda andare senza muoversi. Forse gli alberi lo ammazzano, fanno così.
E invece torna, gli vede il puntino rosso della sigaretta che si avvicina nel buio e sale su e giù mentre lui cammina e la cenere infiammata quasi le cade addosso mentre lui si abbassa accanto a lei e la fa bere dalla sua borraccia.
«E mò?» dice lui. Butta la sigaretta e scuote la testa. «Mannaggia a me!»

Aspettano. Il contadino ha rinunciato a parlarle e lei si è quasi del tutto addormentata. La sveglia una luce, due, che arrivano da dietro gli alberi. L’uomo si alza in piedi, si copre gli occhi con una mano e stende il braccio in avanti.
È un furgone che arriva e quasi lo investe.
Lei si fa più piccola per sfuggire alla luce dei fanali ma non ci riesce del tutto: deve chiudere gli occhi per non farsi accecare. Dalla macchina scendono due grossi stivali che affondano nella terra umida. Lei li guarda andare incontro al contadino. Sente delle parole ma non le capisce, neanche così, messe in fila una dopo l’altra per avere un certo senso. Non le importa comunque: se chiude gli occhi è sicura che si addormenterà. Ci riesce quasi subito, ma gli stivali vengono verso di lei e la minacciano. Il contadino però li allontana.
«Ormai sta qua!» dice e le si mette davanti.
L’uomo con gli stivali bestemmia forte e lei alza gli occhi per guardarlo: è grosso di petto e di braccia e ha lunghi baffi neri che gli coprono le guance. Le viene da ridere perché è buffo, ma lui bestemmia di nuovo, più forte, perciò si trattiene.
«E che fa? Che fa? ‘Sta scimunita, non capisce niente» dice il contadino. «Ce la portiamo appresso, poi ci penso io.» Fa bene a dire così, pensa lei. Le piace il contadino. È buffo pure lui adesso, mentre si pianta le mani in petto e fa su e giù con la testa.
L’uomo coi baffi torna sul furgone e sbatte la portiera. Le luci si accendono.
«Andiamo» dice il contadino e la tira su. Lei cerca di resistere, dice «Smettila, smettila», ma un passo alla volta lui la trascina sul furgone e la butta sul sedile accanto al conducente. La botta le fa spalancare gli occhi.
«Scusate» dice il contadino prima di sedersi, ma lei non lo sente perché dorme già.

Dondola. Lei, il furgone, la campagna che si vede dal parabrezza. Sembra di stare in mezzo al mare, quando si passa lo stretto, di notte, nel punto più profondo, se c’è un po’ di vento e qualcuno dei marinai dice: «Si balla».
Fa forza sulle gambe e si avvicina al finestrino alla sua destra. Due ombre stanno dietro al furgone e si piegano e rialzano insieme, scaricando grandi barili scuri. Le guarda e un po’ alla volta, i contorni si fanno più chiari nel buio e disegnano le sagome del contadino e dell’uomo coi baffi.
Eh Olga, tu che dici? Olga?
Se lo sente nelle orecchie il suo nome come una cantilena che non finisce. Non sa che fare perciò urla, con le mani sulle orecchie. La portiera si spalanca ed è il contadino che le prende le braccia, grida «Shhh! Che c’è? Che c’è?». Lei non lo sa e continua a urlare, così lui sale sul furgone, la tiene stretta e con una mano accende la luce.
«L’ho accesa. Contenta?»
Lei smette.
«State tranquilla, mò ce ne andiamo. Un altro po’, lo giuro. Poi vi porto in ospedale. Vabbuò?»
Lei fa di sì, zitta. Lui scende dal furgone ma rimane vicino alla portiera e non la chiude. «State calma che va tutto bene. Mò finiamo presto presto.»
Lei lo guarda mentre raggiunge il retro del furgone e alza le mani davanti all’uomo coi baffi che sta urlando anche se lei non capisce cosa. Ce l’ha con lei però, questo lo sa. E il contadino la difende, perché in realtà il contadino è Carlo. Naturalmente.

Aspetta buona, senza muoversi, mentre l’uomo coi baffi e Carlo scaricano il furgone. A un tratto sente di nuovo le cicale e la portiera si apre.
«Come vi sentite?» Carlo si siede accanto a lei. È strano questo fatto che si è cambiato gli occhi. Rimangono in silenzio nel furgone mentre l’uomo coi baffi ci passeggia davanti, parlando a bassa voce nel cellulare.
«Mannaggia a me» dice Carlo e si passa le mani sulla faccia. Poi si accende una sigaretta. Preferirei che non lo facessi, pensa lei.
«Lo vedete qua? No vabbuò, mò è notte. Ma di giorno ti pare di sta’ in America co’ le praterie, i pascoli…», fa segno con la mano davanti a loro. «Mio padre c’è morto qua in mezzo. Co’ le bestie.» Lei fa sì con la testa pensando agli alberi sparsi intorno. «E mò più niente. Più niente.»
Stanno zitti mentre l’uomo coi baffi va avanti e indietro.
«Dici: vendi tutto. Ma che? Due soldi ti danno, se ti va bene, signo’. Oggi la terra ci vale più di sotto che di sopra. Mannaggia a me!» Finisce la sigaretta e la butta dal finestrino. Sta zitto per un po’, poi dice: «Come ai morti ci vale, la terra: più sotto che sopra».
«Preferirei che non lo facessi» dice lei.
Lui la guarda.
L’uomo coi baffi bussa sul cofano: ha finito. Il contadino alza le spalle e apre la portiera. «Carlo» lo chiama lei.
Lui si gira e fa no con la testa. «Nicola» dice.

Fa freddo perché trema ancora. Si passa le mani sulla faccia e sulle braccia ma non riesce a scaldarsi. Cerca il climatizzatore accanto al cruscotto e trova la radio; l’accende cercando calore e trova le voci. Di nuovo.
Un fronte di aria calda causerà precipitazioni abbondanti sul resto della penisola, dicono, mentre una pubblicità reclamizza un detersivo. I fatti di Rosarno vanno letti in chiave episodica? E Castelvolturno, allora? È la camorra a dettare legge in questo Paese?
Deve scendere. Spalanca la portiera e si butta fuori dal furgone: si regge alla maniglia per non cadere. C’è il buio tutto attorno. E più freddo.
Chiude la portiera e fa qualche passo. Intorno c’è la campagna, solo che è nera e non si vede.
Si vede Nicola invece e l’uomo coi baffi: hanno delle maschere bianche attaccate alla bocca e stanno sollevando un barile, portandolo via dal mucchio degli altri. Si muovono lentamente come se stessero imitando il passo di uno strano animale. Un poco alla volta indietreggiano nel buio e perdono le gambe. Lei chiude e riapre gli occhi perché non ci crede, eppure è vero: Nicola e l’uomo coi baffi non hanno più le gambe.
Vanno e vengono, per questo nessuno li ha visti.
Lei si avvicina, con cautela. È affascinata: capiterà solo a lei, come a pochi, di vederli da vicino. Nicola alza gli occhi e la vede. «Signo’!» urla, mollando il barile. Poi fa un salto, correndole incontro. Lei ha appena il tempo di notare che gli sono rispuntate le gambe che sente l’uomo coi baffi gridare una bestemmia più pesante delle altre, perché Nicola, uscendo dal fosso, gli ha buttato il barile addosso e lui ha perso l’equilibrio, è caduto.
«Mannaggia a me!» grida Nicola.
Con tutta la forza che ha, l’uomo coi baffi solleva il bidone e glielo spinge sui piedi. Il barile rotola e perde una scia gialla, pastosa.
Nicola ci gira a largo, poi allunga le braccia e tira fuori l’uomo coi baffi dal fosso.
Lei li guarda, immobile, mentre si afferrano alla gola, si spingono.
Peggio degli uomini non possono essere.
Nicola fa uno scatto e corre verso di lei; alza un braccio proprio mentre l’uomo coi baffi lo piglia per la camicia, lo sbatte avanti e indietro, gli urla parole che lei non capisce. Ma il braccio alzato, quello lo capisce abbastanza perciò comincia a correre e più si allontana più respira.
Corre finché ha la forza, buttandosi erba e terra alle spalle con i piedi, rischiando di cadere senza farlo mai davvero. Si muove veloce, a casaccio, e quando non ce la fa più si mette a camminare, mormorando qualcosa che non le arriva alle orecchie e che forse non la riguarda.
È bello camminare sotto questo cielo che potrebbe non esserci. Le piace, anche se fa freddo e i piedi non li sente più. Potrebbe andare avanti per sempre.
È solo un po’ di campagna, ha detto lui. E invece ce n’è tanta, tantissima, anche se non si vede. Quello che si vede perché spicca è una macchia bianca, accartocciata all’orizzonte. Decide che deve raggiungerla e non importa se quello è un tuono o se c’è un albero nei paraggi. Aveva una casa sull’albero quando era piccola. O l’ha vista in un film.
Mormora e cammina ed è così che ci arriva: la macchia è un’automobile incastrata in un albero. Lei la guarda e non saprebbe indovinare cosa c’era prima: l’albero? L’auto?
Ci gira intorno parlando sottovoce, senza fermarsi, e si accorge che dentro c’è un uomo: è appoggiato al volante ed è tutto macchiato di rosso. È un peccato: il vino non si toglie.
Lei vorrebbe svegliarlo, dirgli qualcosa, ma quest’uomo non lo conosce e non saprebbe che dire. Così si appoggia alla portiera e continua a ripetere: «Venitemi a prendere, venitemi a prendere». Quando il freddo diventa troppo intenso cerca l’altra portiera e si accomoda sul sedile vuoto. Le sembra di vedere una luce debole che sale dall’orizzonte ma non ci fa troppo caso: se chiude gli occhi è sicura che si addormenterà.

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