«Lì le mani le metto io, qui è casa mia.»
Bisogna lasciar fare ché poi cambia umore, basta non dirle niente, io torno sui libri e sono subito in difficoltà, la testa tra le mani e allora lei subito a dirmi: «Su, coraggio, molla tutto almeno per oggi – adesso ride – tanto prima o poi imparerai a fregartene di ogni cosa, se non vuoi farti prendere il cervello, o ancora peggio… il cazzo».
Ma che fa Sandro, perché non torna?
Faccio per andarmene, sulla porta la ringrazio. Poi mi dico no, aspetto che torna Sandro.
Lei cambia sguardo. «Vattene via» urla.
Ci capito spesso qui. Delle volte ci sono rimasto a dormire anche due tre notti di fila, per via delle mie periodiche fughe da casa e poi con Sandro è dal primo anno delle superiori che studiamo assieme, e lei è per me una seconda madre. Una madre.
Lei mi racconta della propria di madre, «Chi ha babbo e mamma non pianga, è diverso andar di là e trovarla nel letto, che trovarci il letto vuoto. Adesso ha novantatre anni, è all’ospedale, ha una piaga dietro la schiena. Probabilmente a stare sulla sedia a rotelle con il caldo di quest’estate… stanno morendo come mosche i vecchi, speriamo in grazia di Dio».
«Posso avere un bicchier d’acqua?»
«Sì, ma per favore esci dalla cucina.»
Lei arriva con l’acqua. Io sono vicino alla credenza.
«Lo prendo io il bicchiere, non occorre…»
«No, se permetti lì le mani le metto io, qui è casa mia.»
La lascio fare.
«Ce l’ho il tuo telefono? No. Me lo puoi lasciare? Voglio poterti chiamare. Posso chiamarti, vero?»
Eccolo Sandro, se Dio vuole, era sceso giù al bar a prendere qualche birra fresca, «Mamma, ne vuoi un bicchiere pure te?».
«Grazie.»
Poi la versa a me, «Quanti canti abbiamo ripassato oggi?».
«Tre» faccio io.
«Se tiravamo un po’ via ne facevamo anche cinque ma con te non c’è verso.»
«Dante o si ama o si odia» fa sua madre.
Lui non la sente, «Facciamo basta per oggi».
Sua madre che beve la birra, guarda davanti a sé. Sandro attacca a parlare delle vacanze dopo la maturità e io lo ascolto come parlasse da un sogno, dall’attesa delle vacanze.
«Sì, facciamo basta.»
A volte a sua madre le chiediamo spiegazioni per il latino, lei ce l’ha ancora tutto in testa il latino, anche se è già un bel pezzo che non insegna più, è andata in pensione per via di un esaurimento, ogni tanto ci racconta degli ultimi anni a scuola, degli studenti che le volevano bene e che le erano vicini e di quelli che s’approfittavano della sua condizione, «Chi mi voleva bene e chi s’approfittava». Una volta uno studente stava per spengerle una sigaretta sulla faccia, era arrivato subito il babbo di Sandro, anche lui insegnante in quella scuola, «Era corso a vedere, gli pareva di sentire più confusione del normale, il normale era la confusione, negli ultimi tempi non avevo più il controllo sugli studenti, su nulla, lasciavo correre tutto… non m’accorgevo, anche della sigaretta che avevo davanti agl’occhi… non m’ero accorta… me l’hanno raccontato in infermeria, c’era il preside, il preside mi voleva bene, m’ha voluto bene e sono ancora viva».
«Io vado un attimo di là da Damiano» fa Sandro. Oggi c’è anche il suo fratellino, ha l’influenza, di solito quando finisce la scuola c’è il pulmino che lo porta in una comunità dove trascorre la giornata.
Alla sera il babbo di Sandro passa a riprenderlo per riportarlo a casa. Questa cosa andrà avanti finché sua madre non starà meglio. Finché il medico non dirà che sta meglio.
Lei mi racconta quello che racconta al medico, «Al medico gli dico: “Molte donne, per non ammattire, finiscono che diventano le puttane del marito, poi piangono in bagno, altrimenti il marito se ne va a puttane e l’abbozza d’infastidire la moglie per scopare. Altri mariti, che non vogliono tradire perché sentono la pressione della morale, si masturbano. Casomai alcuni poi vanno pure a confessarsi. È che quando due decidono di sposarsi, prima di andare dal prete dovrebbero andare dal medico. Ci vanno dopo, a cose fatte”. Al medico gli dico che per lui non cambia niente, prima o dopo fa lo stesso, io lo dico per i due che si devono sposare. Al medico gli chiedo: “Cosa resta a queste donne rispetto a me… la cosiddetta salute mentale?”».
Lei ora c’ha questa fissa che il marito la tradisca. Durante le ultime visite, al medico gli chiede sempre se le può raccontare ancora una volta di quel suo paziente, un professionista sposato con due bambini, che gli si era rotto il preservativo con una puttana.
La mamma di Sandro dice: «Oddio, più che la paura dell’aids… c’era andato per confidarsi».
Il medico glielo racconta ogni volta, che quel paziente aveva paura di aver beccato l’aids e che, più che altro, era venuto per confidarsi. Guardiamo, gl’ha detto il medico, e te per ora non scopare con tua moglie, se no… attenzione!
«Attenzione! Attenzione!» mi urla la mamma di Sandro, io la lascio gridare e raggiungo Sandro in camera, da Damiano.
Ai piedi del letto ci sono diversi giornalini, più che altro Topolino, qualche Zagor, tutti gli altri non li conosco.
Il fratellino di Sandro è seduto sul letto, in pigiama, «Ehi ciao, lo sai che ci sono un sacco di modi per dire HUCKLEBERRY FINN, dimmi un po’ chi è questo che dice HUCKLEBERRY FINN». Si mette a fare dei versi, come se avesse un tic a un occhio, «HU… HU-HU… HUCKLE… HUCKLEBERRY… FINN».
Sorridiamo.
«Allora me lo dici chi era?» fa Damiano.
«C’arrendiamo» dico io.
«Era Adriano Celentano che diceva HUCKLEBERRY FINN.» Quindi si mette sdraiato sul ventre e prende a strisciare sul letto, avanzando sui gomiti, «HUCKLEBERRY FINN, HUCKLEBERRY FINN – dice e insieme fa il rumore di una mitraglia – rat-ta-ta-ta-ta, HUCKLEBERRY FINN! HUCKLEBERRY FINN! Vedete, questo è un soldato che dice HUCKLEBERRY FINN».
«Questo l’avrei indovinato.»
«Ecco, lui!» fa Sandro.
«Ehi, lo so che l’avresti indovinato pure te.»
«No no, io non l’avrei indovinato.»
«Ehi, guarda questo!» Damiano prende uno scheletro di quelli di gomma fosforescenti, lo tiene nel palmo della mano, lo guarda fisso, l’espressione seria, il braccio disteso. «HUCKLEBERRY… FINN? Ecco! Questo era il principe Amleto che diceva HUCKLEBERRY FINN.»
«Avresti indovinato pure questo!»
«Ehi, vedi che stiamo imparando!»
Adesso il bambino c’ha in mano un libro preso dal comodino, «Indovina un po’ questo».
«Ok, però mi aiuta anche tuo fratello.»
«No, non può, è lui che me li ha insegnati. Forza! Indovina!» Avvicina la faccia al libro, comincia a soffiarci sopra, soffia sul titolo dall’inizio alla fine. «Allora? Dimmi cos’è.»
«Questo proprio non lo so» mi giro e guardo Sandro.
«Il vento – fa Damiano – è il vento che legge HUCKLEBERRY FINN.»
Noi lo salutiamo e ce ne andiamo in cucina a prenderci da bere.
«Quella del vento mi è piaciuta.»
«Che gli vuoi dire a un bambino.»
La mamma di Sandro, Damiano voleva portarlo dal suo medico, «Il medico dovrebbe saper curare la madre e il figlio, il vecchio e il bambino. Dovrebbe affilarsi la testa come uno strumento chirurgico ma in quei termini lì, madre-figlio vecchio-bambino. È l’unico modo per ottenere qualcosa e fronteggiare qualunque problema gli si presenti. La capisco la specializzazione, è chiaro che ha da esserci e anche esasperata, ma non è una contraddizione quello che dico. Già il pediatra, già il pediatra per me è come un veterinario, solo che la bestia a dieci-quindici anni muore, l’uomo no. E per il pediatra da lì in poi è buio completo. Ma è medico, pensano tutti, lo sa cosa c’è da lì in poi, certo, ma più che va avanti, che fa il pediatra, quotidianamente, il quotidiano dell’ambulatorio pediatrico, le bizze il moccio la tosse, più che diventa pediatra più che si fa buio da quei dieci-quindici anni in poi e più che diventa un ingranaggio, e anche ben oliato e perfettamente funzionante, nel sistema sanità. E i bambini guariscono lo stesso, la maggioranza. Guariscono malgrado il pediatra».
«Il medico annuisce quando gli dico così ma preferisce che Damiano lo porti dal pediatra, poi mi dice che gli faccio venire in mente una donna che conosce. Dev’essere un’altra sua paziente, lui dice che a differenza di me non ha figli, non ha potuto averne. Te ci vai in centro, io non vado più in nessun posto, i muri sono tappezzati di manifesti con su scritto: Il tuo bambino più sano più bello. E ci sono donne che non possono avere figli. Una disgrazia. Non potere avere figli. La peggiore. Le donne che non possono avere figli sono le peggiori. Lo stato gli dà i soldi per il medico invece di dargli un figlio. Io la vedo quella che mi somiglia, davanti a uno di quei manifesti che ti dicevo, far dei freghi sul bambino del manifesto e scriverci oscenità. Se arriva la polizia, mentre è lì che imbratta, si lascia portar via senza protestare, d’altronde l’ha fatto perché venisse la polizia per portarla via, dalla sua disgrazia. La peggiore.»
«I giorni che trascorri in questa casa e i giorni che non ci sei, senza poterti telefonare. Ora che ti sei seduto, che ti sei seduto su questa sedia, ho paura che mio figlio non si possa più sedere. La sento così questa casa, non più come una casa, staccata, come un luogo di ritrovo dove se uno occupa una sedia l’altro sta in piedi.»
Il babbo di Sandro la mattina insegna ai geometri, il pomeriggio e la sera in altre scuole private, più le ripetizioni che dà. Gli avanza un po’ di tempo per rifiatare. Sandro dice sempre: «Magari avesse il tempo per metter due corna alla mamma, casomai sarebbe meno incazzoso quei tre minuti che sta a casa».
Una sera la mia di madre mi dice: «Ha telefonato la mamma di quel tuo amico».
«E te l’hai lasciata parlare e poi hai riappeso, vero?» Erano le istruzioni che le avevo dato, dopo averla avvisata di una possibile telefonata di quel genere.
«No, mi ha detto delle cose molto belle. Mi ha detto che era commossa perché te le avevi fatto un regalo, un libro con su scritto la dedica alla mia seconda mamma. Poi ha detto che i suoi figli sono dei delinquenti…»
Gliel’ho regalato tre anni fa quel libro, di figli in età da delinquente ce n’ha uno solo.
«… che non gliene frega niente delle madri ai figli, che quindi bisogna fregarsene dei figli. Che anch’io devo fregarmene di te. Io le ho detto che aveva ragione e lei m’ha interrotto subito, “Brava! Hai capito, ciao”. E ha riattaccato.»
È da un po’ che non vedo Sandro, che son passate le vacanze dopo la maturità, era giusto da allora che non lo vedevo né sentivo. Al telefono ha detto, ma sì vediamoci, che veniva a prendermi in stazione e io sono già qui in stazione che mi guardo intorno.
Oggi c’è un gran vento, è ancora giorno ma non c’è nessuno in giro, ai giardini niente mamme coi passeggini o nonni coi nipoti o i soliti dementi con le mani in mano, solo un nano a dar da mangiare ai piccioni e poco più in là tre puttane, sedute su una panchina, che non fanno altro che togliersi i capelli dagli occhi. Una donna esce dalla stazione, mi si avvicina sorridendo, vuole attaccar discorso, «Oggi sembra lunedì». Come mai? Mi trattengo dal chiederglielo. Come mai a certe ore, in stazione, ci trovi solo di questa gente che non c’è verso di mettere insieme due frasi senza passare da mezzo scemo pure te?
«È per via della festa, è per quello, non le pare?»
Annuisco, sperando l’abbozzi presto.
«Ma arriverà l’estate?»
Nel frattempo il nano ha allargato le braccia e se ne sta lì, come un crocefisso, mi sembra guardi verso di me e sorrida, le mani a cucchiaio piene di molliche di pane e i piccioni sono tutti per lui. Che soddisfazione! Mi fa quasi rabbia. Casomai conosce questa sconclusionata e se la ride che m’ha accalappiato. Certo che arriverà l’estate, e il solleone squaglierà tutti i nani sbruffoni! Tieniti pure i tuoi piccioni che io questa tra poco me la scrollo di dosso. Ma quando arriva Sandro?
«Lei è proprio di Prato?»
«Sì – mi decido ad aprir bocca – però adesso abito in vallata.»
«Che cos’è la vallata?»
Faccio per indicarle in direzione del fiume, ma lei: «Io sono napoletana».
«È tanto che vive qui?»
«Una vita. Ci sono venuta con mio marito che purtroppo è morto giovane, la mattina non si è svegliato.»
«… non ha sofferto.»
«Niente.»
«Meglio così.»
«Non per chi rimane. Senza preavviso, non ho mangiato per due anni.»
«È sola adesso?»
«Sì, sono sola. I figli, per fortuna ho i figli. Non vivono più in casa però… me lo ricordo benissimo quand’erano bambini, così bene che se vedo un bambino posso indovinare quanti anni ha. Quel bambino laggiù, ai giardini, lo vede?»
Guardo verso il nano e provo a fiutare l’aria e sentire l’odore della stazione, del nanismo, delle puttane, del dolore di questa donna, provo a fiutarlo come lei può indovinare l’età di un nano scambiato per bambino. Il vento non mi porta nessun odore, tranne un clacson fastidioso che si fa sempre più vicino, sono io che non so sentirlo il vento, mi ritrovo i capelli sulla faccia e non fo altro che scostarmeli di sugli occhi e liberare lo sguardo: eccolo Sandro! Con la macchina di suo padre, e risuona, non l’avessi sentito.
«Oh! Che suoni! T’ho visto! Dov’è che andiamo?»
«Domenica c’ho una cosa, mi serve una camicia nuova.»
«Domenica c’hai cosa? Un matrimonio?»
«Dai, monta.»
Io monto ma andare in centro è tutta una coda che si fa prima a piedi.
«Io a piedi non vado più nemmeno in stazione – fa Sandro – chi era quella donna?»
«Chi la conosce… oh! Non sarai mica te che ti sposi?»
«Ma che dici, è un mio compagno d’ingegneria, ha messo incinta la ragazza e si sposa.»
«Senti che ingegnere bravo.»
«Io glielo auguro di diventare ingegnere… ma con questa faccenda dello sposarsi, dell’avere un figlio, mi sa gli tocca mollare e trovarsi un lavoro. Peccato, era uno sveglio.»
«Se ha bisogno di uno che lo sostituisca in facoltà per un due tre anni, finché lui mette da parte qualche soldo e il bambino è già più grande, io son qui.»
«Domani glielo dico. Grazie del pensiero.»
«Figurati.»
Il primo semaforo che incontriamo, rosso, la nostra macchina è bell’e in coda. È così fino in centro, che avevo detto. Ai semafori ci sono delle ragazze con dei volantini. Sandro se le sorbisce tutte, ascolta e non ascolta, dice che ha già fatto in un’altra occasione l’offerta che gli chiedono, le ragazze si sentono dire così e lasciano perdere.
«Te mi credi che l’ho già dati i soldi?»
«Ma per cos’è che te li chiedono?»
«Pensa te che io l’altra volta credevo mi parlassero di un cane cieco.»
«Ci saranno anche loro» penso ad alta voce.
«Merda d’un semaforo!» Becchiamo un altro rosso.
«Cane e cieco, bel casino.»
«Eh sì.»
«Volete fare un’offerta per comprare un cane a un ragazzo cieco?» Un’ altra ragazza. Sandro si fruga in tasca e le dà qualcosa.
«Mi fa piacere rivederti» mi dice come ci rimettiamo in moto.
«Bene, pure a me. Te pensa l’altro giorno ero vicino casa tua e mi dicevo, ora provo a suonare da Sandro. Vabbe’…»
«Dovevi suonare, se non c’ero io c’era mia madre. Te passa che le fa piacere. È un po’ di tempo che si trascina una bronchite e poi qualche mese fa è morta la nonna, io e il babbo in casa ci stiamo poco…»
«Uno di questi giorni ci capito, sicuro, non trovo te trovo lei… e i gatti, come ai bei tempi.»
«No, peggio. T’avviso, la casa è diventata un ostello per gatti.»
«Ce n’erano anche prima.»
«Sì, ma se ne stavano fuori, c’avevano il loro mangiare fuor di casa, non te l’immagini la puzza che fanno tutti quei gatti ad averli dentro. Ho perso pure il conto di quanti sono.»
«Te lo ricordi quando trovammo quello mezzo morto davanti casa?»
«Me lo ricordo, che lo portammo al centro di scienze naturali.»
«Ne trovo uno di questi di adesso mezzo morto, mi sa che non la rifò tutta quella trafila. Oh meno male, eccoci arrivati.»
«Meno male.»
«Che fai m’accompagni?»
«Ti ci vuole sempre una vita a te per negozi?»
«Sì.»
«Allora ti raggiungo tra un po’, faccio prima un giro per il centro.»
Oggi sono passato vicino a casa di Sandro, mi sono fermato e ho provato a suonare. Sandro non c’era, c’era solo sua madre, era caldo, ho fatto per baciarla sulle guance, «Per carità… ho la tigna – mi ha frenato – per via dei gatti».
L’ho seguita fino in cucina, «Come va?». Ho ripetuto la domanda, sovrappensiero, guardandomi intorno, ho passato tanto di quel tempo in questa casa, e fa sempre questo caldo, non si respira, e io e Sandro eravamo di là a studiare, e lei a portarci tutto quel caffè, Sandro sempre a lamentarsi che eravamo indietro coi programmi vale a dire tutti quei nomi le date, roba da matti, più tutta l’altra roba che oltre ad averla in testa era anche da capire, saperla spiegare… e le polpette che ci preparava di continuo, c’era sempre troppa maggiorana in quelle polpette. Parecchie finivano ai gatti.
«Come vuoi che vada. L’altro giorno pensavo a te, figurati, mi sei venuto in mente di una volta che ti eri seduto su di una vecchia sdraio e, qualche giorno dopo, si era rotta.»
«Come va – ho continuato a ripetere come in trance – come va.»
«L’avevo allora messa sul terrazzo e ci avevo sistemato una gattina ammalata, ero poi andata a prendere il giornale. Al ritorno avevo trovato la gattina morta. Da quel giorno non ho più comprato né una sdraio né un giornale: ha cominciato a farsi viva la tigna. L’altra gatta, appena ha trovato la gattina morta, ha preso a evitarmi, a girare lontana da me, per giorni, e ha continuato a portare delle piccole prede come topolini e lucertole per poi deporli dove stava la gattina. Io ho lasciato lì tutto, non ho tolto niente, fino a che non ha smesso di evitarmi, come avesse capito che non era colpa mia, di nessuno.»
Ha smesso di parlare. Guardo verso il soggiorno, il pavimento ingombro di ciotole con il latte l’acqua il mangiare per i gatti. Una volta mi ero addormentato sul divano, una pausa dallo studio, da poco avevo cominciato a sognare sogni dove la scuola era già quello che, di lì a breve, sarebbe diventata anche da sveglio. Avrei presto smesso con la scuola. La maturità, le vacanze subito dopo, qualche mese di università poi basta, qualche lavoretto poca roba, il servizio civile, gli ultimi tre quattro mesi con le mani in mano… rieccoci qua. Questo divano… mi svegliò Sandro. Mi alzai che ero un bagno di sudore. «Vieni a darmi una mano.» Era per un gatto, uno dei tanti che capitava qui a mangiare o a morire. Questo era in fin di vita. «È qualche mese che lo vedo qui a mangiare, dev’essere per questo che si è trascinato fin qui.»
«Ti sei deciso, è due giorni che è steso sullo zerbino in terrazza, che sbava e caca.»
«Dai andiamo, pochi discorsi visto che te n’eri accorto pure te.»
Provammo a portarlo al centro di scienze naturali, ma un vecchio lì fuori ci disse che non potevano prenderli i gatti. «Un si po-ooo-le noi.» Tornati in macchina Sandro gli faceva il verso e rideva male, «E fosse stato un fagiano o una lepre ma questo ‘un è né un fagiano né una lepre, sicuro! Oh! Me l’ha anche assicurato».
Io dissi che bisognava dirgli, grazie dell’informazione.
«Non fare lo spiritoso – mi fece Sandro tutto serio – è vero, non è né un fagiano né una lepre e qui si occupano di quelle bestie e non di altre.»
«Proviamo ai macelli, lì ci son sempre dei veterinari.»
Ai macelli un veterinario ci disse che era intossicato, il gatto messo su un tavolo tutto in tensione tutto inteccherito, c’era poco da fare. Gli fece due punture per aiutarlo a far presto e morire, il gatto disincastrò dalla gola un paio di miagolii e aveva bell’e fatto.
Il veterinario lo mise in un sacco di plastica e quindi in un frigo, voleva poi capire cos’era stato ad avvelenarlo. Noi facemmo cenno di sì, ma non c’interessava più di tanto sapere di che morte era morto. Su una scrivania una rivista che trattava dell’apparato riproduttore della gatta, veniva quasi da ridere.
«Adesso c’è da raccontarlo alla mamma – diceva Sandro mentre tornavamo a casa – la prenderà come al solito, non dirà niente. Da domani comincerà a dire che è stato il babbo, che l’ha avvelenato lui.»
«Chi l’avrà avvelenato?»
«E che ne so.»
I gatti cominciano ad arrivare, come fanno sempre i gatti.
«Lo sapevi che è morta mia madre?»
«Sì, Sandro m’ha detto…»
«Sapessi quanto mi manca ora che è morta. Mi manca tanto la mamma, tutti i giorni, ma lei non vorrebbe che me la prendessi, quando vado di là… non trovarcela…»
Di là, la stanza della nonna, come diceva Sandro, un letto la poltrona lo specchio, «Andiamo un attimo a trovare la nonna», la nonna sempre seduta in poltrona o sulla sedia a rotelle, «Ciao nonna», «Buonasera signora», «Ciao Alessandro, buonasera», poi la nonna che ci chiede, cosa fate di bello? Noi che rispondiamo, siamo a studiare e lei che dice, bravi. Fine della visita.
«Mi dispiace che è morta.»
«Lo so.»
Alle volte la nonna, oltre a dirci bravi ci diceva che anche sua figlia, alla nostra età, era così studiosa, e le dispiaceva per come stava, «L’avessi saputo avrei preferito morire, prima che vederla così».
Adesso che è morta questa frase è come la poltrona di là o la sedia a rotelle, e come il letto, lo specchio, i suoi vestiti, non le servono più. A me invece una frase così, un giorno o l’altro chi lo sa, potrebbe anche farmi comodo.
«Mio marito dice che da quella stanza ci verrebbe bene un altro bagno, e ne avremmo bisogno. Ora però vai, ciao.» Mi saluta veloce, mi dice di andar via, che ha fretta di dar da mangiare ai gatti.
Io non so cos’ho, come trattenuto, vorrei ancora restare e dirle qualcos’altro e mi viene solo, «Quante giornate passate qui, eh, e tutti i caffè e le polpette che ci ha preparato».
«C’era qualcosa che non andava anche in quelle polpette, ora non mi viene in mente cosa. Non andavano bene. Basta.»
Non mi vuole più tra i piedi, senza dir nulla sparisce in cucina a preparare per i gatti. Devo andare, faccio per affacciarmi e salutarla veloce, ma niente, lascio perdere. Me ne vado.