Prefazione (abbozzo n. 2)
Ho sempre trovato avvincente come una trama romanzesca il percorso umano e artistico del compositore russo Rafail Dvoinikov. Negli anni venti, egli si è fatto conoscere in Unione Sovietica come un nervoso distruttore di impalcature accademiche; si è presentato al mondo come uno scontroso antiborghese che, al pari di altre avanguardie di quegli anni, ma con risultati più convincenti e durevoli, ha denudato convenzioni, squinternato tradizioni, buttato all’aria istituzioni e maestri, scrivendo opere di un’offensiva modernità. In virtù di quest’opera di demolizione, beffarda quanto seria, è assurto a membro onorario del consesso di artisti che, in parallelo alla rivoluzione politica nel suo paese, avrebbero voluto rigenerare il mondo delle arti. Ma quando la rivoluzione politica si è adagiata – come spesso, o forse sempre, accade – in un ripensamento via via più cupo e oppressivo dei propri fondamenti, egli, con molti altri, si è trovato prigioniero proprio di quel ruolo di distruttore delle convenzioni borghesi che prima gli era stato attribuito come massimo merito e ora gli veniva rinfacciato come pericolosa deviazione. Sono seguiti anni di difficoltà, di stenti anche, e di pentimenti brucianti come umiliazioni. Dvoinikov, audace sul pentagramma, ha dovuto imparare l’arte di dissimulare il suo carattere, e fingere di essere un prudente esecutore di direttive altrui – senza riuscirvi mai, e in questo fallimento sta la grandezza della sua musica, che oggi possiamo leggere come uno dei massimi esempi di un’arte tanto prepotente da sfuggire allo stesso artefice.
La particolare condizione di Dvoinikov è comune a molti musicisti di varie epoche. In passato, i compositori di corte, vincolati a potenti committenti, sfornavano opere per ogni occasione e mangiavano al tavolo dei servitori, come dipendenti di rango inferiore. Nel Novecento, quando ormai la figura dell’artista e dell’intellettuale sembra essersi emancipata da qualunque genere di autorità, la fioritura di regimi totalitari riporta gli artisti nella stanza da pranzo dei servi – tutti, tranne quelli disposti ad assumere, in piena sintonia con i regimi, ruoli di responsabilità, fino a sporcarsene le mani, e quelli pronti a espatriare.
Dvoinikov non ha scelto il silenzio o l’esilio, come altri suoi colleghi; per umiltà e necessità, non per servilismo, si è inchinato dinanzi alla mediocrità minacciosa dei suoi giudici, e ha provato – senza davvero riuscirci, ripeto, e per nostra fortuna – a non essere originale. Le sue opere degli anni trenta e quaranta, ascoltate oggi, suonano lacerate tra il bisogno di compiacere, un bisogno perseguito con un superiore senso di artigianato, e un persistente, sofferente profluvio di irregolarità, ammicchi, ripiegamenti, urli e tenerezze, incongruità e scatti d’ira, che irrompono nella palude di retorica, tramutando l’accademismo su cui galleggiano in un cumulo sarcastico e potente di rovine.
Nonostante il rispetto generale di cui gode presso la critica più avvertita, Dvoinikov è sfuggito finora a ogni serio tentativo di analisi musicologica, se si eccettuano i contributi di Swantner e Auberson negli Stati Uniti, Moyzes in Germania e Jerkinov in Unione Sovietica, tutti a modo loro pionieristici, ma parziali e non esenti da abbagli.
Jerkinov, nel suo Panorama dei musicisti nel secolo del Comunismo, del 1957, è il primo a dare a Dvoinikov il posto che gli spetta accanto a Shostakovich, e al di sopra di rispettabili talenti come Glière, Kabalevsky e Khachaturian. La sua visione critica, ancora fortemente influenzata dallo zhdanovismo, che pure attacca a più riprese, non considera se non le opere dell’ufficialità, ignorando del tutto la produzione privata (clandestina, per meglio dire), per lo più cameristica, e prescindendo dalla stagione giovanile legata ai movimenti delle avanguardie.
Swantner, nel 1968, è il primo negli Stati Uniti a interessarsi alla figura di Rafail Dvoinikov (Un puro musicista, un musicista puro: Dvoinikov); però, pur con le intenzioni migliori, egli trasforma il suo soggetto in un eroe tragico, che titanicamente resiste alle imposizioni del regime e se ne fa beffe. Ne deriva una figura neoromantica e anzi quasi beatnik di ribelle individualista in una società oppressiva, in una ricostruzione suggestiva ma frutto di un fraintendimento culturale piuttosto naïf, che si può comprendere (non perdonare) solo considerando che Swantner ha avuto accesso unicamente alle opere della giovinezza, giunte fortunosamente in America.
Più documentato e prudente, ma pur sempre limitato, il lavoro di Auberson (Dvoinikov e Shostakovich: un confronto critico, 1974), tutto giocato, ahimè, sulla contrapposizione tra i due compositori, che il musicologo di Philadelphia, che ho avuto l’onore di avere come maestro e mentore qui alla Drexel University, risolve sempre a vantaggio del secondo. A guastare – lo scrivo con rammarico – la prospettiva critica di Auberson, oltre all’accostamento tra due grandi di grandezza diversa, è l’intento dichiaratamente polemico nei confronti di Swantner. Se questi ha esaltato la componente ribellistica di Dvoinikov, Auberson, in possesso di una documentazione più ampia, relativa anche alla lunga, triste stagione della soggezione ai principi del realismo socialista, ne sottolinea invece le rinunce, gli opportunismi, gli adeguamenti umilianti. Il risultato è un ritratto piuttosto desolante di Dvoinikov, come uomo oltre che come musicista – e, naturalmente, un’implicita attribuzione di imbecillità a Swantner, che a suo tempo non se ne è accorto1.
Lontano da ogni intento polemico, in isolamento anzi quasi totale, il tedesco Moyzes dà alle stampe nel 1979 il primo vero saggio monografico su Dvoinikov (Dvoinikov compositore di contrasti); è significativo il fatto che egli trascuri i contributi dei suoi predecessori, e non certo per ignoranza. Moyzes intende davvero proporre il primo serio studio su un «musicista la cui grandezza negletta, sbocciata in condizioni di spaventoso disagio, risalterà nelle sue reali dimensioni quando finalmente il mondo saprà di quali effettive condizioni si trattava». Nonostante questa tirata, assai goffa per la verità (ma Moyzes proprio in quegli anni aveva varcato il confine della Germania dell’Est, in circostanze alquanto avventurose), l’opera del tedesco è essenzialmente musicologica e comparativa, irta di tecnicismi e focalizzata sulle partiture, mentre l’uomo, cioè Dvoinikov, quasi non viene considerato. Non è un caso che Moyzes, che ha avuto accesso a un numero ragguardevole di musiche stampate e ha pure consultato abbozzi, revisioni e varianti, non abbia però mai guadagnato la fiducia del compositore russo, che dopo qualche contatto epistolare ha preferito rimanere in disparte.
Bene, come si nota la letteratura critica su Rafail Dvoinikov è superata e ormai inadeguata, alla luce delle più recenti acquisizioni. Egli ha continuato a comporre, con una libertà che non ha mai conosciuto prima, sia pure ad un ritmo meno intenso. È ora di rileggere l’evoluzione del suo stile, le fasi della sua produzione, con un’ottica non più sfocata dalla lontananza come quella di Auberson e Swantner, o dall’ideologia come quella di Jerkinov, o inficiata dall’accademismo e dalle discipline alla moda come quella di Moyzes.
Dvoinikov è un uomo dalla vita complessa e satura di avvenimenti, spesso non piacevoli, e una mente dai ragionamenti mai ovvi, mai lineari. Voglio dare testimonianza anche di questo, oltre che della intricata altezza delle sue composizioni, anche di quelle più controverse.
marzo 1996
Ethan Prescott
(…)
DAL DIARIO DI ETHAN PRESCOTT
12 marzo
«Dvoinikov?» mi scrive Edna. «Ha un mercato?»
Sono abituato alla laconicità delle sue mail. So che non vuole suonare definitiva, ma solo risparmiare tempo, e dunque le sue domande, all’apparenza negativamente scettiche, esprimono solo una perplessità che qualche buon argomento potrebbe smorzare.
«Dvoinikov è il più grande compositore russo vivente. Con Elliott Carter e pochi altri, il più grande compositore vivente e basta» rispondo.
«Davvero? Perché allora non ne sento mai parlare se non da te, caro?»
«Perché frequenti le persone sbagliate, cara.»
«Che vuoi fare, intervistarlo?»
«Intervistarlo, commentarlo, presentarlo al pubblico americano. Nessuno ci ha mai pensato prima.»
«E questo dovrebbe convincermi?»
«Dvoinikov è un pezzo importante di storia del Novecento. È come Shostakovich, ma ha il grande vantaggio di essere ancora vivo, anche se, temo, ancora per poco.»
«Procedi, allora. Ma considera se non sia meglio aspettare di pubblicare il tutto quando sarà morto. La notizia della morte suscita sempre un incremento di interesse.»
«Sei cinica.»
«Sono adorabilmente cinica, mi dicevi una volta. Che fine hanno fatto i tuoi avverbi?»
«L’interesse c’è già: quel vecchio maestro vive isolato in una dacia di famiglia, e non vuole nessuno attorno, se non una collaboratrice. È già un personaggio interessante, sul genere di Salinger, non credo si debba aspettare che muoia.»
«Io lo voglio morto.»
«Sei esasperante.»
«Adorabilmente esasperante, prego. Quando parti?»
«La prossima settimana. Sto via tre giorni, per ora. Poi tornerò a trovare Dvoinikov un altro paio di volte, o almeno fino a che non avrò materiale sufficiente.»
«Non speri che ti paghi io le trasferte, vero?»
«Ci sono i fondi dell’università per questo2. È una ricerca per i corsi della mia facoltà, oltre che per il libro che ti renderà ricca. Tutto l’anno accademico è dedicato a Dvoinikov: lezioni, conferenze, concerti… Io in Russia vado comunque, anche se tu non sei interessata. Troverò di sicuro un altro editore disposto a pubblicare il libro.»
«Capito. Ma quando torni ti devo parlare di un altro progetto.»
«Musica?»
«Musica, e che altro? Sei tu che ti credi uno scrittore, Ethan. Detesto i musicisti che scrivono parole. Sanno a malapena finire una frase, e già vogliono scrivere la storia della loro vita. E hanno solo trent’anni! Bene, mi sono sfogata. Buon viaggio, attento a non prenderti malattie.»
15 marzo
Quando Carl scopre che ho preso un biglietto aereo per San Pietroburgo – uno solo, e per me – comincia a tenermi il broncio come se glielo avessi nascosto.
«Me lo volevi tenere nascosto?» mi dice infatti, con la voce che già trema.
«Oh, andiamo. È un viaggio di studio, non di piacere.»
«Perché non me lo hai detto, allora?» Mi strappa il biglietto di mano, lo scorre con attenzione alla ricerca di qualcosa. «Ecco. Lo hai acquistato tre giorni fa. C’è la data, Ethan. Avevi tre giorni per dirmelo, oltre ai precedenti in cui avresti potuto comunque dirmi che te ne andavi senza di me.»
«Non credevo che la Russia ti interessasse, ecco tutto.»
«La scena jazz russa è incredibilmente interessante, per me, invece» argomenta. «E San Pietroburgo è straordinariamente vivace, da questo punto di vista, dicono. Non ci credo che non hai pensato di propormelo.» E poi, quasi sottovoce ma più aspro: «Ti importa così poco?»
È amabile – detto tra noi – quando si stizzisce per qualcosa. Per mio grande privilegio, il suo caratterino lo porta a stizzirsi spesso, il che me lo rende amabile molte volte alla settimana, spesso più di due volte al giorno.
«Incazzarti non serve a nulla» decido però di mentire. «E, Carl, non ti dona per niente.»
«Non sono incazzato. Voglio solo capire.»
«Bene, ti spiego. L’intervista a Dvoinikov non può procedere solo per lettera. Ho bisogno di parlargli, di vederlo, di sentirlo reagire. Devo registrare la sua voce, capisci? Come musicista, mi interessa moltissimo la sua voce.»
«Alibi fiacco» sibila. Poi si raddrizza la cravatta, che per la verità non mi pareva fuori posto.
«Torno in capo a una settimana, e che diavolo! L’editore mi sta addosso, lo sai com’è Edna, vuole che concluda. E devo scattare delle foto, e curiosare in mezzo alle sue carte – di Dvoinikov intendo, e…»
«Perché non usate internet?»
Ora si sistema il colletto della camicia candida, anch’essa impeccabile.
«Lui non sa nemmeno che cosa sia internet, e poi è quasi cieco, Carl! Deve pure farsi scrivere le lettere da una segretaria…»
«Le segretarie servono a quello, dopo tutto.»
«Insomma, io parto. Mi spiace, avrei dovuto dirtelo. Ma non cercare di farmi sentire in colpa, Carl. Carl?»
Di nuovo lo sguardo stizzito di prima, più di prima. In casi come questo, uno scatto di nervi lo può far piangere come un adolescente che si senta tradito. Lo trovo adorabile anche in tali circostanze, un grande, signorile, asciutto, elegante cinquantenne che piange – e piange per me, e piange in ultima analisi perché mi ama. Ma ora vorrei evitare ogni deriva sentimentale o melodrammatica.
«Voglio le tue scuse» sillaba dopo un po’.
«Le mie scuse?»
«Sì.»
«Ma non ha senso! Non tra noi! Non siamo mica colleghi d’ufficio, per la miseria, siamo…» (ora lo dico) «… siamo fidanzati!»
«Credo che mi sentirei meglio comunque dopo le tue scuse.»
«Non ho nulla di cui scusarmi.»
«Però dopo mi sentirei meglio, Ethan. Basterebbe questo per farti scusare, no? Se mi ami, scusati.»
Un amabile vecchietto. La prospettiva di accompagnarlo verso la decrepitezza e di assisterlo fino agli ultimi giorni mi commuove e a volte mi esalta, anche se ovviamente non sento nessuna fretta di arrivarci.
«Scusami» gli concedo.
«Scuse accettate.»
Prova a sorridere. Poi mi prende la mano.
Non mi sono ancora abituato del tutto a convivere con un jazzista laureato in architettura che ha quindici anni più di me e gira per casa in camicia e cravatta anche quando potrebbe starsene in mutande. Intendiamoci: mi piace abitare con un inappuntabile, virile damerino del ventesimo secolo; solo che non cessa di stupirmi che uno così diverso da me desideri condividere le sue cose con me, e che io lo desideri a mia volta.
1 È incredibile quanto questo vezzo polemico inacidisca la vita delle università. Il prof. Auberson, per il resto studioso di non poche virtù e docente dotato, esibiva la sua natura conflittuale e vendicativa anche durante le lezioni, che spesso vertevano sulle dispute recenti o passate che lo avevano coinvolto e che di solito si fondavano su minuzie di nessun conto, più che sull’argomento del corso. Si raccontava che avesse anche sfidato a duello un suo avversario (no, non Swantner, ma un altro di cui non ricordo il nome), come avrebbe fatto il più permaloso gentiluomo dell’Ottocento, per una questione di varianti tra la versione per voci e strumenti della Messa di Stravinsky e la riduzione per voci e pianoforte – imputabile, per quel che ne so, a un banale errore di stampa.
2 Con Edna sorvolo sulle difficoltà che ho incontrato nel fare approvare l’attività. Nessuno del consiglio accademico conosceva Dvoinikov, e qualcuno si è pure chiesto ad alta voce se fosse opportuno spendere tanti soldi per un vecchio russo, quando tra i nostri giovani musicisti si nascondono tanti talenti brillanti.