Il 15 marzo del 1978, il giorno prima di sparire, Aurora Delfino si chiuse a chiave in bagno e si tagliò i capelli.
Per molto tempo, Anna Delfino, sua sorella, si sarebbe ricordata del momento in cui Aurora aveva aperto la porta del bagno e lei l’aveva vista con quella testa martoriata, ridicola e, pensando a quello che era accaduto dopo – la sua scomparsa – terribile; quando ne avrebbe parlato con qualcuno, e l’avrebbe fatto spesso, sarebbe ricorsa a immagini che avrebbe trovato lei stessa approssimative, insoddisfacenti: «Come se avesse un carciofo schiacciato e aperto sulla testa», avrebbe detto. «Come se avesse sulla testa un cespo di lattuga».
Avrebbe ricordato il tappetino azzurro, e il lavandino pieno di ciocche di capelli, e sua sorella che li raccoglieva, manciate di ciocche biondo spento che si aprivano e si sfaldavano e scivolavano fra le sue dita, per poi buttarli nel water.
Sua sorella che tirava l’acqua e guardava i propri capelli andarsene per sempre.
Erano sole in casa. Anna aveva bussato alla porta del bagno, aveva detto: «Esci, che devo fare la pipì», aveva picchiato sulla porta col palmo della mano, mentre sua sorella diceva aspetta, ho finito, aspetta, e poi, alzando la voce nel momento in cui Anna aveva alzato la sua e aveva preso a picchiare la porta con il pugno, insistentemente, lasciami perdere, aveva detto Aurora, mentre Anna saltellava e stringeva le gambe, cercando di resistere.
Se la sarebbe fatta addosso, aveva pensato; avrebbe potuto usare il bagno al piano di sotto se il water non si fosse rotto il giorno prima. Suo padre aveva chiamato l’idraulico, un uomo grande e grosso con una gamba più corta dell’altra e un odore penetrante di sigaretta, e lui aveva aperto la cassetta dello sciacquone, ci aveva infilato dentro la mano, ne aveva estratto un pezzo e aveva detto che avrebbe dovuto procurarsene uno di ricambio. Sarebbe tornato il giorno dopo, aveva detto, o il giorno dopo ancora.
Anna pensò che avrebbe potuto fare comunque la pipì nel bagno al piano di sotto e versare dell’acqua nella tazza, in modo che l’idraulico non se ne accorgesse – che schifo, se se ne fosse accorto, che vergogna vederlo trafficare lì intorno con la propria pipì in fondo alla tazza – e nello stesso tempo pensò che sua sorella sarebbe dovuta uscire subito dal bagno, sarebbe dovuta uscire immediatamente, non era giusto che ci restasse così tanto, il bagno non era mica suo, era una stupida, un’egoista, uno schifo di sorella maggiore.
Picchiò di nuovo il pugno sulla porta, urlò: «Esci subito, ti ho detto, non ce la faccio più», e quando Aurora non disse niente, quando l’unica risposta fu il silenzio, Anna cominciò a preoccuparsi.
Per un istante, il silenzio le vorticò intorno, il silenzio della casa e del giardino e del bosco al di là della siepe e della strada – lo stesso che sarebbe calato su tutti loro il giorno dopo, il giorno della scomparsa, e che avrebbe spinto sua madre a vagare per casa, di notte, e a comporre, all’alba, il numero di Matilde Nesi, la vicina, tanto forte sarebbe stato il suo bisogno di parlare con qualcuno di quello che era accaduto – fino a che sentì girare la chiave nella toppa e la porta si aprì che lei aveva ancora il braccio alzato, il pugno chiuso, e Anna Delfino vide sua sorella Aurora, la testa martoriata, ridicola e terribile di Aurora.
Socchiuse gli occhi, aggrottò le sopracciglia e la guardò, continuando a stringere le gambe, premendo forte le cosce l’una contro l’altra.
Aurora aveva ancora le forbici in mano; ricambiò il suo sguardo, la guardò dritta negli occhi come se avesse l’intenzione di usare quelle forbici contro di lei, lo sguardo duro e tagliente, le guance accese, le piccole orecchie nude, le piccole pupille nere in quell’azzurro incerto, e Anna disse: «Cavolo, ma cosa hai fatto? Cosa cavolo ti è venuto in mente di fare?», e Aurora rimase immobile e muta, il luccichio dorato delle forbici contro la coscia, la luce che entrava dalla finestra alle sue spalle e che sembrava passarle attraverso per quanto era sottile e magra, ai piedi un mare di capelli – stranamente, Anna Delfino se ne accorse dopo, quando, entrata in bagno, le passò accanto, si abbassò pantaloni e mutandine e si sedette sul water. Portava un paio di calzettoni di lana, quel pomeriggio, e i capelli di sua sorella avevano aderito alla lana come spighe, come fili d’erba ruvida, come rami di un rovo, e allora si accorse che anche il lavandino ne era pieno, e pensò che sua sorella doveva essere impazzita.
Era di certo diventata matta, perché soltanto i matti si comportano in quel modo, si tagliano i capelli come capita o si feriscono oppure s’impiastricciano la faccia con un vecchio rossetto o coi propri escrementi, e, se era davvero impazzita, sarebbero venuti a prenderla, l’avrebbero portata via, e lei sarebbe diventata, di colpo, figlia unica e tutti l’avrebbero compatita per via della sorella pazza rinchiusa che per di più, immaginò anche questo, aveva cercato di ucciderla con un paio di forbici un pomeriggio di marzo del 1978.
E tutto questo mentre faceva la pipì – che magnifica sensazione di sollievo – e guardava i piedi nudi e ossuti della sorella immersi in quel mare di capelli, e le ciocche cadute dentro il lavandino, come erba tagliata in attesa d’essere raccolta, lasciata seccare e poi bruciata.
Mentre si puliva, si rivestiva e tirava l’acqua, Aurora si voltò, posò le forbici sul bordo del lavandino accanto al portasapone, si guardò allo specchio, aprì la bocca, trattenne il respiro e spalancò gli occhi, come se si fosse ricordata di qualcosa di sorprendente, o come se si fosse risvegliata da un sonno lungo e tormentato.
Anna ripeté – in sottofondo ancora lo sciabordio dell’acqua – «Che cosa cavolo ti è venuto in mente di fare?».
«Quando ti vedono mamma e papà gli prende un colpo» aggiunse, rivolta al profilo di sua sorella, il collo nudo e bianco su cui ricadevano ciuffi più lunghi, sfuggiti alla lama delle forbici, la frangia corta e scomposta che non si sarebbe potuto far altro che accorciare ancora, pareggiandola.
«Gli prende un colpo» ripeté, si avvicinò ad Aurora e la guardò riflessa nello specchio – guardò anche se stessa; in quel breve momento di vanità infantile, escluse tutto il resto e, come d’abitudine, accennò un sorriso, le labbra protese verso la superficie dello specchio.
Aurora, il viso lungo e magro, gli zigomi ancora più sporgenti adesso che i capelli non arrivavano neppure a sfiorare le orecchie, si pizzicò una ciocca fra le dita, la tirò, piegò la testa da un lato e poi dall’altro e disse: «Non sto poi mica così male, no?», e Anna ebbe l’impressione che sua sorella si sarebbe messa a piangere, che sarebbe scoppiata in un pianto profondo e inconsolabile, perché doveva aver realizzato soltanto allora ciò che aveva fatto, come se fosse possibile impazzire e rinsavire nel giro di un quarto d’ora, a diciotto anni, nel bagno della propria casa, in un pomeriggio di marzo, in una luce invernale e silenziosa.
«Stai malissimo, invece» le disse, continuando a sorridere. «Fai davvero schifo. Sembri un carciofo» le disse.
Gli occhi di Aurora si velarono; lasciò andare la ciocca di capelli e si asciugò il naso col dorso della mano, il muco caldo e lucido, poi scoppiò a ridere e strofinò la mano sulla stoffa dei pantaloni.
«Così mi sento meglio» disse, spingendo a fatica la voce fra quegli scoppi di risa, come se avesse dovuto portare in superficie un masso raccolto sul fondo del mare. «È più pratico. I capelli lunghi sono soltanto una rottura. Non servono a niente. I capelli lunghi sono borghesi».
«Invece a me piacciono» disse Anna. «E poi te li sei tagliati male. Te l’ho detto, che fa schifo».
Un singhiozzo fiorì nel petto di Aurora, perché stava ridendo o forse perché stava per scoppiare a piangere, fiorì e appassì e cadde a terra. Lei scosse la testa e ciò che rimaneva dei suoi capelli ondeggiò sulla superficie dello specchio.
«Devi togliere tutta questa roba» disse Anna, indicando il tappetino, «prima che mamma torni a casa. Già le prenderà un infarto, a vederti così, figurati se si deve mettere a pulire».
Aurora storse la bocca e mormorò: «Si butterà in ginocchio a pregare, vedrai», poi rise di nuovo – il naso continuava a colarle, aveva le labbra umide, e ci passò sopra la lingua – e allora anche Anna rise, al pensiero di sua madre che s’inginocchiava sul tappetino azzurro del bagno e pregava che la Madonna compisse il miracolo e facesse in modo che i capelli tagliati tornassero al loro posto, sulla testa martoriata e ridicola e terribile di Aurora.
Le parve di vedere le ciocche fluttuarle intorno, come foglie secche e sbiadite che vorticavano nel vento, e sua madre che allungava le braccia e apriva le mani e muoveva le dita, cercando di afferrarle. Provò a immaginare cosa avrebbe fatto suo padre: probabilmente, si sarebbe limitato a guardare i capelli di Aurora caduti a terra e nel lavandino, le braccia abbandonate lungo i fianchi, le labbra serrate, poi se ne sarebbe andato, sarebbe uscito in giardino a fumare. Andarsene era il suo modo di dimostrare disappunto.
«Beh,» disse «se vuoi, prima posso tagliarti le ciocche più lunghe, dietro, sul collo, così almeno sembri più normale», e perciò una sedia della cucina fu sistemata in bagno, Aurora si sedette e Anna impugnò le forbici e pareggiò i capelli della sorella maggiore come meglio poteva, tagliando ancora e ancora.
Teneva la lingua fra le labbra, concentrata, e ogni tanto si allontanava un po’, piegava la testa di lato, per capire se stesse andando tutto bene, per quanto fosse possibile, dato che il disastro era già stato fatto, e a un disastro del genere, pensava Anna Delfino allora, non c’è più alcun rimedio.
Guardava la nuca e il collo bianco di Aurora come se stesse facendo un disegno, lo strano e complicato e misterioso ritratto di sua sorella vista di spalle, e fu allora, mentre impugnava le forbici – si era tolta i calzettoni di lana e se ne stava anche lei a piedi nudi, adesso – fu allora che Aurora le disse alcune cose.
Le disse che il mondo stava per finire, che stava per saltare tutto in aria, non si poteva più evitare, anche se lei era troppo piccola per capire veramente certe cose. Le disse che aveva conosciuto un ragazzo, fuori dall’università, sei mesi prima, durante una manifestazione.
«Oh, oh, e come si chiama» le chiese Anna, tagliando un’altra ciocca, mordicchiandosi il labbro superiore, pensando che, finalmente, sentiva sua sorella parlare di un ragazzo e che, appena possibile, sarebbe corsa a dirlo a Monica Nisi, la figlia di Matilde, la sua amica del cuore, e Aurora le rispose che il ragazzo si faceva chiamare Nebbia, che tutti i suoi compagni lo chiamavano così – «Come la nebbia: la vedi, ma non la puoi toccare», le spiegò, «e poi i nomi veri non hanno più importanza, tutti i compagni si danno un nome nuovo, mi ha detto che ne troveremo uno anche per me» – e che lui le aveva fatto capire certe cose, le aveva aperto gli occhi, le aveva detto che non poteva più stare a guardare, nessuno poteva più stare a guardare.
Le aveva parlato dei padroni e dello Stato imperialista e dei porci democristiani e di Aldo Moro e del potere e della controrivoluzione, ma, di queste cose, Anna non s’interessò – le sembrarono poco più che un mormorio incomprensibile, il brusio del vento attraverso la canna di un camino.
«Vi siete baciati?» le chiese invece. «Allora, dimmelo, dimmelo, vi siete baciati? Eh, l’avete fatto o no?».
Chiuse gli occhi e sporse le labbra e si baciò il dorso della mano, se lo leccò, mugolando, poi si baciò il polso e risalì lungo il braccio, con passione, con ostentazione. Si dimenò come un serpente nella luce invernale.
«Ecco, vedi?» disse Aurora scuotendo la testa «tu non le puoi ancora capire, certe cose», ma Anna era sicura che stesse sorridendo, che lo trovasse divertente – un sorriso trattenuto, l’anticamera di una risata aperta, squillante e luminosa, una di quelle che lei soffocava quotidianamente in classe, coprendosi la bocca con la mano, nascondendosi dietro una pila di libri e di quaderni sistemati sul banco. Sua sorella, Aurora Delfino, quella ragazza dura e intransigente e incomprensibile che si era appena liberata dei propri capelli e che, dieci minuti dopo, li avrebbe gettati nel water, che diceva che il mondo stava per finire, si stava concedendo un ultimo sorriso, un ultimo istante di leggerezza e di civetteria; aveva fatto un passo indietro, era rientrata in casa, fermandosi accanto alla porta, soltanto per un attimo, come se volesse dare ancora un’occhiata al posto in cui era cresciuta, prima di andarsene.
Gli angoli della bocca di Aurora si piegarono all’insù, al ricordo del lungo corridoio dell’università che odorava di pioggia e di linoleum e di lana bagnata, al ricordo della pressione del bacino di lui contro di lei, delle sue mani premute contro il muro. Il suo alito caldo nell’orecchio.
«Vi siete baciati, vi siete baciati» cantilenò Anna – sua sorella era stata baciata dalla nebbia, avrebbe pensato in seguito; la nebbia l’aveva avvolta, nascondendola alla vista, le aveva offerto le sue labbra fredde e umide, labbra spugnose, appiccicose, la bocca di un pesce, e lei aveva ricambiato il bacio.
«Vedi di finire, stupida» le disse Aurora, e Anna si ricompose, tornò a guardare la nuca e il collo della sorella, tagliò l’ultima ciocca, la osservò cadere a terra e posarsi morbidamente sulle altre e disse: «Ecco fatto. Adesso fa un po’ meno schifo, anche se fa sempre schifo. Il tuo ragazzo non ti bacia più, quando ti vede così».
Pensò al momento in cui l’avrebbe detto a Monica Nisi, e a come ne avrebbero riso. Pensò che avrebbe di nuovo mimato, per lei, il bacio, o che avrebbe potuto baciare il peluche rosa e bianco a forma di coniglio che Monica teneva sul letto.
«Chi ha parlato di un ragazzo?» disse Aurora, alzandosi e guardandosi allo specchio, e poi guardando sua sorella, il viso di sua sorella sullo sfondo.
«E comunque a lui piacerà, ragazzina. Gli piacerà, te l’assicuro. Adesso gli assomiglio. Adesso dobbiamo solo pensare al nome giusto». Alzò e tese il braccio destro, socchiuse gli occhi e chiuse il pugno nel quadrato lucido e pulito e inoffensivo dello specchio.
«Sei tutta matta» le disse Anna. «Ti conviene mettere a posto», e se ne andò, tornò in camera sua e si sdraiò a pancia in giù sopra il tappeto su cui, per tutto quel tempo, erano rimasti i quaderni e i libri aperti. Commenta il testo e sottolinea le parole che non conosci, lesse.
Quella notte, sognò un incendio. Un sogno vivido e presente. Il bosco in fiamme, l’odore acre e penetrante del fumo, lo schianto dei rami e il crepitare delle foglie.
Sognò la propria casa avvampare come un mucchio d’erba secca.
Sognò i capelli di sua sorella divorati dalle fiamme, sognò che bruciavano e che si consumavano in un istante solo.
Fantasmi
di Elena Varvello
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