Giorno 1
«Ho comprato delle sedie verdi a una fiera dell’antiquariato, domenica scorsa. Altezza dello schienale quarantasei centimetri, profondità della seduta trentotto. Ci staremo comodi. Il legno è un po’ scheggiato, ho deciso di non riverniciarle.»
Lei alza la testa dai giornali che ha sistemato sul pavimento per evitare che la pittura stesa sul soffitto macchi il pavimento. Srotola un pezzo di scotch farinoso e lo passa lungo i bordi del battiscopa, mancano ancora le pareti laterali.
«Le ho pagate quaranta ciascuna.»
Il prezzo le fa oscillare la testa, qualcuno ha violato gli ordini.
«Sono nel cofano della macchina, vorrei che mi aiutassi a prenderle.»
Lei si tira in piedi con un movimento secco e fa accendi e spegni con l’interruttore per studiare l’effetto del colore in penombra. Clic, clic, clic.
Spegne la luce del tutto e osserva la sagoma del ragazzo che si staglia contro la finestra, il riverbero azzurrastro che lo colpisce alle spalle e lo annulla.
«Che tonalità di verde?»
«Quella che volevi tu, credo.»
Lui si volta di spalle e spinge le braccia tese all’infuori, poi di lato; flette le dita per impastare l’aria.
Giorno – 22
Nelle ultime settimane ha misurato lo spazio di qualsiasi cosa: la distanza tra il lavello e lo sportello del frigorifero, la distanza tra il davanzale e il lampadario del soffitto, la distanza tra il divano e il pavimento. Si è mosso da una parte all’altra con cadenza rettile, ha fotografato i fili elettrici penzolanti dal soffitto, valutato la possibilità di vivere in un appartamento senza mobili, per trascinare le sue trecentocinquanta giornate dell’anno vacanze escluse in uno spazio frigido e verginale (che le vergini siano frigide in realtà non gli è dato saperlo).
Quando aveva accennato alla possibilità di rifiutare i mobili, lei aveva sorriso e continuato la trattativa per un divano di velluto ammuffito che adesso campeggia al centro del salotto.
Google calcola: SMACCHIATORE + DIVANO + VELLUTO + MUFFA.
Hanno provato con l’aceto, il bicarbonato e il limone, così adesso è pulito ma puzza e loro sorridono con finto imbarazzo quando qualcuno glielo fa notare.
Giorno – 2
Stanno dipingendo le pareti del salotto secondo le indicazioni di un libretto di design e cromoterapia comprato a una bancarella; il prezzo segnalato su un bollino arancione radioattivo li aveva calamitati a venti metri di distanza.
Lo hanno sfogliato seduti sulla prima panchina disponibile; atterrando nella sezione dei verdi dove c’era una pagina pretestuosamente intitolata al Gruppo Bloomsbury.
«Verde, malva e pelliccia di coniglio. Preziosi effetti del passato.»
Non ci hanno pensato su più di tanto e sono andati a corrompere l’addetto di una multinazionale del colore; prima di mettersi in coda alle casse si era trattenuta nel reparto delle tappezzerie, ma lui le aveva dato una gomitata, spiegandole la differenza tra «evocazione» e «didascalia».
Ogni domenica
Si svegliano prima del solito, partono con una macchina vuota e tornano con una macchina piena: tende damascate, cornici d’oro che sotto le luci a basso consumo energetico tendono al bronzo e specchi su cui era stato rovesciato del caffè e che non erano stati lavati, neanche per essere venduti.
Non hanno ancora finito di dipingere il salotto, ma hanno iniziato a svuotare i pacchi ingombri degli oggetti della loro vita anteriore, quella senza stile né pianificazione (- 25/27 anni).
Giorno -3
Qualche sera fa erano seduti sul pavimento a gambe incrociate (lei ha detto: «Mettiti a gambe incrociate, altrimenti non è lo stesso. E quando sono in alto per dipingere gli angoli tu suona una canzone allegra e schizzami la faccia di vernice, altrimenti non è lo stesso»).
La porta era aperta per far arieggiare la stanza; quando la sagoma di due genitori si era stagliata nella controluce del pianerottolo hanno mosso le braccia in un gesto di invito, senza alzarsi in piedi. Mentre i genitori ispezionavano l’appartamento, loro hanno consumato un pasto pieno di molliche e privo di sostegni. «Siete sicuri? Dovete viverci qui dentro. Vi serve la luce, tanto per cominciare. È uno spazio oppressivo.» Sorridendo come bambini consapevoli di essere più lenti degli altri e per niente turbati da questa circostanza, hanno annuito e continuato a scartare cartoline di amanti morti in guerra che prima della guerra non si amavano affatto.
Decidono che la sveglia con la gallina che segna il passaggio dei minuti beccando mangime sul fondo dell’inquadratura deve essere rispedita al mittente.
Prima di andare a dormire lui voleva avvitare un semaforo alla porta d’ingresso, così aveva ignorato la bocca impastata di dentifricio che dal bagno stava urlando:
«Un ambiente depressivo. Se mai».
Giorno 7
«Cos’è quel volantino?»
«Cosa?»
Lei agita un flyer lungo e stretto, parzialmente sbiadito, parzialmente lucido.
«Town House.»
«A te cosa sembra?»
Qualcuno ci era stato, e aveva detto che c’era gente di altri Paesi, che parlava dei viaggi che aveva fatto in altri Paesi. Che c’era musica sottostante e musica da chiusura notturna con quattro ore di anticipo, vestiti brutti che si comportavano come se fossero vestiti interessanti, dischi masochisti che si lasciavano grattare da donne in smalto rosso, in un angolo la foto incorniciata di uno spilungone che somigliava allo scrittore di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi ma probabilmente non era lui.
Le chiede se uscire è ancora un’opzione valida. Se può servire a stare meglio.
Giorno 14
«Non credo.»
Seduta su un trono consunto del Town House, profilato da bottoncini di rame sbollentati negli anni, quelli in cui il Town House non c’era, lei solleva il bicchiere e fa un brindisi con sorriso, ripensando alla domanda che le ha rivolto una settimana prima.
Lui è perplesso, siede con le ginocchia contratte (non ruotare i piedi in quel modo innaturale, sembra che lo fai apposta, non siamo quel tipo di persone). Il locale somiglia troppo a qualcosa che lui aveva già immaginato e disegnato mentre era in corsia preferenziale, e non è particolarmente contento di questo.
Le pareti, le sedie, i quadri (quell’uomo non è Pavese, come ti viene in mente), dov’era la differenza. Tra casa loro, tra il ruolo che era stato prescritto.
«Davvero pensavi che fossimo soli, in questo?»
C’era stato un momento che lo aveva dato per certo.
La musica sottostante diventa musica presente, lei si chiede cosa ci faccia No Sleep Till Brooklyn lì dentro, se i Beastie Boys si sentono a loro agio.
C’era stata una prima volta in cui aveva ascoltato quel pezzo, seguita dalla volta dell’appassionata immedesimazione, seguita dalla volta della timida rivisitazione, seguita dalla volta – adesso – in cui le sue vibrazioni le appaiono innaturali.
Vuole alzarsi, ma le ginocchia contratte di lui bloccano il passaggio.
«Non andare in panico adesso.»
Poi la musica presente diventa solo musica di chiusura.
Ogni sera
Prima di entrare in camera da letto accarezza il muro del pianto in corridoio, un’esposizione cronologica e ordinata di uomini e donne sepolti nelle miniere della bassa Sassonia.
Non ha idea di chi siano quelle persone, quando glielo chiedono scrolla le spalle.
Lui rientra a casa e la trova intenta a comporre numeri da un telefono con il dischetto a rotazione; il cavo nero che esce dalla scatola di risonanza è tagliato a metà, eppure sta parlando con qualcuno.
«Ti ricordi quando da piccoli giocavamo a fare i cassieri di banca? Mi piaceva da morire, raddrizzare le spalle e impostare la voce.
Buongiorno signora, come sta? Credo ci sia un problema, vado a chiamare subito il direttore.»
«Dovevi creare problemi anche a uno sportello di banca immaginario?»
«Oggi ho provato a fare almeno tre voci diverse. Vuoi una ciliegia o vuoi sentire la mia imitazione di Mary Stoppelwhite?»
«Chi è Mary Stoppelwhite?»
«È la nostra nuova vicina di casa.»
Lui non dice che non c’è nessuna vicina di casa, e che se anche esistesse non potrebbe chiamarsi in quel modo.
«Va bene, fammi questa imitazione.»
Lei corre di là e si mette in posizione sul letto con un braccio dietro la testa. Con l’altro solleva la sigaretta, e spia le volute grigiastre che si dissolvono in meno di un secondo.
«Allora, caro» dice come se fosse la cosa più importante e grave al mondo. «Cosa vogliamo farne, di quel tostapane?»
Giorno 23
Sta lucidando una mensola di lacca traslucida, vuole posarci sopra una composizione di fiori plastificati da cinquanta centesimi l’uno.
Si asciuga il sudore dalla fronte con un dito, ora c’è una traccia asciutta in mezzo.
L’appartamento è segnato da una pianificata alternanza di gesti e oggetti consacrati, è una bolla gonfia di rappresentazione che si rigenera a tutte le ore, è una chiesa di cui loro sono gli unici custodi. È lei, quella che si applica: mangia frutti rossi rammolliti e intrattiene conversazioni generiche da un telefono sconnesso. Lui si muove a scatti, tutti quei cerimoniali gli sembrano vuoti.
Prima di mettersi a letto spalancano la bocca davanti allo specchio del bagno, pescano una caramella gelatinosa dalla vasca vuota per i pesci, la incastrano tra le labbra, fanno una foto con l’autoscatto che poi stendono ad asciugare.
Un mese dopo hanno dato fuoco a tutto. È la stagione del modernismo, hanno detto.