Morì in un bel giorno di fine aprile lungo la riva sinistra del fiume Senno. Non aveva vent’anni, non aveva un fidanzato, non aveva mai lasciato Valle Pelosa.
Non aveva avuto tempo.
Qualcuno le sparò un colpo al cuore.
Valle Pelosa era un piccolo paesino abitato da gente tranquilla, con inverni freddi e nevosi, belle primavere e calde estati. Sorgeva lungo una valle circondata da alte montagne dalle quali scendeva un piccolo fiume che lo attraversava per intero e si perdeva in mare pochi chilometri più a valle. Una fitta e immensa foresta di pini lo circondava mantenendolo lontano e proteggendolo più o meno da tutto. C’erano due bar, una stazione di servizio, un cinema che fungeva anche da sala da ballo, una palestra, un dentista e veterinario, uno sportello bancomat, un negozio di intimo e una buona connessione internet grazie alla nuova antenna 4g montata al centro della piazza Grande, al posto di una vecchia statua del generale Garibaldi che fu riposta nella cella della stazione di polizia. Cella da tempo in disuso poiché la vita criminale di Valle Pelosa si limitava a qualche gatto smarrito, che spesso ritornava a casa da solo, a un abbaiare molesto di cani, qualche lite condominiale, a volte pericolosi scambi di parolacce in stato di ebbrezza che si risolvevano sempre in un abbraccio, nei giorni brutti delle multe di divieto di sosta da contestare. Questo impegnava le giornate del commissario De Santis, veterano del corpo e maestro investigativo, meglio conosciuto come Pippo per via del naso straordinariamente lungo di cui lui era molto orgoglioso, e degli altri due agenti che con lui vigilavano sulla tranquillità del paese: l’ispettore Gallo, un omone barbuto e taciturno dotato di forza fuori dal comune, e l’agente Colombo, un ragazzotto basso e timido ancora in attesa del suo futuro.
L’ultima e forse unica indagine seria da diversi anni a quella parte c’era stata poco tempo prima: un presunto sequestro di persona.
Vittima il fornaio.
Uomo estremamente taciturno, albino e con due mani enormi da gigante. Il fatto venne denunciato dalla moglie di lui, una donna di circa trent’anni, manesca ma non brutta e di carattere odioso, la quale sosteneva di aver visto «con i miei stessi occhi» degli zingari di passaggio costringere con la forza il marito a salire su un’auto nera «sicuramente per farlo esibire come fenomeno da baraccone in dubbie fiere nei loro squallidi paesi», riferendosi al fatto che le enormi mani del marito potessero, oltre che impastare con grande efficacia acqua e farina, essere oggetto dell’interesse di un pubblico pagante.
La scomparsa del fornaio, ma soprattutto il coinvolgimento degli zingari, agitarono per diverse ore gli animi degli abitanti del paese. C’era chi non credeva agli zingari e accusava dei pastori, alcuni pensavano che il fornaio fosse morto ed era inutile cercarlo, qualcuno metteva in dubbio l’esistenza stessa del fornaio, altri odiavano tutti e ne approfittarono per tirare fuori dalle cantine forconi e scoppette per fare giustizia a caso. Si parlava di magia nera, di miracolo, di rapimento a scopo vendita per usi sessuali, c’erano strane teorie circa l’abitudine degli zingari di collezionare uomini per avere sempre a disposizione pezzi di ricambio per i loro corpi malandati. Tanto se ne disse e altrettanto se ne pensò finché non si scoprì che il rapimento non fu un rapimento. C’erano dei testimoni. Tre persone diverse videro il fornaio andare via davvero con degli zingari di passaggio, ma non rapito bensì di sua spontanea volontà. Salì sull’auto nera sorridendo dopo aver rivolto alla moglie un’ultima imprecazione come saluto. E c’era poi la lettera. Una lettera d’addio dello scomparso: «Mi hai reso la vita impossibile. Ti odio. Non cercarmi». Nessun dubbio, si trattava di fuga. L’uomo non era rapito ma fuggiasco.
«Caso chiuso» annunciò il commissario e il tempo, sospeso per l’occasione, poté ricominciare a scorrere, l’inverno fece posto alla primavera, il sole ricominciò a scaldare, le margherite fiorivano e gli uccellini cinguettavano. Si era tutti in pace, anche con le proprie coscienze.
Poi arrivò la telefonata intorno alle tre del pomeriggio, anonima e non rintracciabile.
Intanto, nel commissariato, De Santis leggeva un libro giallo, non amava il genere, lo considerava come un noioso corso di aggiornamento che non si poteva evitare. Si stava annoiando da diverse pagine quando comparvero sulla scena un colpevole e un delitto, emozionato ordinò di non disturbarlo, si rannicchiò sotto la scrivania, con il libro aperto sulle gambe, come faceva da bambino, e la pistola stretta nella mano destra pronto a ogni evenienza.
L’ispettore Gallo lottava con una difficile digestione, dopo aver resistito per un po’ si abbandonò al sonno, cadde dalla sedia e finì steso a pancia sotto sul pavimento mentre un rivolo di saliva gli scorreva da un angolo della bocca allargandosi sotto di lui.
L’agente Colombo occupava il suo posto di guardia. Teneva gli occhi fissi davanti a sé come una sentinella che si aspetti da un momento all’altro l’arrivo di un oscuro nemico e sognava. Forse il nemico, forse una storia d’amore, forse.
Lo squillo, insistente e disperato, si ripeté più e più volte finché non riuscì ad attirare l’attenzione dei tre tutori dell’ordine. Si precipitarono tutti alla scrivania su cui c’era il telefono. La circondarono. Fissavano l’apparecchio senza riuscire a decidere che fare, rispondere, sparare, scappare forse, chissà.
Fu l’ispettore Gallo, al quale dieci anni di polizia avevano cancellato ogni paura, a prendere l’iniziativa. Allungò la mano verso la cornetta e la afferrò. Lentamente se la portò all’orecchio e quindi, con voce chiara, profonda e priva di ogni inflessione dialettale declamò la tanto famosa frase:
«Polizia, chi parla?»
Ma era troppo tardi.
Non rispose nessuno.
Si guardarono senza dire niente, le bocche spalancate, immobili per così tanto tempo da permettere a qualcuno di arrivare dal fiume per avvisarli:
«Ehi, hanno sparato a una ragazza!».
A Gallo cadde la cornetta di mano.
Si voltarono verso la voce, corsero alla finestra.
Si affacciarono.
Il postino li guardò, tutti e tre, uno accanto all’altro. Impalati. Come per una foto.
«C’è una ragazza giù al fiume. Morta credo» disse, stavolta più piano.
Il commissario si voltò, corse alla scrivania, indossò la giacca, controllò che nelle tasche ci fossero pistola e sigarette, prese dall’appendiabiti il cappello e lo indossò:
«Gallo, andiamo. Colombo, suona la sirena».
Colombo corse verso la sua postazione di guardia, digitò un codice su un tastierino numerico, si aprì uno sportellino che conteneva un pulsante rosso. Lo premette.
Gallo mise in moto l’auto di servizio, il commissario salì e si diressero verso il fiume.
Nel cielo di Valle Pelosa, in quel pomeriggio di aprile si diffondeva il suono grave e spaventoso della sirena della polizia che avvisava tutti: si salvi chi può!
La macchina, elettrica ma veloce, procedeva silenziosa, al suo passaggio porte e finestre si chiudevano, si sentivano i rumori dei chiavistelli poco oliati e quello poco rassicurante dei fucili che venivano caricati. Le mamme richiamavano bambini e cani, i gatti scappavano cercando rifugio dove potevano. Le strade all’improvviso divennero deserte. Tutto era vuoto. Il sole cominciò a tramontare e arrivò il buio. Poi piovve.
Era cominciata la paura.
Il corpo giaceva a terra in posizione supina. Le gambe divaricate, la faccia inclinata di lato, gli occhi spalancati, i capelli biondi macchiati di fango. Al centro del petto un piccolo foro di colore rosso scuro della stessa grandezza della corolla di un fiore. Accanto al corpo, in ginocchio, un uomo, il dottore. Stringeva il cappello nelle mani e scuoteva piano la testa. Appena vide il commissario si alzò in piedi e gli andò incontro.
«L’ha trovata la vecchia Rosa» disse indicando una donnina con degli occhiali enormi e molto bassa che gattonava accanto al corpo. «C’è inciampata dentro, non l’ha vista.»
«Si sa chi è?» chiese De Santis.
«È la figlia del vignaiolo!» gli rispose sollevando il volto della ragazza.
«La piccola!»
«Già, la piccola. Cosa hai intenzione di fare?»
Scoprire il colpevole, ovvio, pensò. Ma era una risposta troppo banale da dare. Certo che avrebbe dovuto scoprire il colpevole. Era il suo lavoro scoprire i colpevoli. Non sapeva come, eppure lo avrebbe fatto. Avrebbe seguito le idee, che si sa, vanno e vengono, le idee sono come le barche rintanate nel porto mentre fuori il mare è in tempesta, le idee accadono, nonostante gli uomini.
«Scoprirò chi è stato» gridò agitando il pugno chiuso verso il cielo. Cadde il primo fulmine, poi venne il tuono, una piccola folla di impavidi si era riunita attorno al corpo. Fissavano De Santis ammirati. Egli avrebbe vegliato su tutti noi, egli avrebbe protetto le nostre case, egli avrebbe cacciato via la paura…
«Vi giuro che un giorno scoprirò chi è stato. Ma non ora. Ora ci sono cose più importanti a cui pensare. Lei non può restare qui. Piove, fra poco sarà notte e non voglio che il suo corpo diventi cibo per animali selvatici e ragazzini tiktokers. Gallo, avvolgila in un sacco e restituiscila alla famiglia. Colombo resterà di guardia qui tutta la notte.»
Il luogo del delitto venne transennato, fu disegnata la sagoma del cadavere sul selciato, la sirena venne spenta. Gallo infilò il corpo della ragazza in un sacco da cadavere e lo caricò nel portabagagli.
«Bene, qui non abbiamo più nulla da fare, possiamo andare via.» Ringraziò il pubblico presente e lo invitò a tornare a casa. Salì sulla macchina che partì sgommando.
Colombo restò fermo sugli attenti, la vecchia Rosa gli faceva compagnia, lo teneva per mano e gli raccontava storie di un oscuro passato. La pioggia era ormai temporale. Ombre si muovevano veloci tra le stradine vuote. I ragazzini selvatici si avvicinavano, sentiva le suonerie dei loro cellulari, impugnò la pistola, sapeva che avrebbero cercato di fare dei video a ogni costo. Il vento diffondeva cupe filastrocche. Un corvo gli si posò sulla spalla e cominciò a beccargli l’occhio destro. Aveva un solo caricatore di riserva e temeva non gli sarebbe bastato.
C’era un mistero a Valle Pelosa, e stormi di incubi cominciarono a volarci intorno.
Davanti al commissariato si radunò una piccola folla. Il sindaco per l’occasione improvvisò un breve discorso:
«Perché la felicità va premeditata, la felicità non è solo un diritto ma ancor più un dovere. Perciò cari vallesi sorridete, le facce tristi non portano bene, mostrate un sorriso alla sorte avversa, raccontate ottimismo e barzellette, siate allegri, siate vitali».
Ognuno di loro avrebbe per sempre ricordato quel giorno.
Colombo, bagnato fradicio e infreddolito, preda delle ombre e delle storie malsane della vecchia Rosa.
L’ispettore Gallo, che restituì il corpo alla famiglia e scavò con le sue mani la fossa nel giardino affinché potessero seppellirla.
E De Santis, il commissario, che, seduto alla scrivania del suo ufficio, si puntò una lampada in faccia accecandosi. Si sarebbe interrogato per primo per dare il buon esempio. Se fosse riuscito a dimostrare la propria innocenza avrebbe interrogato il resto del paese. Cominciò con la domanda che non aveva mai osato farsi: perché?
All’inizio non si seppe rispondere, poi si raccontò. Per diverse ore.
Nel frattempo, fuori al commissariato la fila cresceva, la gente veniva anche dai paesi vicini per farsi interrogare, tutti volevano contribuire, magari anche testimoniare. Ognuno portava con sé un alibi. Erano talmente tanti gli alibi che la croce rossa fu costretta a montare delle enormi tende per contenerli. Si cominciarono a distribuire acqua, zuppe calde e coperte. Poi cadde la neve, le strade divennero bianche.
I mesi passarono e venne l’autunno.
Le indagini non procedevano. Oltre che nome e cognome della ragazza poco altro si sapeva, e quel poco era inutile. Il commissario De Santis fu costretto a dichiarare irrisolvibile il mistero. Gallo e Colombo cominciarono il letargo. Era di nuovo inverno.
De Santis trascorreva lunghe giornate in silenzio a fissare una stampa di Escher, ne cercava direzione e senso. Sperava che in fondo a qualche scala, in una stanza che ancora non aveva scoperto, potesse nascondersi la risposta alla domanda: chi è stato? La gente in paese mormorava, lo si accusava di non essere all’altezza del compito. Ma che ne sapeva la gente? Come potevano tutte quelle persone sapere, anche solo immaginare ciò che lui solo, davanti a quella irrisolta domanda, provava?
Cercare un assassino per mesi. Sospettare di tutti. Poteva essere chiunque. Ma chi? Di nuovo la domanda, chi?
Aveva ordinato ai suoi di trovare risposte, qualunque risposta. raccogliere le risposte lasciate per strada, quelle nascoste nel buio delle case, dimenticate nell’ombra dei silenzi. Risposte. A ogni costo. Risposte.
«Poi ci metteremo accanto le domande.»
Semmai.
L’idea poi gli venne che nemmeno se l’aspettava. Se proprio un colpevole non si riusciva a trovare lo si poteva inventare. Non era certo un’idea originale ma:
«Non dobbiamo certo organizzare una sfilata di moda, l’importante è che sia efficace».
In un mondo dove tutti sono innocenti un colpevole da dove può arrivare? Forse dalle stelle, forse da oltre il mare o dall’estremo oriente, forse da qualche strano modo di pensare. Da dove?
Qualcuno che di sua spontanea volontà si sacrifichi per salvare tutti?
«No. Perché rischiare? Inventeremo un colpevole. Unico. Definitivo. Una volta inventato ci sembrerà anche vero.»
Ma prima del colpevole c’era bisogno di una storia, della giusta versione dei fatti. Si riunirono tutti e tre: De Santis dettava, Colombo batteva a macchina, Gallo faceva centinaia di fotocopie da distribuire in paese.
La ragazza passeggiava lungo il fiume perché era primavera. Per questo incontrò il suo assassino. Era costui un amante rifiutato. Per vendicarsi l’aveva uccisa.
Gelosia. Semplice. Lineare. Rassicurante.
Seguiva invito a presentarsi nella piazza principale dove sarebbe stato rivelato il nome dell’assassino.
Qualcuno sarebbe stato colpito nel mucchio. Qualcuno li avrebbe salvati.
È stato lui, è vero.
L’ho riconosciuto.
Perché non ci abbiamo pensato prima? Era così evidente.
Con quella faccia lì, si vede che è colpevole.
È la faccia a trasformare il prescelto nel colpevole. La faccia della vittima sacrificale, del capro espiratorio che si trasforma.
Era normale solo un attimo prima e ora: occhiaie, barba incolta, brutto, sporco e magari anche con la forfora.
Sospiri di sollievo e abbracci.
«Caso chiuso» annunciò il commissario De Santis, affacciato a un finto balcone.
E fu di nuovo tranquillità.
Poi un giorno un ragazzino uscì di casa. Doveva vedere gli amici. Cominciò a correre. Incontrò un uomo. Andò a sbattere contro un uomo, a dire la verità. Un uomo normale, cappello a cilindro bastone e guanti. Caddero a terra tutti e due. In direzioni opposte.
L’uomo sorrise, il bambino educato ricambiò il sorriso e chiese scusa. L’uomo si alzò, si pulì con le mani i pantaloni, raccolse il cilindro e lo calzò bene in testa. Poi aiutò il bambino ad alzarsi, gli pulì una macchia di fango sulla faccia.
«Tutto bene? Dove correvi così forte?»
Il bambino guardava e non rispondeva. L’uomo raccolse da terra il suo telefono. Lo studiò con attenzione. Sorrise. Funzionava.
«Funziona. Me lo puoi dire, coraggio, dove correvi?»
«Tu sei cattivo?» domandò il bambino con un filo di voce.
Esitò prima di rispondere.
«Cattivo? Forse, perché lo vuoi sapere?»
«Perché la mamma mi ha detto di non parlare agli uomini cattivi.»
«L’uomo compose un numero, si poggiò il telefono all’orecchio.»
«Sai, credo proprio che la tua mamma abbia ragione. Sì. Sono cattivo, davvero cattivo. Ma tu non devi preoccuparti, non l’hai fatto apposta a incontrarmi, non credi?»
Il bambino ci pensò per un po’, e sì, credeva proprio che il tizio avesse ragione, in fondo correva per i fatti suoi.
«Come ti chiami?» chiese l’uomo.
«Polizia, chi parla?»
Sparò. Lo colpì al centro del petto. Un piccolo forellino rosso scuro. La corolla di un fiore.
«Pronto? Chi parla! Chi parlaa!!! Chi par…»
Ricominciamo.