Piccoli atti sovversivi
di Carmen De Nisi

Piego l’angolo, prendo il cellulare, apro una nota e scrivo Fatto un orecchio alla pagina di un libro. A rileggerle una dietro l’altra le cose che annoto appaiono senza senso, e lo sono, le segno per capire se c’è un filo conduttore.
La mia psicoterapeuta li chiama piccoli atti sovversivi e quando gliene parlo vanno avanti già da un po’. È cominciato tutto in estate e sta esplodendo adesso, ma non so ancora perché: ho capito che sono cose che mi fanno vergognare, anche se a volte mi danno piacere, come quando mia madre mi chiama e non rispondo al telefono. Non schiaccio lo schermo per rifiutare la chiamata, semplicemente lo lascio vibrare finché lei non si stanca di aspettare. Alla chiamata segue un messaggio, Perché non rispondi?, non lo apro neanche, lo leggo dall’anteprima. Il giorno dopo la chiamo io, dico Non potevo parlare, ero per strada, invece stavo guardando una serie tv con la mia coinquilina.
La psicoterapeuta cerca di sviscerare i motivi di questa rivoluzione, mi chiede se sono stata un’adolescente ribelle; alle sue domande rispondo sempre Non lo so, anche se non è così. Racconto delle volte in cui ho dovuto coprire mia sorella che usciva di nascosto con i ragazzi, di quando mia madre e mio padre l’hanno trovata a casa con uno e a me hanno detto che lui era senza maglietta. Allora lei chiede Stiamo parlando di sesso?

Non faccio l’amore da sette anni e me ne sono resa conto solo da qualche mese, non ci avevo mai pensato prima. A volte ci scherzo con le amiche, come faccio con tutte le cose sulle quali non voglio che mi vengano fatte domande, ma non mi sono mai soffermata a pensare al tempo trascorso dall’ultima volta. Me ne sono accorta una sera a cena con la mia coinquilina, parlavamo di una conoscenza in comune, un professore di Lettere, sposato, sulla quarantina. Davanti a una bottiglia di vino ci siamo lasciate andare a qualche apprezzamento spinto, lei ha detto È un bell’uomo ma non ci farei mai niente, e io mi sono sorpresa a pensare che invece ci sarei stata; così, la mia testa si è messa a lavorare a ritroso, arrivando dal professore ai ricordi sbiaditi dei pomeriggi a casa del mio ex ragazzo, in cui facevamo l’amore per ore e non avevamo mai voglia di rivestirci. La mia testa dice che forse la persona che faceva l’amore non ero io, oppure non sono io adesso, è per questo che sono entrata in terapia: non conosco la persona che sono. Non è come dire che non so chi sono, è come vivere con una sconosciuta e dipendere da lei.

La prima volta che ho fatto l’amore ricordo di essermi domandata perché avessi avuto così paura di una cosa che poi mi era sembrata del tutto naturale. Era stata una rivelazione scoprire che fosse capace di aprirsi e tendersi e assecondare un altro senza alcuno sforzo, traendone anzi un piacere che non era quello perverso del dolore ma quello languido dell’abbandono. Da allora, mai una volta in cui sentissi il bisogno di trovare scuse per non fare l’amore o che nell’intimità ponessi limiti dettati dal disagio o dalla vergogna. Quelli erano sentimenti che lasciavo fuori, a letto io trovavo la coniugazione perfetta tra ciò che ero e ciò che avrei voluto essere.
Mi piaceva anche che le persone intorno, le amiche, mia sorella, persino mia madre, scorgessero in me qualcosa di diverso senza riuscire a spiegarselo. Il mio ragazzo diceva che trovare una persona capace di separare i sentimenti dal sesso era stata tra le cose migliori mai capitategli; non ero una di quelle che per rabbia gli negava il corpo, più spesso glielo offrivo quando l’aria si faceva troppo pesante, quando ci lasciavamo andare a discorsi profondi, a ghirigori di pensieri che richiedevano risposte da cercare troppo in là nel tempo: io ero io, lui era lui e poi c’era questa cosa che ci faceva stare bene. Appena i sentimenti si intromettevano ci allontanavamo per qualche settimana e poi ritornavamo l’uno dall’altra; non importava chi per primo cedesse all’istinto. Nel frattempo conoscevo altri ragazzi, ci flirtavo, difficilmente ci finivo a letto, ma il gioco del mio corpo capace di chiamarne un altro mi affascinava. Non mi sconvolgeva né mi umiliava se alla fine di una serata mi rendevo conto che l’interesse non era verso di me ma verso quello che di me avrebbero potuto fare, anzi, in qualche modo io lo assecondavo con una cura meticolosa: la snellezza, che non doveva mai scadere nella magrezza palese ma mantenersi nell’apparenza di muscoli sodi, i vestiti che lasciassero intravedere le forme, solo accennate, per non svelare la verità di un corpo che fuori dal letto mi appariva deforme, la pelle perfetta e il colorito appena appena abbronzato mantenuto con i pacchetti per lampade nei centri estetici consigliati da mia sorella. Era il mio modo per ringraziare quel corpo capace di darmi piacere.
E poi, io e il mio ragazzo ci abbiamo dato un taglio, ci siamo salutati e nessuno dei due ha più chiamato l’altro.
Subito dopo ho conosciuto uno, dodici anni più grande di me. Del mio corpo sembrava non interessargli niente, continuava a scrivermi e a chiedermi della mia vita, della mia famiglia. Mi diceva che ero bella, ma le poche volte in cui l’ho visto di persona sembrava spaventato da me, faceva fatica a sfiorarmi, perdeva persino le parole, balbettava che voleva trattarmi bene. Non riuscivo a fargli capire che volermi significava passare attraverso il mio corpo, per prendersi tutto quello che gli sembrava necessario, i traumi, i drammi familiari, le storie di quando ero piccola, le paturnie adolescenziali mai risolte. A lui sembrava ignobile, voleva trattarmi come un oggetto fragile: pensava che con un suo tocco sarei andata in frantumi, io invece mi crepavo un po’ di più ogni volta che mi offrivo e lui mi rifiutava. Non ho più accettato i suoi inviti a uscire, rispondevo sempre ai messaggi e alle chiamate ma lo trattavo come un amico. Alla fine l’ho allontanato, o forse si è allontanato lui. Dopo più niente, ho smesso di guardare qualsiasi ragazzo, mi sono gettata nello studio, poi nel lavoro e un giorno mi sono guardata allo specchio e non mi sono riconosciuta. Così sono passati sette anni e lungo il tragitto ho dimenticato di avere un corpo.

Il corpo torna a cena con la coinquilina mentre le confido che io sì, con il professore ci starei, e che quella lì, quella me che faceva l’amore, non può essere andata troppo lontana, deve trovarsi ancora da qualche parte. E così, è da un po’ che provo a stanarla.
Sabato sera raggiungo la mia coinquilina e il gruppo di amici che abbiamo in comune. Il locale in cui ci siamo riuniti per bere è un bugigattolo, da fuori non sembra altro che uno di quei club da bische clandestine, con le vetrine che danno sulla strada e, a coprirle, delle spesse tende porpora. Dentro, l’unica sedia rimasta libera è quella tra un mio ex collega d’università, che mi incastra sempre chiedendomi dei libri che sto leggendo, e una delle mie amiche con la quale ho smesso di parlare da un paio di mesi perché non fa che lamentarsi del lavoro. Nel giro di cinque minuti l’ex collega attacca a parlare di Nabokov, che è uno dei miei autori preferiti, anche se in realtà ho letto solo Lolita, comincia a spiegarmi la trama complicata di un libro, una storia di sesso e incesto, non saprei dirlo, smetto di ascoltarlo quasi subito e prendo a guardarmi intorno. Il locale è pieno di cose estrose che hanno a che fare con il Messico: piccoli sombreros, stampe di Frida Kahlo e cose così, e poi c’è in un angolino la miniatura di una Santa Muerte incastonata nel suo altarino fiorato. Sto lì a fissarla, mentre bevo e cerco di ricordare le storie che mi raccontava il mio professore all’università. Dico di getto Devono averle chiesto qualcosa, l’ex collega chiede Cosa?, indico il piccolo altare: Se chiedi qualcosa a Santa Muerte lei lo fa, ma se scopre che hai chiesto qualcosa di inutile o superficiale si vendica, prendendosi qualcuno che ami. Nel mio caso non saprebbe chi sottrarmi. Lui sembra un po’ spaesato e io mi sento improvvisamente a disagio, così faccio segno alla mia coinquilina perché venga fuori a fumare.
A fine serata, quando tutti si infilano i cappotti e si organizzano per tornare a casa, io, la mia coinquilina e una sua amica decidiamo di continuare la serata e andare a ballare.
Prima di raggiungere la pista piena di gente ci fermiamo al bancone del bar e fanno decidere a me cosa ordinare, dico al barman Tequila sale e limone per tutte, perché so che così la sbronza arriverà più in fretta. Buttiamo giù ridendo come vecchie amiche che non fanno nient’altro che passare il tempo insieme. La mia coinquilina e la sua amica indossano uno di quei berretti con la visiera che vanno di moda in questo periodo, per via di una serie tv in cui tutti lo portano, se lo mettessi io sembrerei una stupida, ma a loro sta bene, assomigliano a una coppia di modelle parigine. Sono belle, e sono giovani, e penso che come sono loro io ormai sono già stata. In mezzo alla pista comincio a ballare; siamo noi tre e poi non so come non lo siamo più, un ragazzo si mette fra noi e senza che me ne accorga mi prende alla vita. Gli metto le braccia al collo e muovo il bacino a ritmo di musica, lui deve aver capito che il campo è libero e mi bacia. Profuma di rum e di qualcosa che sembra menta ma non credo lo sia. Smettiamo di ballare ma continuiamo a baciarci, non ci accorgiamo che stanno per chiudere, i buttafuori mettono tutti alla porta, ritrovo le ragazze in un angolo ad aspettarmi. Mentre ci avviciniamo all’uscita, io con le mie amiche e lui con due amici, ci chiede di andare a casa sua, Ci beviamo una tisana, dice, Dove abito c’è un bellissimo panorama, come se potesse essere vero.
Invece non era una scusa, casa sua è una mansarda sul tetto di un palazzo non troppo lontano dal mio, c’è un balconcino in cucina e uno in camera da letto, da lì si vedono le vetrate colorate della vecchia stazione e il pinnacolo della torre, oltre che le luci accese sulla città. La tisana per tutti la prepara davvero e, dopo aver mescolato vino e tisana e residui di gin tonic che si sono portati dietro dal locale, gli altri rimangono in casa, mentre io e lui usciamo sul balconcino della camera da letto. Mi abbraccia da dietro e io elenco i nomi delle cose che riconosco da lì su, Quello è Corso Vittorio, e lì c’è la piazza, è vero? Dice Brava, mi fa girare e ricominciamo a baciarci. Anche se so che possono sentirci, gli slaccio la cintura e i pantaloni, entro nei boxer e lo prendo tra le mani, lui stacca le labbra dalle mie e tira il fiato a denti stretti, è sorpreso, poi mi guarda come per mettermi a fuoco e sembra non riuscirci, non capisco se devo continuare o no ma lui posa la sua mano sulla mia e dice: Così.
Giulio ha ventisei anni e fa il cuoco. Nel tragitto dalla discoteca a qui la mia coinquilina ha sentito che lo diceva, e mi ha rivolto un sorrisetto complice per tutte le volte che le ho ripetuto che nei miei sogni ho una relazione con un cuoco, Forse così mangerei. Lui ha intuito qualcosa e ha domandato Che c’è?, io ci ho scherzato su con una frase fatta, Non sono una buona forchetta, allora lui ha chiesto a bruciapelo, senza un minimo di pudore, Eri anoressica? E io non ho detto niente, ma gli ho lasciato intendere quale fosse la risposta.
Quando prendo il ritmo mi lascia la mano e si fa strada tra i miei vestiti: sotto il maglione, tra le calze e la canotta, negli slip. So come finirà questa cosa, ma non voglio che sia convinto di aver deciso tutto lui. Dice, Rimani qui stanotte, rispondo No, devo riportare le mie amiche a casa. Lui ha capito che è una scusa ma non insiste. Gli dico che gli lascerò il numero, che se vuole può scrivermi e possiamo rivederci. A lui sta bene. Alla fine non rientriamo, continuiamo a infilarci uno nei vestiti dell’altro fino alle sei del mattino, poi decido che è il momento di tornare a casa.
Giulio non è il mio tipo, avrebbe potuto esserlo, qualche anno fa, con quell’aria da ragazzino maturo, i riccioli castano chiaro arruffati al centro della testa e la voce che sa adattarsi a ogni momento, argentina con gli amici, rauca nel piacere, pietosa e anche un po’ infantile per ottenere; uno che non hai ancora capito se devi proteggere o lasciare che lo faccia lui. 
Mi scrive alle quattro del pomeriggio Vieni da me? Dalla mia mansarda c’è un panorama stupendo. Alle otto sono sotto casa sua, all’inizio ho pensato di chiedergli se avesse voglia di cenare insieme, poi, lungo il tragitto, mi è venuto in mente di comprare una bottiglia di vino, alla fine ho chiesto a me stessa di non fingere di volere qualcosa che in realtà non voglio, e ho camminato spedita fino al suo portone. Indossa un maglione largo e un pantaloncino, è a piedi nudi e sembra più basso di come lo ricordavo, ma il viso, la pressione delle sue labbra e la leggerezza delle sue mani sono le stesse di stamattina alle sei. Ci sediamo sul divano, lui dice che ha lavorato tutto il giorno, io gli dico che ho ciondolato per casa, Da stamattina fino a quando mi sono vestita per venire qui. Mentre parliamo mi prende le gambe e le sposta sulle sue, il vestito striminzito che ho messo sale su quasi fino a scomparire, io mi avvicino e gli passo la mano dietro la nuca prima di leccargli le labbra. Forse non ha mai avuto una ragazza che prendesse l’iniziativa, perché sembra di nuovo sorpreso quando infilo la mano nei suoi pantaloncini, ma deve piacergli visto che non la sposta.
Gli tolgo il maglione e, mentre non smetto di toccarlo, gli dico Dimmi cosa mi vuoi fare. Mi aspetto che risponda qualcosa di esplicito, lui sussurra Voglio fare l’amore con te, io ho l’impulso di andare via, anche se poi rimango a baciarlo mentre lo aiuto a spogliarmi. Appena ci stendiamo penso alle lenzuola, al fatto che mi ha sempre fatto schifo dormire in letti che non fossero il mio, però la casa ha un buon odore, un misto di zenzero e qualche altra cosa di pungente, forse un agrume, così mi convinco che anche le lenzuola devono essere pulite. Dovrei scriverlo nella nota: Fatto l’amore in un letto che forse non è pulito, o forse sì. Non mi sembra di riuscire a distinguere tra il piacere e il fastidio, li sento entrambi nello stesso momento e non mi ricordo più se è così che dovrebbe essere. All’improvviso lui si interrompe, dice Fai tu, così scivolo su di lui e mi accorgo che il dolore dura un attimo, solo un attimo prima di riconoscere la sensazione familiare. Mi muovo con più sicurezza, dice Ora va meglio, e non so se lo sta dicendo per lui o per me, ma comincia a muoversi facendomi gemere, e allora tutto quello che fino a questo momento ho temuto, i vestiti troppo corti, le parole di mia madre, i figli delle mie amiche, i capelli forse troppo lunghi, il lavoro che non mi piace, la nota sul cellulare, scompare tutto davanti a ciò che questo sconosciuto sta facendo.
Dopo restiamo a prendere fiato in silenzio. Io sto già pensando a cosa dire per andare via senza sembrare scortese. Ma lui fa Domani mi devo svegliare presto, ed è come un via libera: raccolgo le mie cose, metto il reggiseno prima degli slip, che fatico a trovare; sembra sconcertato dal mio entusiasmo. Non ci impiego più di due minuti a rivestirmi, intanto si è tirato su anche lui, nudo, mi infilo il giubbino e sono già verso la porta: Allora ciao.
Per strada cerco di attirare lo sguardo degli altri, vorrei che tutti sapessero quello che ho fatto, vorrei che mi giudicassero come una poco di buono, vorrei che lo facessero solo per lasciarmi dire che non me ne frega niente. Prendo il cellulare, apro la nota dei piccoli atti sovversivi e faccio vagare il pollice sullo schermo senza schiacciare le lettere. Non so che scrivere, magari niente. Non scrivo niente.

Questo articolo è stato pubblicato in numero 29. Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.