Quando ero piccolo uscivo tutti i giorni a giocare con Pio in quei campi che non erano campagna, perché troppo vicini alla periferia, e non erano periferia, perché di lì a pochi passi era campagna. E non erano neanche campi, in verità: erano distese di terra intervallate da qualche sprazzo d’erbaccia.
Anche quel giorno l’afa toglieva il respiro. A pensarci oggi, non so come facessimo a stare così tante ore sotto al sole, correndo e scarpinando. Dovevamo puzzare come capre, ma sono cose a cui da bambino non badi.
Fu per caso che scoprimmo la buca delle voci.
Un topo entrò in questa grande crepa e parlò. Avrò avuto otto anni ma lo ricordo come fosse ora, tanta fu la paura che ci fece: aveva voce di donna e diceva cose incomprensibili.
Io e Pio scappammo.
La curiosità era però tale che tornammo sul posto il giorno stesso.
Pio era un tipo molto più ruspante di me: mica aveva i genitori laureati, lui. Fuori dalle mura della scuola scontavo questa pecca familiare, lui mi insegnava il mondo e io gli stavo dietro. Stavo dietro anche quando si sporse nella cavità e gridò: «Topo!».
Nessuna risposta.
«Ué zoccola e’ merd’, ci sei?»
Vedendo Pio, presi coraggio anch’io e lo imitai.
«Topaccio ci sei? Eh, topo schifoso?»
Niente, la buca non reagiva.
Rinfrancati, ci guardammo in faccia e sghignazzammo: potevamo recuperare coraggio.
«Jesci, strunz’, ca se no te chiavo ’na preta ’ncapa!»
«Te stacco e ’rrecchie!»
«Jesci, ’a fess’ e’ soreta!»
«Icc bin einsam. Fur drai Giare – (o qualcosa del genere)» rispose la buca d’un tratto, stavolta con voce grave. Pio e io scappammo rompendo il muro del suono.
Volevamo tenere per noi la scoperta. Ma il peso di un tale segreto – i topi, nelle buche, parlano! – per due bambini di otto anni è insostenibile.
Ci confidammo con Loris, che era poco più grande di noi ed era un tipo scafato.
All’inizio non ci credette, ci prese in giro. Ma noi instemmo così tanto da mettergli il dubbio.
«E allora, se è vero, fatemi vedere questa buca» disse.
Io e Pio rimanemmo un po’ incerti: se Loris avesse saputo dove si trovava la buca lo avrebbe raccontato a tutti. Si sarebbe pure vantato d’averla scoperta lui. Dimostrare che non dicevamo cazzate, però, a quel punto era diventata una questione d’onore, per cui alla fine lo portammo sul posto.
Quando arrivammo, la buca stava parlando tantissimo. E con più voci, per giunta.
«Commenallevù? Sechedis le medesà?»
«Porfavor respondeme tampronto.»
«Ainevesto’ lovingliu.»
«Omaci kudasai.»
«Non sono topi, imbecilli!» disse Loris. «I topi mica parlano! Devono essere persone che vivono nella buca.»
«Persone? E che ci fanno nella buca?»
«E che ne so io? Devono essere degli strambi, senti come parlano.» E se ne andò, lasciandoci soli con la nostra delusione.
Ci sfogammo contro gli uomini della buca: «Che cavolo ci fate lì dentro? Ma siete scemi?».
«Cornuti» gridò Pio.
In quel momento capimmo una cosa che ci risollevò di morale: anche se non avevamo fatto una clamorosa scoperta scientifica, potevamo sempre andare a sfottere la gente nella buca.
«Cretini!»
«Piglia ‘nculo!»
«Stronzi!»
Quelli continuavano a parlare, ma chi li capiva!
Da allora in poi, ogni volta che andavamo in campagna a giocare, la buca era una tappa obbligata.
Una volta una voce ci rispose per davvero: «Andate a scocciare qualcun altro!».
Allora sanno parlare!, pensammo, e subito: «Cretino, cretino!».
«Strunz’! A’ fess’ e’ zieta!»
Nella foga del gridare, però, Pio si sporse troppo e cadde.
Da lì sotto mi chiamava a squarciagola, ma la buca era troppo profonda perché riuscissi ad aiutarlo. Quello che so, me lo raccontò poi lui.
Le voci, assordanti, gli rimbombavano nelle orecchie, mi disse. Nonostante lo stordimento, si era accorto, nel buio, di un tunnel che proseguiva fino a chissà dove. Dopo i primi minuti di paralisi aveva deciso di percorrerlo. Non lo ha mai confessato, ma so che si fece sotto dalla paura.
Il condotto incontrava altri condotti in più punti, da ognuno di questi proveniva una differente parlata. Dopo un po’ di cammino, ne aveva raggiunto uno dal quale arrivavano voci che gli sembrava di capire. Lo aveva imboccato, sperando di trovare aiuto, ma si era sentito mancare il terreno sotto i piedi.
Era caduto ancora più giù, in una sorta di bolla d’aria sotterranea. La cosa straordinaria, raccontò, era che anche le voci venivano risucchiate dalla fessura, e rimanevano intrappolate in quella specie di campana di roccia. Lì, poi, riecheggiavano e riecheggiavano all’infinito, a centinaia, a migliaia: voci rapite che non sarebbero mai giunte a destinazione (disse proprio così, ma non allora. Lo disse in televisione, qualche anno fa).
Pio si era messo a piangere. Ancora peggio! I singhiozzi rimbombavano nella caverna mescolandosi alle voci. Anche questo non l’ha mai confessato, ma lo sanno tutti.
Poi, nel casino, una voce aveva detto: «Pio!».
Il pompiere si era calato nella crepa assicurato a una corda. Per riuscire a far passare i due corpi abbracciati, dovettero allargare la fenditura. Le voci fuggirono.
I miei genitori e quelli di Pio mi lodarono, e anche i maestri, dicendo che mi ero comportato in maniera ineccepibile. Ci sono anche vantaggi ad avere un amico con i genitori laureati. Uno di questi è che sapevo che 112 sono i carabinieri, 113 la polizia, 118 l’ambulanza e 115 i pompieri. Sapevo pure la guardia forestale, 1515, il Telefono Azzurro, che oggi non ricordo, e che per telefonare non c’era bisogno del gettone. Quella storia però mi ha lasciato lo stesso un gran senso di tristezza. Primo, perché avevo fatto scoprire la buca a tutta la città, ma ormai era vuota. Secondo, perché mi dispiaceva per le voci che si erano perse.
Oggi, che sono grande, sono sereno. Talvolta capita anche a me di ficcarmi in qualche tipo di buco, o di tubo, o di strillone elettrico, e di gridare lì quello che non riesco a gridare al mondo vero. E talvolta mi perdo, chissà dove.
La buca delle voci smarrite
di Eduardo De Cunto
Questo articolo è stato pubblicato in numero 29. Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.