Sul cadavere di Fiona Again
di Giovanni Buttitta

Un addetto alla manovalanza 
Mircea è andato fuori a prendere due birre dal furgone e io sono rimasto da solo con il cadavere nudo e imbalsamato di Fiona Again chiuso dentro una teca di vetro. In attesa di Mircea ho sistemato in uno spazio la sagoma di cartone in scala 1:1 di Fiona, ma mi è sembrata troppo decentrata, troppo viva e troppo sola e allora l’ho spostata quasi ai piedi della teca.
Mentre scaricavamo le due Fiona dal furgone, Mircea − come se fosse il proprietario tuttofare di un circo di periferia − ha detto: «Fiona bidimensionale, Fiona morta, Fiona di cartone, Fiona bifacciale, Fiona in un frame di Fiona e i Gladiatori da Monta, Fiona iconica, Fiona santa»; non erano parole sue, era l’attacco di un articolo sul tour Benedetta Fiona: ai confini di una nuova santità che il rumeno aveva imparato quasi a memoria. Il pezzo conteneva anche stralci di una dichiarazione di un noto teologo visionario da qualche tempo in voga.

Mircea ha tardato a tornare e io mi sono masturbato, ho schizzato sul coperchio della teca gocce di sperma e si è formato come un arcipelago. Sono venuto sulla santità di Fiona prima di quei palloni gonfiati dei suoi ex amici pornodivi. Blateravano come se stessero per entrare nella storia dalla porta principale e invece dovevano soltanto venire per l’ennesima volta a favore di telecamera.
Poi è arrivato Mircea con le birre, ha annusato l’accaduto e ha detto che era già venuto in passato su una salma (qualche anno prima, a Timisoara), mi ha allungato una bottiglia e ha cominciato a smanettarsi l’arnese. Io non avevo staccato gli occhi dal cartonato, lui era tutto concentrato sul cadavere. È venuto moltiplicando il numero delle isole dell’arcipelago, quasi il doppio rispetto a quelle che avevo fatto piovere io.
Alla fine ho pulito la teca con dei fazzolettini imbevuti che odoravano di violetta ammuffita.
La sera, Mircea, alla quarta birra, è tornato sulla contabilità delle gocce di sperma, pretendendo, alla luce di questa, il riconoscimento, per quanto simbolico, del ruolo di maschio dominante.
Io ho abbozzato.

Io 
Davanti ai cancelli chiusi della vecchia acciaieria la folla ha cominciato a radunarsi all’alba. L’ingresso che consente l’accesso al piazzale invece è stato aperto già la sera prima.
I muri perimetrali disegnano un rettangolo. C’è tanto spazio.
Alle dieci i cancelli sono ancora chiusi, dentro l’acciaieria non è ancora entrato nessuno, il sole è minaccioso, la fila è un pitone di dimensioni post-atomiche ricoperto di pelle umana, lucido di sudore e che si stropiccia il pacco. Un rosario di maschi in perizoma e infradito. Addominali, obesità, piercing, creste colorate, miopie, pelli grigie, tatuaggi, depilazioni, riporti, peli sui lobi, magrezze, sguardi vuoti, eccitazioni, compostezze, imbarazzi e altro compongono insieme onde sinusoidali irregolari che risaltano sull’asfalto.
All’ingresso, a tutti i presenti, a qualsiasi titolo, è stata consegnata una collanina, da questa pende una Fiona in argento a gambe divaricate fino a formare un angolo di centottanta gradi; invece, solo ai partecipanti, è stato messo al polso destro un bracciale in pelle nera largo sette centimetri con un numero riportato sopra sovrastato dalla scritta Benedetta Fiona. Io ho il numero 3.
I primi undici siamo, o siamo stati, tutti professionisti dell’hard venuti sin qui solo per Fiona (più un rimborso spese, più cinque giorni in pensione completa, più un extra in nero, più l’uso gratuito della sauna dell’hotel) e a nessuno di noi convince la piega che sta prendendo questa storia. Ma tant’è.

Tre uomini della sicurezza ci separano dagli altri, un addetto distribuisce volantini, riepilogano una serie di regole comportamentali:
11) non salutare gli amici a casa guardando dentro la telecamera;
17) non costituire fazioni;
22) non aprire dibattiti sulla classifica delle più grandi pornostar di tutti i tempi;
28) non familiarizzare.
In caso di infrazione gli addetti alla sicurezza impiegheranno un attimo ad afferrare il trasgressore per il collo, spostarlo di peso, cacciarlo via a pedate (qualora opponesse resistenza), marchiarlo come infiltrato, o abusivo, o indegno, o indesiderato, espellerlo, sputargli addosso e sostituirlo col primo candidato in attesa.
Ma nessuno ha voglia di bruciarsi l’opportunità della vita.
Per questioni legate agli sponsor non è permesso portare oggetti personali (regola numero 26), tranne che a noi pornodivi, avendo cura però di nascondere il marchio. Io, per esempio, ho con me un binocolo.

In un angolo del piazzale, in fondo, staziona una piccola folla in attesa. Ondeggia pigra come rami scossi da un vento stanco, sono gli operatori di alcune televisioni generaliste in attesa che parta l’evento. A loro sono permesse soltanto riprese in campo lungo e nessun dettaglio. Nascondono qualche curioso camuffato da addetto ai lavori.
In alto, sulla collinetta che domina il piazzale e l’acciaieria, a meno di quattrocento metri, un gruppo nutrito di persone sta organizzando un sit-in di protesta.

La presentatrice 
È stato lo stupore a farci perdere l’attimo. Ci siamo guardati, interrogati, smarriti e quando ognuno di noi, col terrore negli occhi, alla prima esplosione, ha cominciato a confermare al suo vicino che quello che sembrava stesse accadendo era esattamente quello che stava accadendo, era ormai troppo tardi.

L’operatore con la steadycam percorreva la fila, inquadrava i volti, staccava sulle zone genitali. Misurava l’attesa. L’evento stava andando in diretta e in esclusiva sul canale a pagamento per adulti Ah*Ah*Hard*, avevano scelto me come presentatrice per il mio passato nel cinema a luci rosse. Io che provavo a riciclarmi, alla mia età, all’interno di un ambito un po’ più mainstream. Giocavo le mie carte. Sfruttavo la scia iconica di Fiona; tentavo, nel mio piccolo, di far gravitare sulla mia testa una virginea e fluorescente aureola.
Vorrei ancora fare la televisione, condurre un programma della fascia tardo pomeridiana di una tv generalista. Il mio italiano, ormai, non è nemmeno tanto male.

Jimmy Sicily prima mi ha sorriso, poi si è abbassato, ha scrutato dentro la telecamera e ha detto: «La mia vita è stata solo un infinito piano sequenza»; si è rialzato e si è guardato attorno compiaciuto. Nessuno ha compreso il senso della sua affermazione. Le parole sono state assorbite dall’indifferenza, era un mondo poco interessato alle sfumature ermetiche, non incline a incoraggiare l’esibizionismo dialettico. Lui si è sentito velleitario, ma non ha avuto il tempo di ricollocarsi dentro una nuova posa e già la sua testa, assieme a porzioni di corpo di chi gli stava vicino, fendeva l’aria accelerando, decelerando, raggiungendo un punto per inerzia e iniziando la fase di discesa per poi rotolare sull’asfalto fino a stabilizzarsi a pochi centimetri da un pene mozzato alla base.

Da un articolo apparso sulla stampa alla vigilia della manifestazione 
Un teologo: «Basta con il monopolio della sacralità!» E ancora: «Se una multinazionale dell’intrattenimento per adulti si fa carico di spargere il seme di un nuovo credo, nessuno può impedirlo». E infine: «Sia benedetta ogni sintonia spirituale che mette in connessione gli esseri di questo cosmo. Se Fiona è nel cuore e nell’anima di uomini in adorazione, Fiona è già divina».

Un elemento del Gruppo di Azione 
I capi cellula ci danno le ultime indicazioni. Mimetizzati dentro tre furgoni di una catena di lavasecco rubati una settimana prima carichiamo adrenalina e concentrazione. Undici per ogni mezzo. Autista a parte. In dotazione – per ognuno −: un fucile d’assalto e cinque caricatori amovibili.
Gli autisti scendono, aprono i portelloni, i capi cellula saltano fuori per primi, salutano i responsabili dei vari gruppi, organizzazioni, associazioni. Si stringono la mano. C’è anche una donna anziana che annuisce e dice: «è necessario». Poi scendiamo noi, gli elementi operativi.
Io, assieme ad altri cinque militanti, sono già stato in questo posto. Un mese fa, per un lavoretto ben retribuito. Alla fine di un rave, abbiamo teso un agguato a un gruppetto di partecipanti e spaccato denti, ossa, compromesso bulbi oculari.

Quando arriviamo la protesta è in corso. Saranno stati poco meno di mille. Ritmano: «Per-ver-ti-ti-sa-re-te-pu-ni-ti», agitano cartelli spartani (cartone bianco rettangolare su bastone di legno di medie dimensioni) e hanno facce di chi non ha mai conosciuto la felicità. Due manifestanti indossano una vecchia maglietta con stampata sopra la faccia di un politico che nessuno nel 2016 avrebbe immaginato ancora in auge nel 2029. Tutti hanno l’espressione aggressiva di chi si sente minacciato. Qualcuno sbuffa, soffre l’attesa, mostra disgusto verso Fiona Again, il suo pornocadavere, la forma rituale, il piedistallo su cui è stata posta la salma di una pornostar a fine carriera morta dieci anni fa.

Io 
Un gruppo di necrofagi, circa venti, apre la rimanente parte del serpentone. Hanno tatuato sul petto il nome di un’associazione che lotta per il riconoscimento dei loro diritti. Sono rimasti accampati nei paraggi per almeno tre giorni. Non vedono l’ora, ci alitano addosso, ma non li incuriosiamo. Se ne fottono del porno, non amavano Fiona da viva, ma da morta e da imbalsamata, per loro, è diventata una specie di manifesto ideologico. Un simbolo feticista, la sublimazione della carne morta da strappare a morsi.
L’utopia, la comunione. Il sacro.
A seguire, i fan (o adepti o devoti o fedeli): quelli con le lacrime agli occhi e il cazzo in mano; quelli che hanno pagato un intervento di chirurgia estetica deturpante alla loro ragazza perché avesse il labbro superiore come quello di Fiona; quelli che hanno studiato la foto della fica di Fiona dibattendo di vaginoplastica e correzioni strutturali dentro chat dedicate; quelli che poi ne hanno parlato con le loro donne. Se glielo chiedi si inginocchiano e pregano. Sono loro i veri protagonisti del miracolo della santificazione.
La fila muore su due batterie di transenne disposte in parallelo che delimitano uno spazio di decantazione. Oltre questo spazio galleggia un altro centinaio maschi. Gli esclusi. Il cut-off è previsto al numero 501; e, allo stato attuale, il numero 502 è fuori.
Si tratta di panchinari dell’ostinazione, ossessionati senza mai essere folli. Esemplari di un maschio con meno voglia di sacrificarsi, con meno furore dentro il cuore, o − chi può dirlo −: l’anello debole della selezione naturale. E per questo sono finiti dietro. Avvinghiati all’idea di un ripescaggio colmo di se e traboccante di ma, e destinato ad affogare dentro una pozzanghera di bla bla bla. Rischiano, tranne improbabili stravolgimenti in extremis, di non poter omaggiare Fiona, di non schizzarci sopra, di sentirsi dire «Ora, basta! Andate a casa» dagli addetti alla sicurezza. Ma rimangono in fila, si augurano che qualcuno non ce la faccia, schiatti sotto il sole, o si converta, lungo il tragitto, alla pratica dell’autocastrazione. Sperano perché non hanno quasi nulla in mano, nemmeno la rassegnazione. Hanno avuto la loro occasione. L’hanno fallita.
La notte del decimo anniversario della morte, a partire dalle tre, i primi quattrocentonovanta che in ordine temporale hanno postato sul sito di Fiona una foto del loro cazzo mentre viene su un’immagine di Fiona hanno acquisito il diritto a essere fonte di benedizione.
Dopo trentatré secondi la classifica era stilata, il concorso chiuso. Centesimi di secondo hanno determinato destini.
Prontezza, tenacia, organizzazione, rimbalzi da un server all’altro, velocità digitali. Una certa confidenza con i selfie, e quindi con l’autostima. E qualcuno è dentro e qualcuno è fuori.
È l’anno 2029, c’è posto soltanto per i reattivi.
E i necrofagi hanno battuto tutti gli altri sul tempo.

La presentatrice
Sarebbe servito un cordone costituito da elementi delle forze dell’ordine in assetto antisommossa per proteggere i fan di Fiona, gli altri presenti, i curiosi e le troupe televisive, a cominciare dalla nostra. Agenti da mettere in mezzo, in modo che A non venisse a contatto con B. E non una decina di uomini di un’agenzia di sicurezza privata. Con uno schieramento di agenti l’assalto non sarebbe stato nemmeno pianificato. Ma le autorità, in genere, schifano l’umanità che gravita attorno al mondo del porno, e sottovalutano le potenziali e pericolose conseguenze di un mancato presidio.
Qualcuno, come quel teologo visionario, l’appuntamento l’ha caricato di significato, ma si stava facendo soltanto business.

Io 
Rudy Orgam è arrivato da Chicago, quando Fiona iniziava lui era agli sgoccioli, è stato il primo sul suo primo set, è giusto che apra la fila, è quasi anziano e il suo sorriso di plastica è sempre lo stesso. Io sono il terzo, alla presentatrice ho appena detto: «Non è semplice, né divertente, gemere a comando».
Poi lei mi chiede chi sono tutti questi fan di Fiona che oggi si sono dati appuntamento in questo posto, io rispondo: «A parte i necrofagi e qualche presenzialista e/o esibizionista, trovi soprattutto romantici, innamorati, nostalgici, o, come dite voi: devoti».
Rudy Orgam sente la necessità di dire la sua, si avvicina al microfono, la presentatrice lo incoraggia con un cenno della testa e dopo che entrambi hanno sorriso alla telecamera gli cede la parola: «Loro sono qui per poter dire un giorno “io c’ero”» dice Rudy in inglese più una spruzzata di italiano, «per poter dire un giorno “io sono stato col cazzo in mano a trenta centimetri dal cadavere imbalsamato di Fiona e dopo essermelo smanettato, e dopo essermi massaggiato le palle con l’altra mano, e dopo aver frugato un’ultima volta dentro il suo corpo, le ho schizzato su una guancia, sulle palpebre chiuse, le ho sfiorato la punta delle ciglia”». Io annuisco, Rudy continua: «Per poter dire un giorno “ho visto una goccia depositarsi sulle sue labbra e poi, ancora col cazzo duro, sistemato come si può dentro le mutande, due addetti alla sicurezza mi hanno accompagnato fuori”». La presentatrice fa un cenno con la testa come per intendere può bastare così, Rudy chiude: «Per poter dire “l’ho amata”». La presentatrice sorride, traduce dall’inglese – sintetizza il concetto − e vorrebbe passare a qualcun altro; al numero 8, per esempio. Frankie I.O.X.
Frankie, che non è mai stato di tante parole, dice − sempre in inglese −: «Sono tutti qui per poter raccontare di questa atipica forma di genuflessione».
La presentatrice risale la fila, io allungo il braccio e la blocco, lei mi vorrebbe sbranare ma sorride, ho ancora qualcosa da dire: «Non è stato facile per una ragazza dell’entroterra laziale sfondare nel mondo del cinema a luci rosse americano coperta soltanto da un nome d’arte: Fiona Again. Tu che vieni da un paesino a non so quanti chilometri da Bratislava, lo dovresti sapere».
La presentatrice sorride al cenno biografico mentre sfoggia due occhi nostalgici, ricorda che ora è cittadina italiana, e prosegue.

Degli addetti fanno su e giù, distribuiscono ai partecipanti bevande energizzanti, protezioni solari, acqua, panini unti che soffocano dentro pellicole mosce, pillole di colore diverso per, se necessita, agevolare l’erezione. Altri addetti, dotati di una borsa frigo con tracolla, offrono ghiaccioli al gusto limone, fragola, arancia, chinotto, menta.
Su un maxischermo, piazzato alla parete, a destra dell’ingresso dell’acciaieria, scorrono le immagini sgranate di un letto a baldacchino a una piazza. Un velo di tulle lascia intravedere una teca aperta e un cadavere all’interno. Un addetto alla scenografia sistema un cuscino posato su una poltrona piazzata accanto al letto, si palpeggia i genitali ed esce. Non c’è audio.
La presentatrice si è allontanata, a poca distanza dall’ingresso dell’acciaieria uno spazio è stato trasformato in uno studio televisivo all’aperto. È seduta su un divanetto rosso e intervista un regista, un decano dell’hardcore. Uno che l’ha traghettato dalla pellicola al digitale.

La presentatrice
A un regista, ospite del nostro salotto, avevo chiesto: «Che ha significato Fiona per il suo mondo?», lui ha risposto: «Fiona Again, detta anche La Missionaria, detta anche La Vestale, detta anche La Misericordiosa, non dimentichiamolo, per il porno è stata Dio. D’accordo, un dio con una malformazione al labbro superiore − cheiloschisi in una forma invasiva − ma questo non ha fatto di lei un dio fenomeno da baraccone, e nemmeno, soltanto, un dio per gli amanti del sesso orale con annessa variante. Fiona è stata un valore assoluto».
«E oggi, dopo dieci anni, un dio con la necessità di un ultimo miracolo!» avevo chiuso io, invitando, col gesto della mano, ad andare sull’immagine di cinquecento maschi, ordinatamente in fila, che sotto un sole sempre più aggressivo aspettavano di poter benedire Fiona.

Jimmy Sicily 
Passano le immagini di un video di repertorio, c’è Fiona, in uno studio, nuda, bionda, ripresa di spalle. S’inginocchia, inarca la schiena, alza di scatto le braccia verso il cielo, gira la testa e ammicca al pubblico.
Fuori, un boato cannibale.
Stacco.
Ora lo schermo è diviso in due: lo sguardo dolce di Fiona cristallizzato, a sinistra; il cadavere manutenuto di Fiona congelato, a destra.
Cala un silenzio, dilaga il cordoglio, poi un primo applauso, Rudy alza le braccia e ritma un invito, si accodano altre mani, si accodano le lacrime e la commozione trattenuta a stento. Piangiamo tutti, anche noi professionisti. Siamo un unico animale pronto alla battaglia, ci facciamo forza con un altro urlo. Liberatorio, corroborante, blocca-pianto.
Non è vero quello che la presentatrice continua a ripetere, non è così che l’avrebbe voluta Fiona la sua consacrazione. Lei avrebbe voluto vera acqua benedetta e non un paio di litri di sperma.
Sono i rischi che si corrono quando dentro la vendita dei tuoi diritti di immagine accetti anche un breve elenco di condizioni post mortem. Se da viva ti vendi il tuo cadavere, poi qualcuno ci fa quello che vuole. Sono i contratti, bellezza. Sono le mani sui diritti d’immagine.

Io 
Due della sicurezza lasciano passare l’ex agente, il suo volto è una maschera tragica. È arrivato su una decappottabile nera, porta occhiali da sole. Scende dall’auto assieme al vecchio Fuck (è stato il partner di Fiona nel suo ultimo film: Un Amore di Dobermann) e tre sosia di Fiona che si sono sottoposte, ognuna, a più di cento interventi di chirurgia estetica per ottenerne una credibile versione plastificata.
La presentatrice, microfono in mano, avanzando a fatica sui tacchi, gli va incontro. Lui con un cenno lascia intendere di non voler rilasciare dichiarazioni, il cane abbaia, lei insiste, allora lui si toglie gli occhiali e dice la sua: «Sappiate che nel porno incontri di tutto: ragazze che pensano di stare al luna park e non vedono l’ora di salire su una fantasmagorica giostra di cazzi, e poi rimangono deluse quando capiscono che è solo lavoro; ragazze che non hanno nessuna voglia, ma a casa hanno un bambino da crescere; e altre, a volte bellissime, ma dall’umore pessimo. Non per tutte è una predisposizione naturale. Fiona era diversa, Fiona era unica, Fiona ci è mancata e ci mancherà».
Applausi.
Mikey Lee Peng, un’ex stella, padre nigeriano, madre coreana, tratti asiatici prevalenti, ora sposato con un’ereditiera inglese proprietaria di una villa in Toscana, mi dice − e non so perché −: «A me solo le eroinomani mi sono sempre state sul cazzo, sono le peggiori: sui primi piani offrono uno sguardo ammazzaseghe: svogliato, labirintico e vacuo. Sulla scena ti fanno sentire solo, a volte ridicolo, e quasi sempre un pezzo di merda».
Io concordo: «Mikey, hai ragione. Complicano anche il montaggio. Devi tagliare, scartare. Con i loro sguardi messi in fila ci costruisci un video-manifesto sulla droga che va a braccetto col mondo del porno».
Lui dice: «È questa gente che alimenta i luoghi comuni».
E io dico: «Lo presenti a un festival di cinema indipendente e qualcuno scriverà delle carcasse umane arenate sulle spiagge degli inferni immorali».
Lui dice: «È vero».

Sulla collinetta i contestatori si agitano, in lontananza si vedono arrivare tre furgoni bianchi. Prima penso a delle ambulanze, poi mi rendo conto che si tratta di tre mezzi di un’attività commerciale il cui nome mi è sconosciuto. Per Jimmy Sicily è solo folklore bigotto.
Qualcuno dei contestatori si stacca del gruppo, da ogni furgone scende un uomo. Stringono mani e inizia una sorta di conciliabolo che sa di ultima concertazione. Poi vengono fuori altri uomini e si schierano come fossero truppe in attesa di un ordine.
Nel piazzale gli altoparlanti annunciano che tra trenta minuti si apriranno le porte dell’acciaieria. Entreremo cinque alla volta, tranne Rudy Orgam, che entrerà per primo ed entrerà da solo.

La tensione è un’enorme cupola di cristallo, Rudy viene chiamato, si avvicina, varca la soglia, l’operatore con la steadycam lo segue. Rudy cammina con un passo sicuro, ma non abbastanza per nascondere un nodo in gola. Il letto a baldacchino è piazzato al centro di un tempio di archeologia industriale. Sullo sfondo, scheletri di macchinari, ruggine e lamiere. Fiona, dentro la teca scoperchiata, è al centro del letto e anche se è morta da dieci anni è più bella di Biancaneve. Rudy le sfiora una mano, poi la fronte; agli altri non sarà concesso. Le accarezza i capelli biondi, bacia l’indice e il medio della sua mano sinistra e poi le labbra, quindi tira fuori il suo cazzo e comincia a toccarsi. Gli passano un libro, lui con la sinistra lo mostra alla telecamera. È un instant book, un suo libro di memorie, aneddoti, fatti, dettagli sulla preparazione necessaria per girare scene di sesso anale. Approfondimenti sulla lubrificazione. Racconta anche di Fiona vista da chi ci ha lavorato assieme. In parte, anche della Fiona privata. Perché nel porno, malgrado quello che si possa pensare, tolte le penetrazioni, i pompini, le immedesimazioni, e le eiaculazioni a tempo, rimane, comunque, molta letteratura.
Rudy parte lento e sicuro, rimane credibile, sul maxischermo passa lui ripreso di spalle; poi, lui frontale che si masturba; dopo, i dettagli più intimi del cadavere di Fiona. Questi, assieme alle immagini dei volti, dello sperma e dei genitali dei soggetti coinvolti sono esclusiva del canale a pagamento.
Fuori la folla applaude. Dopo tre minuti Rudy viene. Ora la folla lo acclama. Lo accompagnano fuori. Esce, alza le braccia e ricambia l’applauso tenendo sempre in mano il suo libro.
Ora tocca a noi, siamo pronti, c’è da portare il nostro tributo, il nostro patto di sangue, il nostro tot di sperma.

La presentatrice 
Nello studio all’aperto era arrivato un prete, noto frequentatore di salotti televisivi. Si è seduto sul divanetto e sembrava già sapere cosa dire. Gli ho chiesto: «Padre, che significa tutto questo?» «Vede» ha risposto, «se un giorno Dio decidesse di far calare il sipario, smontando i burattini e subito dopo la baracca, stanco e frustrato per tutto questo mare di male e in mezzo qualche atollo di bene precario, temporaneo e parziale; sono certo che lui non uscirebbe mai di scena senza prima aver messo su un ultimo miracolo; se non altro, per il piacere effimero di dimostrare a se stesso che il talento c’era, le intenzioni pure, ma solo una serie di eventi contrari, assieme a un pugno di destini che si sono messi di traverso, non hanno permesso la transizione dalla Bestia al Divino. Lo farebbe giusto per far esclamare alla gente: “Cazzo, però i miracoli li sapeva fare!”»
«Come Fiona» ho aggiunto io; «Appunto» ha confermato il prete. Alla fine, l’intervento del sacerdote si è chiuso con queste parole: «Mi permetta una sottolineatura un po’ polemica: alcune procedure di manutenzione di un corpo imbalsamato risultano beffarde e paradossali per un’ex pornostar, mi riferisco all’uso di certi derivati siliconici in alcuni punti strategici, o alla bocca che viene cucita…» Ha sorriso alla telecamera e si è alzato.

Un elemento del Gruppo di Azione
Nei comunicati di rivendicazione ci siamo firmati come G.A.M. (Gruppo Armato per la Moralizzazione), ma cambiavamo acronimo in funzione dell’azione. L’importante era esserci; l’importante, come dicevano i capi cellula, era mandare un messaggio forte al Paese.

Sfumano i toni, si incrociano sguardi, arriva un cenno d’assenso, si alzano in volo sei droni, sono armati di esplosivi simili a granate. A distanza di un minuto altri sei. La prima mezza dozzina va ad aleggiare sopra il piazzale, sono gli angeli della morte, sono la forma più abusata di una metafora e sganciano.
Quelli che non muoiono scappano, strisciano, rotolano in direzione dei muri di cinta in cerca di un riparo materno.
Poi l’altra serie.
Quando cala il silenzio, e si sente soltanto il dolore col suo lamento, noi cominciamo a procedere a ventaglio. Scendiamo la collina. Siamo calmi e inclini alla spietatezza, gli anfibi fanno presa sul terreno, i fili d’erba secchi che si frantumano appartengono a un’altra memoria: io a otto anni, assieme ai miei genitori, durante un picnic.
Entriamo nel piazzale, cinque passi e ci blocchiamo. Ci ridisponiamo a ventaglio, c’è odore di carne bruciata e polvere da sparo, ci sono esseri umani contro un muro e scarti di macelleria sparsi per terra, assieme a occhi senza lacrime per un surplus di terrore. Suggelliamo il lavoro: trenta fucili d’assalto vomitano proiettili sino alla cancellazione di ogni residua integrità, sino allo svuotamento di ogni caricatore. Muoiono: quelli in fila, quelli che speravano di subentrare, i curiosi, gli addetti alle riprese, gli elementi dell’equipe televisiva con diritto di esclusiva, quelli delle tv generaliste. Sapremo poi che si salvano: la presentatrice, una miracolata, che si lancia fingendosi morta su un cumulo di cadaveri e uomini seminudi agonizzanti; cinque pornodivi, dal numero 2 al numero 6, che si trovavano già dentro l’acciaieria; e per lo stesso motivo si salvano: quattro uomini della sicurezza, sei addetti alle riprese e due preposti al set.
Conclusa l’operazione andiamo via, tra gli applausi composti dei manifestanti appostati sulla collina.

Risalendo inciampo su un polpaccio depilato, lo scalcio, raccolgo da terra un volantino che ritrae: da un lato, mia madre dentro la teca; dall’altro, sempre lei con un fischietto in bocca tra due schiere di uomini nudi, lucidi e sorridenti sulla copertina della videocassetta di Falli laterali. Lo raccolgo, lo piego, lo metto in tasca, mentre stringo più forte il mio fucile.

Questo articolo è stato pubblicato in numero 28 e ha le etichette , . Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.