«Ho come un battito d’ali nel petto.»
Victor Hugo
Eravamo così poveri che, ogni sera, invece di restare seduto guardando i piatti vuoti, mio padre batteva un pugno sulla tavola, e urlava che ero stata cattiva, ed elencava la lista interminabile delle cattiverie commesse a casa e a scuola, e concludeva che se avevo il male dentro, non c’era altra soluzione, e mi spediva a letto senza cena.
Io mi alzavo dalla sedia, e fissavo la faccia rossastra di mio padre, cosa infinitamente migliore che fissare il biancore dei piatti vuoti, e dicevo scusa, dicevo non lo farò mai più, anche se non avevo fatto nulla di cui farmi perdonare, e a capo chino infilavo la via del corridoio.
E una volta in camera mia, chiudevo subito la porta, e cercavo di non sentire le urla di mio padre e di mia madre, i piatti che si schiantavano contro le pareti, e prendevo i libri dallo zaino, e legavo i capelli in una coda, e continuavo a studiare scienze naturali, almeno fino a quando la stanchezza non faceva di me una piccola alga fluttuante nella piccola luce della lampada.
Ma non c’era modo, poi restavo tutta la notte con gli occhi aperti, e mi giravo nel letto, e non riuscivo a prendere sonno, e tutto questo per via del mio stomaco, che a volte emetteva oscuri brontolii, altre volte veri e propri discorsi con una voce che non sapevo che sesso avesse.
Io fissavo la finestra, e nel cuore della notte, quando i rumori erano svaniti, e i piatti rotti erano stati raccolti in un sacchetto, e mio padre e mia madre dormivano appaiati sotto le coperte come coltelli dentro un cassetto, in quel momento sentivo la voce del mio stomaco, e mi giravo a pancia in su per sentire meglio.
La voce del mio stomaco diceva che dovevo volere bene a mio padre, che una cosa era la povertà, una cosa era mio padre, che non c’era modo migliore di volergli bene che distinguere l’una dall’altro, però io rispondevo che avevo fame, sempre fame, solo quello, e la voce del mio stomaco diceva che anch’io avevo ragione.
Allora mi alzavo, e allungavo i piedi nudi sulle mattonelle, e aprivo la finestra senza far rumore, e l’aria era così gelida perché avevo solo il pigiama addosso, ma non me ne curavo. Dal davanzale saltavo sul ramo di un albero enorme che saliva dal giardino e proiettava le sue foglioline in ogni direzione.
All’inizio avevo paura del vuoto, poi continuavo a camminare sul grande ramo, aderendo con i piedi alla corteccia e bilanciandomi con le braccia tese in fuori. E arrivata al tronco, mi arrampicavo, e salivo ancora più su, e tendevo verso il ramo dove se ne stavano appollaiati la notte tutti quegli uccellini.
Io lo sapevo che lassù c’erano tutti quegli uccellini, li sentivo ogni mattina dietro la finestra, erano loro che con il becco affilato bucavano il sacco scuro della notte, lasciando uscire il sole prigioniero, salutando il sole con inesauribile dispendio di cinguettii – e infatti eccoli su quel ramo uno dietro l’altro.
Gli uccellini sembravano tante note nere sul rigo nero di un pentagramma nerissimo, e come poteva essere altrimenti? Se spaccavi gli uccellini dentro c’era la musica, la musica che riversavano dal becco la mattina – e io mi mettevo a cavalcioni del ramo che li ospitava e mi avvicinavo lentamente.
Gli uccellini dormivano uno addosso all’altro, solo le testoline spiccavano evidenti in una grande confusione di piume – e mio padre, quando non urlava, mi aveva insegnato che era quello il modo degli uccellini per trattenere il calore nella notti più fredde, stringersi l’un l’altro con il calore che si irradiava tra i corpicini, e allora gli avevo detto che anche noi nel lettone facevamo così un tempo, quando io ero piccola e dormivo tra mio padre e mia madre e la povertà non ci aveva ancora costretti a fissare i piatti vuoti.
Ah, non c’era cosa peggiore in quel momento, perché quel ricordo mi faceva tremare orribilmente, e dovevo stringere forte il ramo per non cadere, pensando intanto che, se non volevo diventare così cattiva come urlava mio padre, sarei dovuta tornare subito indietro, infilandomi sotto le coperte.
Ma non ero più una bambina, ero una bocca vuota, ero una fame smisurata, e allora, avvicinandomi, sentendo lo stomaco brontolare orrendamente, acciuffavo un uccellino, lo staccavo dal ramo, lo portavo alle labbra – e per non fare soffrire l’uccellino ancora placidamente addormentato, neanche masticavo, lo inghiottivo direttamente.
L’uccellino dentro di me sbatteva le ali, le sbatteva al punto che il mio stomaco si apriva, si dilatava, e io sentivo ancora più fame, e proprio per questo, senza più disporre di me stessa, prendevo gli uccellini, a due a due, come ciliegie, e li infilavo in bocca, e li mandavo giù, avidamente.
Poi, sazia, come ubriaca, senza più coscienza, e per questo sempre sul punto di cadere, tornavo indietro, ripercorrevo il grande ramo, e saltavo dentro la finestra di camera mia, e chiudevo la finestra, e mi infilavo sotto le coperte, tremando miseramente, raccogliendomi in posizione fetale, cercando di comprimere così tutto il frullio degli uccellini che sbattevano forsennatamente le ali dentro di me.
Se dovessi dire il numero degli uccellini che ho mangiato in tutti questi anni, proprio non saprei rispondere.
Sapevo soltanto che in seguito a questa dieta crescevo intensamente, mettevo su carne, ossa e capelli, non avevo più fame, e se mio padre urlava tanto da divenire una maschera rossastra, io non rispondevo mai a tono, anzi facevo di tutto per non farlo sentire in colpa per questa situazione, e restavo mite e fiduciosa davanti a lui, e una volta, sentendo quel frullio di ali dentro di me, confessai a mio padre che aveva proprio ragione, ero una bambina cattiva ed egoista, ma in un modo che neanche lontanamente poteva immaginare.
A lungo andare però mio padre non urlò più, neanche mia madre urlava, forse perché ogni mattina, mia madre, svegliandomi per andare a scuola, mi ritrovava in quelle condizioni, e chiamava subito mio padre, e tutti e due, con grande sgomento, fissavano per lunghissimi minuti le piume degli uccellini rimaste incollate alle mie labbra, finché io non riaprivo gli occhi e li scoprivo lì, mio padre e mia madre magrissimi e smunti e ripiegati sul segreto inesauribile della mia infanzia, io che crescevo a dispetto della povertà.
Ah, ma erano così dolci quei risvegli, perché poi mi rannicchiavo ancora sotto le coperte, e mio padre e mia madre, poco per volta, calorosamente, dimostrando pazienza infinita, mi tiravano fuori da lì, e mi dicevano che era tardi, che dovevo andare a scuola, che non potevo perdere scuola per nessun motivo, che solo la scuola un giorno mi avrebbe salvata dalla povertà assoluta – e io mi sfregavo le palpebre con i pugni, tiravo via le piume dalle labbra o ne sputavo qualcuna, e baciavo teneramente mio padre e mia madre, e sentivo tutti quei cinguettii fuori dalla finestra che glorificavano il sole mentre saliva nel più alto dei cieli.
Certo, la dieta degli uccellini non spense solo le urla di mio padre e di mia madre. Anche il mio stomaco si adeguò alla nuova situazione, e non brontolò più, non si diffuse in ampi discorsi la notte mentre mi rigiravo nel letto – e a essere sincera la cosa mi dispiacque immensamente, dato che io, non sentendo più i discorsi del mio stomaco, ma solo quei continui frullii di ali dentro di me, sembravo non avere più accesso a me stessa, essendomi ormai abituata a quella voce borbottante che di tanto in tanto faceva il punto su come stava andando la mia vita, prodigandosi con tutti quei consigli.
All’improvviso pensai pure che c’era del buono nella fame, che divenendo così poveri si affinavano certi strumenti particolari di ricognizione della vita e di se stessi, che la sazietà ti ottundeva miseramente, e presa anche dai sensi di colpa, per qualche giorno, prima di arrendermi a una fame infinita, smisi di acciuffare e ingoiare gli uccellini, poiché immaginai che a lungo andare, mangiandone così tanti, gli uccellini sarebbero terminati, e i rami dell’albero davanti alla mia finestra sarebbero rimasti sguarniti per sempre e nessuno avrebbe più reso grazie al sole.
Ma gli uccellini, come l’appetito, non terminarono mai, anzi più ne prendevo dentro di me, più sembravano moltiplicarsi sui rami, occupando smodatamente tutti gli spazi tra le foglioline, e cinguettando alla luce del sole così intensamente, che quella festa alle volte sembrava volgersi nel suo contrario, e io mi trovavo a stringere le mani alle orecchie come sotto un’invasione di aerei nemici.
Così mangiai gli uccellini, e finii le scuole elementari, le scuole medie, arrivai al liceo, mentre le cose sembrarono trovare una loro stabilità, con la povertà che se da un lato ci chiudeva terribilmente, dall’altro sembrava aprire qualche spiraglio.
Mio padre rimediò dei lavoretti in un’officina, mia madre lavava le scale dei palazzi qui vicino, io uscendo da scuola lavoravo in nero in un vivaio, e se il biancore dei piatti vuoti sembrava svanito, e per cena c’era sempre qualcosa da mangiare, io guardavo mio padre e mia madre così provati e smagriti, e toccavo il meno possibile quanto era apparecchiato sulla tavola, sapendo dove avrei trovato di che sfamarmi. Io non mi vergognai mai della nostra povertà, non mi vergognai mai di mio padre e di mia madre, ma quando camminavamo insieme per strada la gente si accorgeva della differenza tra di noi, poiché, seppure così somiglianti, avevamo corpi nettamente diversi, costituzioni diverse, la mia pelle non fu mai giallastra, non persi i denti, le mie unghie non si macchiarono mai.
Con tutti quegli uccellini dentro, io ero cresciuta floridamente, i capelli lunghi lunghi, e non c’era posto dove andassi in cui non mi considerassero una bellezza, sebbene io non avessi di che truccarmi, e disponessi soltanto di grandi felpe con il cappuccio, non facendo nulla per avvalorare i fischi per strada o i commenti più sconci – anzi, poiché non facevo che leggere e prendere in prestito i libri di scienza naturale in biblioteca, mi appartavo ovunque, sceglievo gli angolini più nascosti, e approfittavo di certi coni d’ombra per sprofondare dentro le pagine che mi avvicinavano ai segreti dell’universo, e lo stupore per come si riproducevano le piante o sbocciavano le galassie alle volte era così intenso che mi sembrava di svenire.
Con questa presunta bellezza, però, dovetti presto fare i conti. Hai voglia a dire che non me ne importava nulla, che non ne sapevo nulla, che la bellezza era come la povertà, capitava, ti si attaccava addosso senza poterci fare niente – una mia compagna di classe, bellissima anche lei, sentendo tutte quelle voci sul mio conto, venendo a conoscenza di cosa scrivevano i nostri compagni sul muro dei bagni, decise che non c’era da aspettare oltre, e che avremmo stabilito una volta per tutte chi fosse la più bella, e che per deciderlo ci saremmo battute all’ultimo sangue sul retro del liceo.
Le mie compagne di classe furono così felici a quell’annuncio, batterono le mani e mi coprirono di baci, sicuramente non avevano mai visto correre del sangue, doveva essere quello che le eccitava tanto, e per non deluderle lasciai che una domenica mattina venissero a prendermi a casa, e mi legassero i capelli con un elastico, e mi istruissero su come colpire la mia rivale per farle più male, scortandomi poi verso il retro del liceo.
Tutto avvenne dentro un grande cerchio di ragazze che urlavano parteggiando furiosamente per l’una o per l’altra – ma al contrario della mia rivale, io non la morsi, non le tirai i capelli, tantomeno le cacciai le dita negli occhi o le resi le ginocchiate.
Non volendo vincere, mi lasciai pestare, ma la lotta sfumò rapidamente – ogni volta che la mia rivale mi colpì allo stomaco sputavo un paio di uccellini svolazzanti, e invece di urlare mi sfuggivano dalle labbra dei terribili cinguettii, e la cosa spaventò a morte tutte le ragazze, e prese dal più cieco terrore presto ruppero il cerchio e mi lasciarono sanguinante sul retro del liceo, e io quasi mi strozzai con tutte quelle piume in gola, e non ci fu modo di calmare gli uccellini che sbattevano forsennatamente le ali dentro di me.
Ma c’era qualcosa che mi rendeva perfino più povera della povertà assoluta. Perché io lo vedevo come si cercavano i miei compagni con le mie compagne, sussurrandosi all’orecchio paroline che imporporavano subito le loro guance, passandosi dei foglietti ripiegati durante le lezioni, appartandosi sulle scale antincendio del liceo, facendomi sentire così sola mentre si davano l’un l’altra le labbra con un trasporto a me sconosciuto.
Nel cuore della notte, dopo essermi sfamata con gli uccellini, mi rigiravo sotto le coperte, e mi toccavo tutta, mi toccavo dolcemente, sfrenatamente, come temendo di aver perso qualcosa, e ritrovando di colpo tutta me stessa stiravo il collo, e soffiavo parole a me stessa incomprensibili dalla bocca aperta, e colma di languore sentivo solo una gran voglia di piangere, di lasciarmi andare, di sprofondare da qualche parte senza più coscienza, mentre tutti quegli uccellini frullavano le ali dentro di me.
Per la verità, già un mio compagno si era avvicinato e mi aveva fatto recapitare certi foglietti ripiegati, ma io, leggendo le sue frasi ridicole e sgrammaticate, provai non solo paura, ma vero e proprio terrore – e se convocai il mio compagno nella palestra vuota del liceo, poi lo colpii tremendamente, e lo schiaffo risuonò per tutta la palestra, e gli urlai di non cercarmi più, di non riprovarci per nessun motivo, lui e i suoi stupidi foglietti.
Avevo paura che cedendo alle sue richieste, appartandomi con lui, anche se proprio non mi piaceva, giusto per provare almeno una volta cos’era questa cosa chiamata amore, una volta posate le mie labbra sulle sue, aprendo quel cunicolo imprevisto, gli uccellini sarebbero passati in stormo dal mio petto al suo, uccidendolo all’istante, lui che non era avvezzo al frullio forsennato degli uccellini, non avendone mai mangiato uno.
Quell’anno, come tutti gli anni, fu organizzata la gita di classe. Ma neanche allora mi permisi di chiedere i soldi a mio padre e a mia madre, o di sfilare a loro insaputa la somma che mi serviva da quanto guadagnavo al vivaio. Versai come sempre la mia misera paga nelle loro mani, e piansi – ma durante i giorni in cui tutti i miei compagni erano lontani, sgranando gli occhi davanti alle cupole dorate di chissà quale città, aspettando in realtà solo il momento in cui la notte, eludendo la sorveglianza dei professori e sfruttando i balconi dell’hotel, si sarebbero ritrovati tutti nella stessa stanza, accoppiandosi ripetutamente e passando di bocca in bocca, io mi chiusi in biblioteca, e lessi accanitamente non solo i libri di scienza naturale, ma tutto ciò che sembrava parlarmi direttamente, e così feci esperienza del mondo, riuscendo solo in parte a calmare gli uccellini che vorticavano tremendamente dentro di me.
Trovai così quel verso in un libro di poesia, «l’acqua s’impara dalla sete», ed erano così vere quelle parole, e tanto terribili, che a lungo andare persi il respiro pensando di non recuperarlo mai più. Tutto ciò che sapevo dalla vita lo avevo imparato sempre dal lato sbagliato, dal lato della fame, della sete, della povertà, della mancanza assoluta, come se io in realtà non avessi mai avuto a che fare con il mondo vero e proprio ma con la sua forma cava, modellando e riempiendo il vuoto delle cose con la mia immaginazione.
Ma in quei giorni apparve in biblioteca un ragazzo nuovo che non avevo mai visto prima. Aveva i capelli ricci, gli zigomi alti, la palpebra destra che non si abbassava del tutto, e io notai come l’occhio sotto la palpebra calata a metà, anche quando quel ragazzo sembrava sfuggire il mio sguardo, in realtà mi seguisse dappertutto e mi cercasse ovunque.
Iniziai a incontrare quel ragazzo in biblioteca. Ma mai una volta mi lasciai sorprendere in una posizione a lui favorevole per rivolgermi parola o chiedermi come mi chiamassi. Sedevo nel banco più appartato della biblioteca, e passavo il tempo a leggere con il viso nascosto dal cappuccio della felpa.
Ma approfittando della tenerezza che mi riservava la bibliotecaria, un’insegnante in pensione che mi lasciava tenere i libri più a lungo delle scadenze di consegna, ebbi accesso ai registri della biblioteca, e avvertendo quel grande frullio di ali dentro di me presi nota di tutti i libri che richiedeva quel ragazzo, e immancabilmente, ogni volta che lui li riconsegnava, io li prendevo in prestito, e uscendo dalla biblioteca li stringevo al petto come se fossero la cosa più preziosa.
Lessi tutti quei libri avidamente, proprio come quando mangiavo gli uccellini – senza sapere perché, senza avergli mai rivolto la parola, volevo entrare nella testa di quel ragazzo, e imparare quello che imparava lui, sentire quello che sentiva lui, fare avventura come la faceva lui, condividendo in tutto e per tutto quegli strani paesaggi delle mente in cui la vita sembrava avverarsi nella sua forma più pura, non essendoci distinzione tra la vita e la morte, il godimento e la sofferenza, i regni e le specie.
Eppure, per la prima volta in vita mia, più leggevo quei libri più non li capivo, come se le parole mi si rivoltassero contro e le gambette delle lettere dell’alfabeto si aggrovigliassero in un rovo spinoso. Così quel pomeriggio piansi, e la bibliotecaria non riuscì a fermarmi per chiedermi cosa era successo, e corsi via dalla biblioteca senza respirare.
Ma appena trovai una panchina, trovai pure quel ragazzo, poiché, vedendomi tanto sconvolta, lui mi seguì, e mi chiese se avessi bisogno di qualcosa, e siccome io piangevo e tremavo dentro la mia felpa, lui mi allungò un libro come se fosse un fazzolettino appena sfilato dalla sua borsa a tracolla, e mi disse che era un regalo, che qualsiasi cosa mi fosse capitata quel libro avrebbe asciugato ogni mio dolore e smarrimento.
Acciuffai allora il libro dalle sue mani, lo scagliai a terra furiosamente. Urlai che non me ne facevo niente del suo libro, che non sapevo più leggere. E notando come mi guardava, lui che continuava a fissarmi con la palpebra calata a metà, mi spaventai tremendamente, e corsi via anche da lì, sentendo il suo sguardo addosso anche se intanto io avevo girato l’angolo, e tra lui e me stessa non si contavano neanche più gli alberi e i palazzi di mezzo.
A casa, entrando disperatamente, mi gettai con le braccia al collo di mia madre. Non lo avevo mai fatto prima, mia madre si spaventò oltre misura. Così mi strappò subito le braccia dalle sue spalle, e frugò il mio corpo con gli occhi spalancati, e mi chiese se qualcuno avesse approfittato di me mettendomi le mani addosso.
Ma ero troppo scossa per parlare, e ci provai solo quando qualcosa dentro di me cedette all’improvviso, e d’un tratto smisi di singhiozzare, come se avessi esaurito le lacrime a mia disposizione, e le mie labbra si rasserenarono, e il mio viso si rasserenò a dispetto della mia volontà.
Guardai mia madre, ma non come le altre volte, la guardai da donna a donna, anche se mia madre era tanto smagrita e smunta e a tratti priva di denti che era impossibile fissarla lungamente senza provare un senso di colpa per come era andata la nostra vita finora. Le chiesi come avesse fatto a parlare con mio padre la prima volta che l’aveva visto, com’era riuscita a scambiarsi le labbra con le sue.
Mia madre sospirò tremendamente, come sgravandosi da una pena infinita, e se mi accarezzò sapendomi almeno per questa volta sana e salva, all’inizio lo fece con la violenza con cui si assestano gli schiaffi, ma poi seguitò su di me così dolcemente, così maternamente, tanto che io non essendo abituata mi imbarazzai, e cercai di sottrarmi alle sue mani, nonostante mia madre mi tirasse ancora a sé, scostandomi i capelli dalla fronte sudata.
Cioè io a quel punto non lo volevo sapere più come si erano baciati mio padre e mia madre, la trovavo una cosa perfino disgustosa, come se alle loro figure fosse più appropriato associare non i baci, ma le urla o i piatti che si tiravano contro quando ero bambina – ma mia madre tenendo saldamente le mie guance tra le sue mani mi parlò, ma come abbandonandosi, come rievocando a se stessa qualche lontano ricordo.
Mia madre disse soltanto che era stata la povertà a farli incontrare, che era stata la povertà a legarli con quel nodo scorsoio, che era stata la povertà a tenerli insieme lungo tutti questi anni – e ogni volta che mia madre disse la parola povertà, io nella mia mente immaginai una sorta di atmosfera terrestre, quello stranissimo involucro invisibile e gassoso dentro cui era avvenuta la vita, dentro cui era stata permessa la vita, un’atmosfera così spaventosa e benigna senza la quale io non sarei mai esistita, tantomeno mio padre, mia madre, il ragazzo con la palpebra calata a metà e tutti quegli uccellini che frullavano le ali dentro e fuori di me, trafiggendo il cielo costantemente, stordendo il sole di acutissimi cinguettii.
Cosa avesse voluto dirmi mia madre proprio non lo capii. Se gli antichi greci avevano avuto gli oracoli, e le folle nei deserti i loro profeti, io avevo mia madre, e le sue parole, invece di rendermi abile alla vita, per giorni si levarono intorno a me come una grande confusione di uccellini.
Ma continuai a incontrare quel ragazzo con la palpebra calata a metà. Lo scorgevo al liceo, nei corridoi tra le classi, in palestra, in biblioteca, al bar, per strada, tanto che alla fine non seppi più se ero io a seguirlo o se era lui che si avverava costantemente ovunque andassi.
Un pomeriggio lo vidi perfino al museo di scienze naturali, e non avvampai, non sudai, non avvertii il frullare inesauribile di uccellini dentro di me, come se quelle piccole creature mi fossero morte dentro, e quando a un tratto non volli vedere oltre, e corsi via sfrenatamente, inciampando e rischiando di cadere, neanche riconobbi cosa mi avesse spaventato di più, se tutti gli uccelli impagliati e catalogati ordinatamente lungo una parete del museo o la ragazza dai capelli neri che stringeva la mano al ragazzo con la palpebra calata a metà mentre camminava accanto a lui ridendo perdutamente.
Ecco come finivano le cose, ecco come finivamo prima ancora di cominciare, mi dissi io che avevo aspettato tanto, io che correndo follemente sui marciapiedi trafficati maledicevo il mio nome, io che avevo avuto paura di baciare quel ragazzo, di uccidere quel ragazzo con tutti gli uccellini che dalla mia bocca sarebbero passati in stormo dentro la sua, io che alla fine non baciando quel ragazzo non avevo permesso a quella possibilità del futuro di aprire le ali.
E continuando a correre, arrivai nel parco, e non mi fermai ai primi alberi, non cercai consolazione su una panchina, continuai spedita lungo i sentieri di ghiaia che biforcavano confusamente verso la radura centrale, lì dove era silenzio e calma, lì dove non c’erano scuse né salvezza, lì dove il vuoto del cielo sfiorava le punte dell’erba.
E una volta al centro della radura, cadendo in ginocchio, io strinsi queste mani, ne feci pugni vigorosi, e cominciai a colpirmi, a colpirmi allo stomaco, a colpirmi furiosamente – e se all’inizio non ricevetti risposta, poi ancora più improvvisamente sentii quella cosa piumata scatenarsi dentro di me, battere forsennatamente le ali dentro di me, scalando in volata le pareti dentro di me, scorticandomi tutta la gola.
Fu così che dalla mia bocca spiccarono in volo tutti quegli uccellini, fu così che si levarono fuori di me tutti gli uccellini dal primo all’ultimo che avevo inghiottito, e il cielo, lassù, annerendosi di colpo, si colmò infinitamente di cinguettii, rivelandosi un infinito intreccio di piume.
E vidi quella nube di uccellini gravitare paurosamente su di me, vidi quella nube sciogliersi e stracciarsi ai quattro venti, e quando il cielo si svuotò da ogni trama, io ancora più svuotata mi levai sulle gambe tremando follemente.
Tossii, sputai ancora quelle piume, mi asciugai le lacrime che per lo sforzo zampillavano sulle mie guance senza fermarsi. Come sarebbe andata senza tutti quegli uccellini, cosa ne sarebbe stato di me senza di loro?
Non lo sapevo, non potevo saperlo – mi persi nel parco, ne uscii fortunosamente. Presi la solita strada, sfiorai il liceo. Arrivai a casa, mi sedetti strisciando la schiena sul tronco dell’albero dove mi arrampicavo da quando ero bambina, e all’improvviso, mentre gli uccellini nascosti tra le grandi fronde dell’albero strepitavano ferocemente tutti quei cinguettii alla volta del sole, io mi sentii così povera, così affamata, e tanto più libera, come se per me non ci fosse altro modo per ricominciare da capo, come se solo così la vita potesse garantire a se stessa di poter ricominciare ancora, prorogando la sazietà di momento in momento.