A primavera sarebbero iniziati i lavori. L’impresa lo aveva recintato coi nastri di plastica arancioni. Il cartello con le date era bene in vista, conficcato nel fango, plasticato. Sarebbero arrivate le ruspe e le gru, il geometra e il capomastro, e gli operai avrebbero eseguito l’autopsia. Quel prato era lì da sempre, a pochi isolati dal quartiere dove Italo era cresciuto. Sposandosi si era trasferito qualche chilometro più lontano, in una zona residenziale, e passando dal quartiere si ricordò che le giostre, tanti anni prima, si mettevano proprio lì, sul prato dove era accaduta una cosa che presto le nuove fondamenta avrebbero seppellito. Per un attimo rivide le luci dell’autoscontro filtrare tra gli sbuffi di nebbia, sentì l’odore delle frittelle e udì la sirena del pungiball risuonare davanti alla superbia dei gareggianti.
«Com’è andata in ufficio?» domanda Sara.
Italo lecca le dita salate di patatine: «Vuoi?»
«Sto andando in palestra.»
«Appunto» dice lui, «metti qualcosa sotto i denti.»
«Non le patatine. Dovresti fare un po’ di moto anche tu.»
«Sono più in forma di tanti altri.»
«Contento tu» infila le scarpe da tennis, «fai andare la lavastoviglie, non torno per cena.»
«Volevo dirti una cosa», la insegue e Sara si ferma sull’uscio, attende che Italo concluda ma lui fa segno di no. Immagina la ruspa azzannare il prato e i camion rubare la terra ancora viva di fili d’erba: «Nulla d’importante» dice mentre il segreto si sgretola in zolle di malta, «buona ginnastica».
«Resta sveglio, così mi racconti questa cosa poco importante.»
Italo apre il frigorifero e carica il piatto di avanzi: pollo, finocchi gratinati, riso alle erbe. Infila tutto nel microonde. Apparecchia in sala. Alza il volume della tivù. Novembre è attaccato al finestrone. Spegne la lampada centrale e muove il variatore dell’applique sciogliendo poche candele nella penombra. Suona il telefono. Ci pensa un attimo, poi afferra il cordless e risponde.
«Buonasera» dice la voce, «parlo col signor Italo Landi?»
Italo esita: «Sono io» dice quasi senza volerlo.
«Signor Landi, di nuovo buonasera. Sono Giorgio» continua la voce, «chiamo dal centro servizi J-Net. Sono l’operatore duemilaseicentodiciotto e volevo sottoporle, se avrà la gentilezza di concedermi tre minuti del suo tempo, una proposta che riguarda i nostri servizi di telefonia integrata, pay-tv e Internet mega veloce.» L’operatore prende fiato e attende.
«Stavo cenando.»
«Le rubo solo un minuto signor Landi, anzi tre» ripete a memoria. «Le anticipo che riceverà un prezioso e simpatico omaggio senza sottoscrivere alcunché. Valuterà poi la proposta J-Net. Io non la disturberò più; la chiamerò solo un’altra volta per chiederle, signor Italo Landi, cosa avrà deciso e in caso di risposta negativa la toglieremo dall’elenco dei potenziali clienti.»
Italo abbassa la tivù e si lascia cadere sul divano. L’odore di pollo scaldato ha invaso la casa. L’operatore legge un testo prescritto. Italo non fiata. L’addetto illustra con chiarezza tipologie di collegamento, caratteristiche tecniche, possibilità contrattuali, tabelle di risparmio sulle telefonate verso i cellulari, peculiarità della pay-tv. Parla per tre minuti esatti: «È il miglior contratto che possiamo sottoporle» conclude.
Italo si alza e s’appoggia al vetro. Il giardino condominiale è un lago di silenzio, radi rimbombi mordono le pareti: «Siete tanti» dice, «prima ce ne saranno duemilaseicentodiciassette, o sbaglio? Magari c’è il duemilaseicentodiciannove» prosegue. «O è solo un numero per impressionare? Che fatturato ha la J-Net?»
«Veramente, signor Landi, non è mio compito spiegarle l’organizzazione aziendale.»
«Lo so, ma rilassati. Hai una voce giovane. Ventiquattro anni? Sei a progetto? Precario? Ti pagano a provvigioni? Quanto dura il contratto? O sei l’operatore duemilaseicentodiciotto perché vi tengono un giorno e poi vi rimpiazzano?»
«Signor Landi mi perdoni, devo interromperla e chiederle se è interessato alla proposta.»
«Che fretta hai adesso?»
«Ho delle procedure da seguire.»
«E se ti dicessi che sì, sono interessato alla proposta J-Net?»
«Avrei altri tre minuti da dedicarle per compilare il contratto.»
«Non ho detto che accetto, ma che potrei essere interessato.»
«Le ho spiegato tutto, se le interessa chiudiamo il contratto.»
«Troppa fretta caro duemilaseicentodiciotto, le telefonate saranno registrate e in quanto a cortesia non stai facendo un buon lavoro. Hai catturato un acquirente e lo tratti così?»
«Ho tante chiamate da fare e ho superato i tre minuti. Facciamo così signor Landi, le spedisco a casa l’omaggio.»
«Non m’importa un fico secco dell’omaggio.»
«Le spetta di diritto.»
«Guarda che sono interessato alla proposta J-Net.»
«Perfetto.»
«Ma un amico passato a J-Net non si è trovato affatto bene.»
«Non sono tenuto ad ascoltare lamentele riguardo a un cliente, le ripeto che le spediremo l’omaggio, la richiamo tra una settimana e mi saprà dire. Sul nostro sito ci sono tutte le informazioni di cui ha bisogno per decidere.»
«No!»
«No? No, cosa?»
«Arrivo a casa, sto cenando e tu mi chiami. Bene: adesso mi stai ad ascoltare.»
L’operatore duemilaseicentodiciotto osserva il capoturno che a sua volta lo sta guardando e fa segno ch’è tutto a posto. Il centro help-desk è un riverbero di radiazioni luminose e brusii e tic-tic di mani sulle tastiere. I tavoli, incrociati a ics, formano isole in grado di ospitare dodici addetti. Il capoturno ha una scrivania singola in testa all’arcipelago, scrive un messaggio e lo inietta nel sistema, un secondo dopo sta lampeggiando sul video dell’operatore: Andare Avanti.
«La sto ascoltando signor Landi.»
«Il contratto non mi convince, ma alla fine della nostra chiacchierata lo sottoscriverò.»
«Le assicuro che l’offerta è espressa senza trascuratezze.»
«Ti ripeto che non importa, lasciamo stare la pay-tv che si blocca, i megabyte, il canone che J-Net recupera con lo scatto alla risposta. Stasera ho solo bisogno di parlare, tutto qua.»
Il responsabile infila la cuffia e trasmette a tutti i turnisti la telefonata in corso tra Italo Landi e Giorgio Scalise, convinto di mostrare in diretta come acquisire un cliente. Spinge il pollice in su e invita l’operatore a non mollare.
«Avrei bisogno dei suoi dati completi» dice Giorgio a Italo.
«Poi ti darò tutti i dati che vuoi.»
«Espletiamo le pratiche burocratiche e la starò ad ascoltare.»
«Il numero della carta di credito lo darò alla fine.»
«Cosa le fa credere che io sia la persona adatta ad ascoltarla?»
«Non lo so infatti, fa niente. Meglio parlare tra sconosciuti.»
«Sì, forse…»
«Avrai il tuo contratto. Mi pare uno scambio accettabile?»
Italo detta i dati. Gli operatori ammiccano. Sui monitor lampeggia il messaggio spedito dal capoturno: Mille Strategie, una Missione, un Nuovo Contratto, uno di più. Giorgio posiziona il cursore sul campo per il numero della carta di credito. Sistema la cuffia: Ready Player One pensa.
«Ci costruiranno una casa» dice Italo, «lo hanno già recintato.»
«Una casa? Dove?»
Il responsabile del servizio è appagato: lascia che i turnisti, ascoltando le parole di Italo Landi, possano prendersi una pausa facendo tesoro del metodo d’aggressione attuato dal collega.
«Vicino a dove abitavo da ragazzo c’è sempre stato un prato, niente di speciale. Hai presente un prato inutile? Non un prato delle Dolomiti o al lago. Un pezzo di terra ed erba rimasto lì, tra i centri commerciali, i benzinai e i palazzi. Una roba così.»
«Un prato, certo.»
«Ci faranno sopra una casa.»
«Certo, normale.»
«È sempre normale, ogni cosa. Tutto è sempre normale.»
«Dove abito arrivano e recintano. Fanno case, capannoni.»
«Era il Settantacinque quando accadde, sì, non c’erano stati né i mondiali né le olimpiadi.»
«Settantacinque.»
«Andrea era un mio amico. Lo conoscevo da sempre; in quartiere ci si conosceva tutti. Non era un ragazzo normale. Sua madre durante il parto aveva avuto dei problemi e a lui era mancato l’ossigeno al cervello. Così era rimasto scemo, ritardato.»
«Capisco.»
«Cose che capitano, normali.»
«Mi spiace.»
Italo parla con gli occhi chiusi: «All’asilo ci trovammo nella stessa classe e d’istinto gli stavo dietro. Era seguito anche da un’insegnante di sostegno, ma spesso mancava e così, se lo vedevo in difficoltà, mi facevo trovare. Ero suo amico, l’unico o uno dei pochi. Da bambino mi venne naturale dargli una mano e i genitori di Andrea fecero domanda affinché alle elementari potesse stare in classe con me. Cosa che avvenne anche per i tre delle medie. Era felice più di tutti noi, i normali».
Giorgio Scalise gonfia le guance e il collega di fronte gli rimanda le boccacce. Il capoturno non stacca l’online della chiamata su tutte le linee. Alcuni si picchiettano l’indice sulla tempia, altri ne approfittano per sbocconcellare biscotti.
«Nel prato c’erano le giostre. Il prato dell’autoscontro, è così che lo chiamavamo: l’autoscontro era la sfida. Non l’ho mai raccontata a nessuno questa storia, mi vergogno ancora, eppure sono passati più di trent’anni. È una di quelle schegge che ti porti sotto la pelle per tutta la vita.» Italo spegne la tivù e inizia a girare per la casa. «Avevo tredici anni, Andrea quindici. Mia madre diceva che con Andrea dovevo avere pazienza, che lui era più grande di me, ma era come avesse sempre dieci anni di meno. Nel Settantacinque frequentavamo la terza media. Lui aveva quel viso perso dentro un sorriso ebete fatto di denti bianchi ed efelidi. Diversamente abile? Si dice così vero? Al quartiere lo chiamavano tutti il mongolo. Pochi istanti senza aria e tutta la vita senza camminare bene, senza parlare bene, senza capire, senza sapere. Senza fare l’amore. Preso in giro dai bambini più piccoli, insultato da quelli più grandi.» Italo è seduto sul bordo della vasca: «Sei ancora lì?»
«Sono qui» risponde Giorgio Scalise.
«Quella volta avevo promesso ad Andrea che lo avrei portato a fare un giro sull’autoscontro. Lui aveva visto i camion delle giostre e a niente erano serviti i miei tentativi per dissuaderlo. Gli occhi gli brillavano e con quel suo linguaggio strano più di una volta mi aveva detto che gli sarebbe piaciuto salirci e che lui però non sapeva guidare.» Italo accarezza col piede una piastrella. «Quel giorno passai a prenderlo senza immaginare che sarebbe stata l’ultima volta. Stringeva nella mano le monete per i gettoni e nella foschia del tardo pomeriggio avvistammo il prato da lontano. Le luci delle giostre lo riportavano come fosse l’unica cosa che esistesse. C’era odore di caldarroste e tutto era fumo. I ragazzi del quartiere, quelli delle medie e quelli più grandi, erano lì, a branchi. Coi giubbotti e i motorini, con le ragazze in calzamaglia e il trucco pesante. Io non volevo farmi vedere con Andrea, a lui non importava essere deriso, invece a me sì. C’erano anche Carlo e Vittorio: stavano lì a tirar colpi al pungiball. Io mi ero mimetizzato dentro il cappuccio della felpa. Avevo comprato il gettone, uno solo, e Andrea era così eccitato che faceva un casino terribile, infatti lo videro e cominciarono a canzonarci. “Ma cosa fate?” dissero, “andate a fare un giro sull’autoscontro? Assieme? Come due innamorati?” Carlo e Vittorio spalleggiandosi si avvicinarono. Andrea sapeva ch’erano cattivi e glielo diceva in faccia, ma quelli ridevano di più. Non volevo pensassero fossi uno scemo anch’io, non volevo. “Che ci fai qui con il mongolo?” Andrea, anche se capiva che ce l’avevano con noi, rideva. “Italo porta giro. Italo porta giro” diceva con la sua voce stonata. E loro: “Ma bravo Italo che fa le buone azioni”. Poi Vittorio s’avvicinò e mi disse una cosa all’orecchio. Dissi “No”. Lui la ripeté a Carlo che scoppiò a ridere. Vittorio mi guardò diritto negli occhi dicendo “Sì, lo devi fare”.»
«Cosa ha dovuto fare?»
«Salimmo tutti sull’autoscontro» prosegue Italo sdraiato sul parquet, «io con Andrea. Vittorio, Carlo e tutti gli altri della cricca, a due a due. Appena partiti accostai la macchina al bordo della pista e scesi al volo abbandonando Andrea. Lo lasciai lì, sperduto, senza che avesse idea di come guidare. Ancora oggi vedo la sua bocca aperta, le parole mute. Terrorizzato si aggrappava al volante, disperato, come stesse precipitando dalla cima di un monte. Gli altri cominciarono a piombargli addosso da tutte le parti. La vettura di Andrea, finita in mezzo alla pista, era il bersaglio perfetto. Bombardata dagli scontri premeditati di Carlo e Vittorio e di tutti. La testa di Andrea vacillava, picchiò il viso sul volante. La spina dorsale si fletteva come quella d’un burattino, e per la prima volta lo vidi piangere.» Italo ha aperto l’anta dell’armadio e tra gli abiti c’è il profumo di Sara: «Non smisero un attimo di colpirlo. Io, rimasto sul bordo della pista, mi vergognavo e mi nascosi. Aspettai la fine del giro. Carlo e Vittorio ridevano soddisfatti e in fondo non avevano fatto niente di male; erano andati sull’autoscontro e sull’autoscontro si fa così; ero io il verme. Andrea era frastornato: due gocce di sangue gli bucavano le labbra. Lo aiutò a scendere il ragazzo dell’autopista. Andrea mi corse incontro ma non avevo il coraggio di guardarlo. Lo accompagnai a casa senza parlare. Non salii a casa sua né quella sera né mai più. A scuola cominciai a evitarlo e i professori se ne accorsero. Immagino pensassero che dopo tanti anni fossi stufo, gli affiancarono un altro compagno e ne fui felice. Non scambiammo più una parola. L’anno scolastico a giugno finì. Non gli parlai mai più. Mi capitò a volte d’incrociarlo, lui. O lui con i genitori. O i genitori e basta. Ma ero sempre abbastanza pronto a evitarli». Il rivestimento del piumone è fresco, Italo si lascia cadere sul letto e con la guancia libera striscia verso i cuscini: «È questa la storia».
Giorgio Scalise non sa che dire, sente che una parola deve pronunciarla ma tutte quelle che gli vengono in mente sono sbagliate: «Andrea? Ora come sta?» domanda poi.
Italo si mette seduto: «Ho il numero della carta» dice, «chiudiamo il contratto».
«Certo, il numero» dice Giorgio tornando a essere l’operatore duemilaseicentodiciotto.
Il capoturno blocca la replica della telefonata agli altri addetti. Italo detta il numero della carta. Le luci delle chiamate riprendono a illuminarsi e le voci degli operatori a incrociarsi come echi di uccelli in una grotta.
«Tutto a posto signor Landi, contratto firmato.»
«Allora attendo i vostri specialisti per il cablaggio.»
«Sì, sarà ricontattato nei prossimi giorni dall’ufficio tecnico.»
Sara torna dopo mezzanotte. Si seguono fino a letto.
«Questa cosa da dirmi?» chiede lei.
«Nulla.»
Italo fa per spegnere l’abat-jour ma Sara gli ferma il braccio.
«Mi hai aspettato, parla allora.»
Italo ci pensa un attimo poi comincia: «Dopo la rotonda del centro commerciale, in quartiere, c’è quel prato.»
«E?»
Parlano sottovoce, nei respiri. Il silenzio si espande dal loro appartamento a tutto il condominio, alla strada.
«Ricordi Andrea? Quel ragazzo ritardato.»
Italo racconta un po’ della loro amicizia e conclude: «a volte mia madre ne parla, c’è di certo in qualche foto di quand’ero ragazzo».
«Mi pare.»
«Alle giostre gli feci uno scherzo e ora che sul prato ci fanno una casa, il segreto marcirà in me, non potrò chiedere perdono.»
Sara si accarezza i capelli tirandoli sulla fronte: «Perdono?»
«Sì, gli feci uno scherzo orribile.»
«Parli di uno scherzo fatto da ragazzino?» Sara spinge via la spalla di Italo: «Ma dai!»
«Non hai capito», Italo si volta verso l’armadio. «Dai, dormiamo».
«Sì, dormiamo», Sara con uno scatto gira l’interruttore e spegne l’abat-jour.
«Sei cinica» dice Italo con gli occhi aperti nel buio.
Lei con un balzo si mette seduta: «Quale terribile scherzo puoi avergli fatto? Eri un ragazzo».
«Proprio non vuoi capire e in fondo non è colpa tua.»
«Smettila di offendere, poi lo so che ti piace far la vittima.»
«Cinica e gelida.»
«Mica l’hai ucciso.» Allunga i piedi sulle gambe di Italo, «Questi invece sono gelidi» ride.
«Non l’ho ammazzato, no. E comunque Andrea è morto oramai.»
«Mi spiace.»
Italo sposta il piumone, si alza e seduto sul bordo del letto cerca le pantafole.
«Dove vai?»
«A vedere la tivù.»
«Ho detto che mi dispiace.»
«Cosa ti dispiace? Che stasera ho stipulato un contratto telefonico con la J-Net?»
«Cosa? E che c’entra adesso?»
«In cambio l’operatore è stato ad ascoltare la storia dello scherzo.»
A Sara scappa una risata: «Cosa? Non è vero. Mi prendi in giro?»
«No, e nei prossimi giorni verranno col router e tutto il resto.»
«Sono stati ad ascoltarti?» Sara ride e non riesce a trattenersi, gattona verso Italo: «Ma dai!», gli tamburella la schiena.
«Smettila un po’.»
«Pensavo che forse» diventa seria, si affianca a Italo rimasto seduto e lo cinge, «sei ancora in tempo.»
«Per cosa?»
«Non so, andare dai genitori di Andrea: sarebbe carino. Abitano ancora al quartiere?»
«Credo di sì.»
«Allora vacci.»
E restano nell’abbraccio qualche attimo, poi tornano insieme sotto il piumone.
C’è il sole freddo di fine novembre posato sull’asfalto del quartiere. Italo suona il campanello di casa Toscani. La faccia della madre di Andrea non è cambiata. Era già vecchia nel 1975 e non è invecchiata di più adesso. Dietro arriva il marito, non è cambiato nemmeno lui: sulle linee del volto è marcata una cordialità spontanea. È solo più grasso, pensa Italo mentre sente sfilare a un altro piano l’ascensore. La madre di Andrea chiude la porta e Italo è pentito di esserci. Anche la casa è uguale a come la ricordava. Lo stesso aroma dolce, i quadri con le cornici cesellate, le luci vaniglia e le ombre castane.
«È passato tanto tempo» dice Nina, «ho saputo che venivi e non m’è parso vero.» Stringe gli occhi per guardarlo meglio: «Non potevo crederci», è acciambellata in uno scialle di lana.
«Siamo felici che sei qui» aggiunge il signor Gianni seguendoli.
«Faccio il caffè» dice Nina deviando in cucina.
Gianni entra in sala seguito da Italo: «Siamo rimasti soli» prende una sedia e offre il divano a Italo, «era sempre allegro, un tesoro, il nostro piccolo tesoro». Poi si fa silenzioso, un artiglio gli attraversa lo sguardo e lo trascina nel desiderio di un’attesa.
Nina, dopo qualche minuto, entra col vassoio e le tazzine fumanti: «Che succede qua?» dice, «Gianni, mica avrai cominciato a fare discorsi tristi?»
«Nessun problema, Nina» dice Italo.
«Beviamo il caffè», Nina posa il vassoio sul tavolo. «Zucchero?»
Gianni rimane sulla sedia, vorrebbe stare zitto: «Anche dopo che non sei venuto più» ricorda invece «lui parlava sempre di te».
Nina gira un’occhiataccia al marito: «E tu, come stai?» domanda a Italo.
«Io bene.»
«Il lavoro?»
«Va.»
Gianni sorseggia il caffè: «Andrea ti ha aspettato tutta la vita, per lui il tempo scorreva in modo diverso» dice, «aveva quarantadue anni quando è morto, cinque anni giusti mercoledì scorso».
«Non assillarlo.»
«Vado a prendere i biscotti», Gianni si alza, strascica le pantofole.
«Controlla il forno» gli dice Nina.
Italo sta ancora girando il cucchiaio nella tazzina.
«Capiva sempre meno» dice Nina, «si spegneva, ma di te s’è ricordato fino all’ultimo.»
«Non ho potuto più tornare» prova a dire Italo.
«Quanti anni hai ora?»
«Quarantacinque.»
Italo trattiene in gola tutta la sua vita, un momento dopo l’altro, tutto lo scempio di cose inutili che si fanno, che si dicono, che si progettano. Neppure serve piangere, pensa, né domandare perdono né sopravvivere ai sensi di colpa. Semplicemente basterebbe non esistere oppure esistere meglio.
«Hai figli?»
Tace e fa segno di no. Poi guarda Nina e parla: «Sono passati trentadue anni» dice «da quel giorno che l’ho portato all’autoscontro.»
«L’autoscontro» ripete Nina in un sospiro, «era buio ed è arrivato in casa senza di te. M’era parso strano, lo accompagnavi sempre e spesso ti fermavi per cena.»
«Cosa ha raccontato di quella volta, Andrea?» domanda Italo.
Nina ride: «E chi si ricorda» dice. «Che si era divertito.»
«Sapeva raccontare le bugie allora», la mascella di Italo si tende. «Andarono in un altro modo le cose, sono qui per domandare perdono.»
Dalla finestra entra il sole, non c’è altro al mondo che la luce.
«Perdonare?» Nina si richiude nello scialle. «Fa freddino, vero?»
«L’ho tradito quel giorno.»
«Dove abiti ora hai il riscaldamento autonomo?»
«Sì Nina, ma tu non ascolti, sono stato un vigliacco, hai sentito?»
«Ti ascolto, e penso tu stia esagerando.»
«Non sono più tornato da lui, da voi» beve il caffè, «sparito.»
«Ti sei punito abbastanza, non credi?» dice Nina. «Abbiamo sempre creduto che Andrea avesse bisogno di noi, anche tu. Invece era il contrario. Non sei più tornato, è vero. Ma chi ha dovuto sopportare il dolore più grande?»
Gianni entra con la torta.
«Comunque non diceva bugie, Andrea.» Nina s’avvicina al tavolo e sparge lo zucchero a velo. «Ora mangiamola questa torta.»
Italo si alza e l’abbraccia, poi abbraccia Gianni.
«Ti aveva perdonato» dice Nina dietro gli occhiali, «la sera stessa ti aveva già perdonato. Perché tu eri il suo amico e basta.»
«C’è ancora caffè. Ne vuoi, Italo?» dice Gianni.
«Sì» resta in piedi in mezzo alla sala, «grazie.» Dalla gola non passano altre parole.
Da un cassetto Nina prende una cartelletta e la apre. Nei colori disordinati del foglio c’è il fumo delle castagne, i lampi delle giostre e in primo piano, sproporzionata, l’autopista. Italo lo prende tra le mani e disegnati ci sono due ragazzetti sull’autoscontro con le braccia in alto e una mezzaluna sul viso.
«Tienilo» dice Nina.
«La torta» dice Gianni, «mangiamola cristo santo.»
Italo pensa al Natale, il ritorno all’infanzia lo spinge attorno ai decori della vigilia. Entra nel tunnel delle solite cose da fare, intanto piove contro i vetri dell’auto, della finestra, del box doccia. Arriva a casa e Sara esce dal bagno coi capelli umidi e si sdraia sul divano. Sul tavolo c’è una scatola da aprire.
«Il tuo omaggio J-Net» dice lei.
«Sono stati di parola, è arrivato davvero.»
Italo con le forbici taglia le regge. Nella scatola c’è un mouse griffato J-Net e una busta.
«Cosa dice la lettera?» domanda Sara.
«Lieti di farle questo regalo, spero gradito eccetera, grazie per la pazienza, eccetera», Italo legge rapido. «Sarà contattato per la decisione riguardo la proposta eccetera.» Si ferma e legge l’altro foglio: «Viste le modalità non conformi agli standard con cui è stato sottoscritto eccetera, la informiamo che la sua richiesta di nuova utenza è stata respinta».
Sara sfila l’accappatoio e si mette sotto il plaid. Italo sfila le scarpe, la giacca, allenta il nodo della cravatta. La schiena gli duole meno del solito. Si volta e Sara è lì sul divano, la tivù è spenta e un piede le dondola dal bordo sbucando dalla coperta appena rimboccata.
«Hai cenato?» chiede Italo.
«Spiluccato» risponde Sara.
«Preparo qualcosa?»
«Tu come stai?»
Italo fa sì con la testa: «Meglio».
«Ricordi? Questa coperta l’abbiamo presa a quel mercatino, a Innsbruck.»
La casa è avvolta nel silenzio, il buio piovoso alla finestra. Pare d’essere finiti in un mondo inesistente, non c’è materia, è come stare dentro una nuvola e volare via senza sapere dove. Italo, mentre scende tra le braccia di Sara, pensa che tutto è passato in fretta. Sara lo avvolge tra le gambe e lui la cinge forte, disperato. Ognuno utilizza l’altro come contrappeso per evitare di schizzare fuori dalla nuvola e perdersi in un limbo più pauroso. Andrea col casco guida l’autoscontro come un pilota vero e la madre ha il suo stesso sorriso. Sara è morbida, ha la pelle fresca e la coperta cade sul pavimento.
Dopo le feste, stanno già lambendo i confini del quartiere. Il freddo di fine gennaio ha lasciato la gente dentro casa, anche il traffico è scarso. È passato un altro Natale, un altro anno, pensa Italo, febbraio ha pochi giorni e a marzo tutto comincerà di nuovo. Sara ha posteggiato la macchina davanti a casa dei suoceri e hanno proseguito a piedi. Italo è perplesso, si piega nel giubbotto e tiene le mani in tasca. Sara cammina lenta, non parla. Ha fatto promettere a Italo di non fare domande. C’è la rotonda del centro commerciale, il benzinaio, la saracinesca del bar tinta di graffiti. Proseguono e si comincia a vedere, nel buio, il nastro arancio che circonda il prato. Italo non capisce, guarda Sara ma lei incrocia l’indice sulle labbra.
Nel prato c’è la pista dell’autoscontro.
«Sono incinta» dice Sara, «domani inizia il terzo mese.»
«Sei pazza?»
«Per il bambino o per la pista?»
«Tutte e due.»
Le luci della pista tracciano il prato, sbuffi di fumo si levano attorno. Sara e Italo si avvicinano. Da lontano scorgono un ometto che fa loro segno di raggiungerlo.
«Li hai i soldi per i gettoni?» ride Sara.
«L’hai fatta venire qua tu?»
«Più facile di quanto credi.»
«E il bambino?»
«È tutto vero.»
«I dottori avevano detto che non era possibile.»
«I dottori sbagliavano.»
Le aste nere salgono verticali verso la rete elettrica. L’ometto attende, spinge una vettura verso il centro della pista, poi torna dietro il banco a far suonare la musica.
«Facciamo un giro» dice Italo.
Sara prende il gettone dal ripiano del giostraio e torna in mezzo alla pista. Sale sull’autoscontro, Italo la segue. Infilano il gettone nella fessura e la macchina parte. Gira seguendo le manovre del volante. Al centro delle razze c’è uno stemma bianco. Gira lenta, curvando, seguendo traiettorie assurde. Ghirigori che lasciano sulla pista scie lucide. Lei ha chiuso gli occhi. Italo pensa ch’è solo un prato, certo, però tanto tempo fa era accaduta una cosa. E poi un’altra, e un’altra, e un’altra ancora.