Il vecchio Kenji
di Claudio Lagomarsini

Tempo fa, era un mattino di luglio, si è presentata da me la signora Matsuda. Quando le ho aperto ha indicato il mio zerbino: il vecchio Kenji, adagiato nella posizione della sfinge, mi guardava con occhi cisposi e lingua pendente.
Con i suoi modi cerimoniosi, la signora Matsuda ha chiesto se potevo tenerlo cinque giorni, sei al massimo: il tempo di andare e tornare da Milano. Per un piccolo intervento medico, ha spiegato. Altrimenti nessun problema, si sarebbe informata per lasciarlo in una pensione.
È già capitato l’anno scorso prima dell’estate. La convivenza con il vecchio Kenji è andata più che bene e la signora Matsuda si è dimostrata molto generosa. Non saprei dire che tipo di entrate abbia (mi risulta che sia vedova): io ero pronta a tenerle il cane anche gratuitamente, ma lei ha insistito per darmi dei soldi, una cifra molto più alta di quanto mi sarei aspettata. È soprattutto per questo che ho detto sì: qualche soldo in più mi fa comodo e in quei giorni non avevo preso impegni, se non quello di finire un lungo articolo che dovevo consegnare ai primi di agosto.
La signora Matsuda è tornata all’inizio della settimana successiva, subito prima di partire. Il vecchio Kenji non sembrava in forma: rispetto all’anno scorso mi è parso un po’ appesantito, camminava con fatica e, appena entrato, si è spiaggiato sul tappeto del salotto. Dopo avermi ringraziata ancora, la signora Matsuda mi ha portato due diversi sacchi di mangime, una cuccia di plastica, una coperta blu, un blister di pastiglie e una confezione di sottilette: niente di cui allarmarsi, mi ha detto. Kenji ha il cuore un po’ pigro e ogni mattina bisogna fargli prendere la pastiglia arrotolandola in una striscia di formaggio.
Ho messo un promemoria sul telefono e ho salutato la signora Matsuda. Il vecchio Kenji, accasciato in salotto, non si è nemmeno degnato.
La sua indolenza non mi dispiaceva. Avevo da lavorare molto, la mia professione (se così posso chiamarla) richiede un silenzio monacale e l’ultima cosa di cui ho bisogno è uno di quei cani scodinzolanti e iperattivi che ogni cinque minuti ti portano un pollo di gomma che suona.
Con il vecchio Kenji mi sarei limitata a somministrare diligentemente farmaci e mangimi, poi lo avrei portato nel parco a espletare i bisogni, infine gli avrei fatto qualche complimento e carezza, di tanto in tanto, per farlo sentire amato.
I cinque giorni sono passati velocemente. Il vecchio Kenji ha dormito una media quotidiana di diciotto-venti ore e ci siamo intesi a meraviglia. La sua presenza, anzi, mi è stata d’aiuto. Ho passato un brutto periodo per via di un imbecille con cui ho rischiato di finire sposata, e avere in casa Kenji, dedicargli a intervalli regolari qualche manciata di minuti, mi ha fatto sentire meno sola.

La sera del quinto giorno ho ricevuto una telefonata. Era un tizio di cui non ho afferrato il nome che si è presentato come parente della signora Matsuda. Parlava male l’italiano, ma ho capito che qualcosa era andato storto con l’intervento medico. La signora Matsuda era riuscita soltanto a indicare il mio numero su una rubrica, facendo capire al parente di mettersi in contatto con me.
La comunicazione era davvero difficile. Ho provato con l’inglese, ma è stato peggio. In ogni caso la signora Matsuda non era in grado di parlare. Ho spiegato al tizio la faccenda del cane, ma non mi è stato di aiuto. Abita a Milano e, oltre a lui, la signora Matsuda non ha altri parenti in Italia.
L’ho pregato di tenermi aggiornata e di farmi chiamare non appena la signora fosse stata in condizione. Intanto poteva tranquillizzarla, al cane avrei pensato io. Chissà se ha capito.

Dicono che alcuni animali domestici sviluppano una forma di telepatia con i padroni. Il sesto giorno il vecchio Kenji sembrava molto depresso. Gli ho agitato la scodella del mangime sotto il naso, ma senza successo. Dopo averla fiutata è tornato nella cuccia, si è infilato sotto la coperta blu e non si è fatto più vedere.
Alle undici il telefono mi ha ricordato che era l’ora della medicina. Ho preso una sottiletta dal frigorifero, ne ho staccata una striscia e ci ho arrotolato la pastiglia. Nel blister ne restavano altre nove. Se la malattia della signora Matsuda si fosse prolungata, avrei dovuto cercare un veterinario e procurarmi un’altra confezione. Non navigo nell’oro, si sarà capito, e dover spendere soldi per il vecchio cane di una vicina non era per me ragione di entusiasmo. Ma al suo ritorno, ho pensato, la signora Matsuda avrebbe saputo come ricompensarmi di tutto il disturbo.
Quando ho sollevato la coperta e ho avvicinato al tartufo del vecchio Kenji la pallottola di formaggio e medicine, lui ha aperto la bocca come per un riflesso condizionato. Ma ha sputato quasi subito, e ho dovuto prendere un tovagliolo per togliere il formaggio biascicato che si era appiccicato alla coperta di ciniglia blu della signora Matsuda.

Lo sciopero della fame è continuato per tutto il settimo giorno. A questo punto mi sono preoccupata, anche perché la sera prima, tornando da fare la spesa, ho trovato del liquame giallo e spumoso tra la cuccia e il tappeto. Ho cercato in internet, imbattendomi in diagnosi allarmanti che lasciavano alla bestia poche ore di vita.
Nel pomeriggio mi sono decisa a consultare un veterinario. Dai sintomi declinati per telefono non sembrava niente di grave, ma per stare tranquilli il veterinario avrebbe dovuto vedere il cane e, se volevo, avrei dovuto portarlo io in ambulatorio, perché lui, mi ha detto con tono secco, non faceva visite a domicilio.
Gli ho risposto che dovevo pensarci ancora un momento, dopo di che ho telefonato a Giovanni, un mio compagno di università che ha sempre avuto cani. Secondo lui era un problema di fegato, da cui il liquido giallo. Anni prima, uno dei suoi cani, un pinscher di nome Tango, aveva avuto gli stessi sintomi. La brutta notizia era che Tango non era durato molto.
Di sera ho cercato di contattare la signora Matsuda chiamando il numero del suo parente, ma ha risposto la segreteria telefonica e ho lasciato un messaggio scandendo bene le parole.
Il mattino seguente il vecchio Kenji era molto debole, respirava affannosamente e non alzava nemmeno la testa dalla coperta. Verso le nove ha smesso di respirare ed è morto sotto i miei occhi.
Ho provato a chiamare più e più volte il numero del parente della signora Matsuda, ma senza riuscire a parlarci. In un attimo di delirio ho pensato che la morte del vecchio Kenji fosse avvenuta in sincrono con la morte della signora Matsuda, e questo spiegava il prolungato silenzio telefonico.
Invece il parente mi ha richiamata più tardi, per dirmi che la signora Matsuda stava meglio ma non poteva ancora parlare. Molto molto debole, ripeteva a ogni mio tentativo di farmela passare.
Gli ho spiegato del vecchio Kenji, ho detto che non sapevo che cosa fare e avevo bisogno di istruzioni da parte della signora Matsuda. Ma non c’è stato verso di capirci, e dopo un po’ ho desistito.
Al suo ritorno la signora Matsuda non sarebbe stata per niente contenta, ma non potevo tenere in casa un cane morto. Era la fine di luglio, casa mia è un forno anche d’inverno, e nel giro di qualche ora il vecchio Kenji si sarebbe riempito di mosche.
Se il mio freezer fosse abbastanza grande avrei avvolto Kenji nel cellophane e lo avrei ibernato. Invece c’è appena il posto per una confezione di gelati e tre stampini per il ghiaccio.

Ho richiamato il veterinario. Poteva occuparsi lui dello smaltimento, ha detto, ma aveva bisogno che gli portassi il cane in ambulatorio. Gli ho spiegato che non avevo la patente e che si trattava di un’emergenza, ma i miei argomenti non lo hanno commosso. Mi ha suggerito di chiamare un amico oppure un taxi, come fanno le persone anziane a cui muoiono gli animali. In ogni caso dovevo sbrigarmi, perché tra qualche ora finiva il suo turno di reperibilità e dopo mi sarei dovuta arrangiare con qualcun altro.
Non mi sembrava il caso di richiamare Giovanni, che oltretutto vive fuori città. I miei due-tre amici più stretti erano già partiti per le vacanze. Di chiedere a colleghi e conoscenti proprio non mi andava, considerata la situazione ai limiti dell’assurdo. Per la stessa ragione non mi sentivo neppure di chiamare un taxi e di spiegare tutta la storia a uno sconosciuto. L’ultimo candidato rimasto era l’imbecille con cui stavo per sposarmi. È bastato il pensiero per farmi salire il sangue al cervello.
In una specie di raptus ho preso una busta dell’Ikea e ci ho infilato il corpo senza vita del vecchio Kenji, che a quel punto iniziava a emanare un odore dolciastro. Poi ho tirato fuori dall’armadio il mio trolley da viaggio e ci ho chiuso dentro il fagotto blu.
Per un istante ho pensato alla faccia del veterinario quando mi avrebbe vista aprire il trolley. Ma francamente non mi importava, ero arrabbiata e un po’ esaurita. Avevo solo voglia di liberarmi del vecchio Kenji, di tornare davanti al laptop, bere un frullato e rimettermi a lavorare sull’articolo come se niente fosse.

Una volta scesa in strada ho riconsiderato l’idea del taxi. Avrei caricato il trolley facendo finta di niente e sarebbe filato tutto liscio. Poi, però, mi sono detta che non avevo intenzione di spendere soldi a vanvera, tanto più che la signora Matsuda, per quanto ne sapevo, poteva anche non tornare mai più, o forse sarebbe rimasta in vita, ma attaccata a una macchina, e probabilmente non avrei mai visto un centesimo. Vai a immaginare, tra l’altro, quanto poteva chiedermi il veterinario per smaltire il cadavere del vecchio Kenji.
Mi sono anche resa conto che non avevo i documenti del cane (la signora Matsuda non aveva pensato a lasciarmeli). Il veterinario aveva dato per scontato che fossi la padrona e li avessi io. Rischiavo di fare il viaggio a vuoto, oppure (peggio) rischiavo di dover allungare un paio di banconote extra per convincere il veterinario a tagliare corto e prendersi il cadavere. Dal tono della voce sembrava esattamente quel tipo di persona.
Ci ho pensato per un minuto, immobile sul marciapiede. Ho consultato una mappa sul telefono, quindi ho afferrato il trolley e mi sono avviata verso la fermata del tram. L’ambulatorio era vicino al terminal.
Sono passata dall’edicola per comprare i biglietti, ed è stato lì che mi è venuto da piangere. C’è qualcosa di spirituale, nella disperazione: divinità, aldilà, destino. Tutte idee che nemmeno mi sfiorano quando la vita procede senza intoppi, nella noia routinaria del lavoro e delle relazioni.
Ho fatto un respiro profondo, ho asciugato con la punta dei pollici un paio di lacrime incipienti e mi sono affacciata nel gabbiotto dell’edicola per comprare i biglietti.
Quando mi sono voltata, il trolley non c’era più. Ero sicura di averlo lasciato a due passi da me, vicino alla colonnina dei romanzi Harmony.
Sparito nel nulla.
Mi sono guardata intorno, la bocca prosciugata come se avessi masticato una manciata di sabbia. A una trentina di metri ho riconosciuto il trolley: lo trascinava, fra il passo veloce e la corsa, un ragazzo di età imprecisabile: cappellino stinto con la visiera all’indietro, braccia magrissime e ciabatte di gomma.
Ehi! ho gridato. Ehi, ho sussurrato.
Sono rimasta in silenzio, intorno nessuno si è accorto di niente, tutti indaffarati come giustamente siamo: dita che scrivono, orecchie piene di musica, occhi persi negli schermi.
Nessuno ha fatto caso a una donna sui trentacinque, palliduccia, canotta azzurra e bermuda gialli coi tucani, che rideva da sola davanti a un’edicola.

Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 26 e ha le etichette , . Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.