Incrocio
di Francesco Scarrone

Più passavano gli anni e più gli retrocedevano il ruolo.
Quando era un ragazzino, magro, agile, svelto come una lucertola, era un attaccante puro. Falco da area di rigore. Un vero rapace in grado di lanciarsi prima di tutti su un cross o una palla tesa a mezz’aria.
Sognava di diventare il Pelé bianco. Invece Pelè alzava la Coppa Rimet mentre lui incollava tappezzerie di giorno e inseguiva goal la notte.
Dai e dai, finì però per abbandonare il ramo decorazioni e dedicarsi a tempo pieno a salvarsi dal fuorigioco.
Passarono gli anni e i riflessi cominciarono a rallentare. La buttava sempre dentro, certo, ma non arrivava più per primo. La testa restava quella, la testa che diceva al suo piede Buttala dentro, toccala di punta, solo che il piede non ascoltava e i difensori lo anticipavano. Dovette arrangiarsi. Segnare di astuzia. Mettersi a smanacciare, sbilanciare l’avversario, ribattere una palla, anticipare il rilancio.
Su quello era diventato forte. Sapeva, prima di lui, dove il difensore avrebbe sparacchiato il rinvio. E lì si faceva trovare: bello pronto. Giusto il tempo di stopparla e infilare il portiere in diagonale.
Non sbagliava quasi mai e ne segnò ancora una carrettata.
Ma giocava di esperienza che è un modo nobile di dire che non ce la fai più. Così l’allenatore cominciò a indietreggiarlo. Darsi da fare alle spalle delle punte. Il passaggio giusto, l’imbeccata per dei giovincelli più rapidi che gli permetteva comunque di portare a casa la pagnotta. Ottocento dollari alla settimana più i premi.
Perché a casa lo aspettava la moglie con una nidiata di figli da sfamare. Cinque, sei, sette, e chi li contava più? Sembrava spuntarne uno appena ti distraevi.
«Guarda che la colpa è tua» gli diceva la moglie.
Luciano rispondeva «Già, già» ma si vedeva che non era persuaso.
Poi venne quella maledetta domenica di maggio in cui il ginocchio fece CROCK e Luciano Grossman si rotolò per terra tirando manate nel fango e strappando ciuffi d’erba maledicendo Dio, se esiste un Dio.
Lo portarono via in barella.
Aveva trentacinque anni e i medici gli dissero fuori dai denti che la sua carriera era finita.
Invece lui non si diede per vinto. Riprese a fare il tappezziere e si mise sotto con la fisioterapia. Per due anni la sua borsa puzzava di colla e calzini fradici. E che ci crediate o no, a trentasette primavere tornò in campo.
Retrocesso a centrocampista riceveva e distribuiva palloni; come il centro di smistamento della posta, diceva ai vecchi amici che gli chiedevano della vita.
Qualche anno dopo si reinventò difensore. Soffriva ormai l’aggressività del centrocampo mentre dietro sentiva di poter ancora dare il suo contributo. Sapeva tenere la posizione e conosceva abbastanza a fondo gli attaccanti per indovinare che diavolo gli passava per la testa. Non faticò a diventare un buon terzinaccio. Ringhiare molto, mordere di più, e aggiustarsi con le buone o con le cattive. Era una questione di sopravvivenza e sopravvisse.
Ora.
Mentre a ventisei anni Grossman gonfiava ancora le reti, da un’altra parte del mondo, nella desolante periferia di Tassiocopeta, nasceva Emmanuel Huerta. Il Fenomeno. Quello che sarà poi destinato a scolpire il suo nome a lettere d’oro negli annali del Boca Junior. Un ragazzino con la faccia da indio e i piedi di un angelo. Chi l’ha visto giocare dice che i suoi piedi non toccavano terra. Quando calciava, il pallone prendeva traiettorie imprevedibili e surreali. Emmanuel Huerta Il Fenomeno.
Nel 1971 Huerta fu acquistato dal Porto Felice. Aveva diciassette anni e un brillante avvenire davanti a sé.
Luciano Grossman di anni ne aveva invece quarantatré, e possiamo dire che il meglio della vita gli era già passato davanti senza lasciare tracce d’entusiasmo. Portava sulla fronte l’espressione della pista da ballo il 2 di gennaio.
Si incontrarono il pomeriggio del 27 marzo 1972.
Grossman si alzò, quella mattina, con un leggero mal di testa. La moglie gli servì tre uova e quattro fette di pancetta fritta. Buttò giù tre bei bicchieroni di latte mentre il piccolo, Raffaele, giocava coi coperchi sul pavimento facendo un fracasso d’inferno e Melanie e Adelaide litigavano per qualcosa ma non si capiva cosa.
La moglie era di nuovo incinta. Gli aggiunse un altro uovo nel piatto.
«A che ora torni stasera?»
«Cosa?»
«Ho detto a che ora torni questa sera.»
Le ragazze arrivarono urlando in cucina, È mio Vai a farti fottere Vacci tu.
«Ragazze, ragazze, fate le brave…» le implorò Luciano.
Ma io ma lei ma tu.
«Andate di là, su, ho mal di testa…»
È stata lei Ma se sei stata tu Se tu non avessi preso il mio reggiseno.
«Di là, andate di là, porca puttana!» gridò Hanna minacciandole con la punta della pancia.
Le ragazze si spostarono nell’altra stanza, ma sempre litigando.
Hanna tornò a girare la pancia verso il marito.
«Allora, a che ora torni stasera?»
Grossman finì l’uovo. «Non so. Dopo la partita. Verso le sette.»
«Be’, allora passa al supermercato e prendi l’olio e il latte.»
«D’accordo.»
«Contro chi giochi oggi?»
«Porto Felice.»
«Come sono?»
«Corrono.»
«Be’, vedi di non farti male.»
Grossman si alzò dal tavolo e prese la sacca.
«E ricordati il latte.»
«Seee.»
«E l’olio.»
«Sì!»
«A stasera.»

Quel pomeriggio era tutto esaurito allo stadio. Arrivavano da ogni parte dell’universo per vedere quel ragazzino che chiamavano Il Fenomeno. Quello che aveva dei piedi da angelo. Che correva senza toccare per terra. Non si parlava di altro. Giornalisti, curiosi, tifosi, tutti accalcati dietro le reti metalliche sperando di vederlo per primi, e un grande boato che lo accolse quando mise i piedi in campo.
«Chi è?»
«È quello là, quello con la faccia da indio.»
«Guarda come tocca il pallone.»
«Sembra che sposti l’aria.»

Nel frattempo Grossman era negli spogliatoi. Con la sua aria curva da goccia al naso che si tirava su i calzettoni. L’allenatore distribuiva le maglie.
«Grossman.» Lui alzò appena la testa. «Hai la tre. Mi giochi sulla sinistra, oggi. D’accordo?»
«D’accordo capo.»
«Te la devi vedere col Fenomeno. Te la senti?»
In quel momento sentirono il boato arrivare dal campo.
«Dev’essere uscito…»
«Chi?»
«Il Fenomeno.»
«Non c’è problema» disse Grossman, e si prese la maglietta.
«Ascoltami bene. Se non te la senti me lo dici. Ti faccio giocare dall’altra parte. Non c’è niente di male. Sai, quello dicono sia un fenomeno veramente.»
«No. Non c’è problema. Gioco sulla sinistra. Va bene.»
«Non mi farai delle cazzate, vero Grossman?»
«Non si preoccupi capo. Gioco sulla sinistra.»
«Va bene. Perez tu hai la 9. Vedi di buttarla dentro sennò quanto è vero Iddio la prossima settimana puoi andare a vendere gelati fuori dallo stadio.»
Grossman infilò la maglia, si tolse la medaglietta della Vergine di Guadalupe, la baciò e la mise nella tasca dei pantaloni appesi al muro.
«Come ti senti?» gli chiese Perez tutto eccitato.
«Perché?»
«Be’, perché oggi giochiamo contro Huerta, magari ci sono degli osservatori.»
Grossman si sistemò i pantaloncini: «Se è per me, mi sa che sono arrivati in ritardo».
«Oggi gliene faccio tre.»
«Bravo.»
Scesero in campo.
Luciano Grossman si andò a sistemare sulla sua zolla; sbatté gli scarpini l’uno contro l’altro e si piegò fino a prendersi le caviglie sentendo i muscoli in fondo alla schiena tirare regalandogli una sensazione di leggero piacere. Poi si raddrizzò con un sospiro e guardò di fronte a sé chiedendosi quale potesse essere, Il Fenomeno; ma nessuno di quei ragazzi portava scritto in faccia qualcosa di speciale.
Aspettò il fischio dell’arbitro e al primo affondo tutto fu chiaro. Huerta prese la palla e lo puntò dritto per dritto. Grossman lo vide arrivare come un missile; non se ne rese neppure conto che già gli era alle spalle superò un altro difensore e fece partire il cross. L’attaccante che colpì di testa la spedì sul fondo, ma Grossman guardò verso la panchina e vide l’allenatore allibito, bianco come uno straccio.
Altro che veloce, quel ragazzo aveva i fulmini nelle scarpe.
Poco dopo Huerta era di nuovo lì, Grossman questa volta si piazzò; prese posizione; Huerta avanzava sulle punte dei piedi mentre Grossman indietreggiava lateralmente, come un granchio, per contenerlo. Il Fenomeno fintò sulla destra ed era chiaro e lampante come il sole che sarebbe scattato dall’altra parte. Fin troppo facile. Grossman si lanciò in scivolata e prese la sfera. No. La palla era già scomparsa e Huerta dal limite dell’area calciò una sventola che scheggiò il palo.
E così continuò, un balletto di Huerta con la palla, Huerta senza palla, Grossman per terra e Il Fenomeno che faceva ciò che gli riusciva meglio: incantare il pubblico.
Grossman, invece, sentiva di aver lasciato la giovinezza da qualche parte troppo lontana per riuscire a riscattarla proprio oggi. Le gambe gli facevano male e il respiro gli bruciava dentro.
L’allenatore lo chiamò vicino alla panchina.
«Passa sull’altra fascia.»
«No. Non c’è problema. Adesso lo tengo.»
«Grossman, quello è veloce.»
«Ce la faccio.»
«Sei sicuro?»
«Sì, tranquillo.»
«Se lo dici tu.»
Invece niente, un’altra palla per Huerta e questa volta Grossman si becca un tunnel. Poi gli salta via su una triangolazione. Poi la palla da una parte e l’uomo dall’altra e Grossman in mezzo a cercare di capire cos’è successo.
A un certo punto Grossman se lo vede di nuovo comparire davanti. Appare e scompare, Huerta, appare e scompare. Stavolta no, si dice Grossman. E si pianta come una quercia nel terreno. Mette radici e pensa Adesso basta. Le gambe di Huerta fanno una cosa che non si era mai vista prima e la palla passa. Ma Huerta no. Huerta resta a terra. Si guarda attorno con l’espressione di chi non ci può credere mentre Grossman recupera il pallone e fa ripartire l’ala che se ne va per i fatti suoi.
Huerta chiama l’arbitro, chiede il fallo, gesticola e si lamenta. Grossman non dice niente, non pensa niente. Sa solo che quella sera deve passare a prendere l’olio e il latte prima di rientrare a casa. Ecco tutto quello che sa.
Poi il pallone viene rilanciato, è Huerta che lo controlla, e allora di nuovo è il momento di lavorare. Una scivolata che strappa il pallone la gamba e tutto quello che c’è sopra. L’arbitro fischia e dice a Grossman «Vacci piano sennò ti ammonisco».
Grossman dice «Va bene, scusi» ma pensa Di qui non deve passare. E lo sa che è irrazionale. Che nel grande piano dell’universo, che Huerta segni un goal quel giorno, o che non lo segni, non cambierà niente. E che lui invecchierà sempre di più e quel ragazzo diventerà qualcuno, perché glielo si legge nei piedi che ha un destino tracciato e di goal ne farà a caterve e bucherà portieri, difese, sogni, illusioni, speranze, e altre ne regalerà. Lo sa, Grossman, che fermarlo quel giorno non gli allungherà la vita e non gli darà un altro anno di gioventù. Ma sa anche che deve fermarlo. Che quello è il suo lavoro ed è per quello che lo pagano.
Così gli si mette alle spalle. Cammina con lui, respira con lui.
Huerta è annichilito. Scompare. I suoi occhi grandi da indio guardano verso la panchina cercando di capire cosa debba fare, ma incrociano soltanto le urla e le proteste dei compagni che inveiscono contro l’arbitro per la scorrettezza di Grossman, o per come ha scalciato Huerta, o per la gomitata che ha rifilato. I giochi di prestigio si limitano a far sognare il pubblico, ma è più per terra che in piedi. Si tocca dolorante la coscia, il ginocchio, si risolleva i calzettoni, rimette una scarpa finita dieci metri più in là, mostra all’arbitro i segni dei tacchetti. Ma non può fare altro.
Grossman sta lì. Quasi la partita non lo interessi, solo quando è il momento di entrare in anticipo o far deragliare Huerta. Nient’altro.
Il pubblico lo fischia, ma lui se ne frega. E se ne frega anche quando le sue entrate si susseguono e cominciano ad applaudirlo dicendosi che Huerta non la aprirà mai, quella porta, non passerà.
Anche quando l’allenatore del Porto Felice chiama Huerta e gli cambia la fascia «Vai di là» gli dice; e Grossman se ne frega e lo segue a uomo pestandogli l’ombra.
Se quel giorno Heurta fosse andato in bagno, Grossman l’avrebbe seguito anche lì.
E allora qualcuno comincia a dirsi: «Ma chi diavolo è quello là?»
«Come chi è? È Grossman.»
«Il figlio dell’attaccante?»
«No, no. È proprio lui. Grossman. L’attaccante.»
«Diamine, ma gioca ancora? Ma quanti anni ha?»
Non gli importa quanti anni ha. Lui sa che deve rimanere attaccato ai pantaloncini di Huerta, e di lì non si schioda, dovessero ammazzarlo. Inizia il secondo tempo e Grossman è sempre lì. Dovessero ammazzarlo, già.
Solo che poi arriva una palla, c’è questa palla altissima, che rimbalza un paio di volte per il campo. In due o tre si avventano ma nessuno riesce a prenderla e la palla va verso Huerta, che però è spalle alla porta. È girato, Grossman lo sta tenendo per la maglietta, ma a Huerta riesce un numero da mago. Non si capisce. Tutti si chiedono: che diavolo ha fatto?, perché a un certo punto, semplicemente, non c’è più. Grossman si gira spaesato e lo vede saltare il portiere e mettere la palla in fondo alla rete a porta vuota.
In quel momento, Grossman, chiude gli occhi. Come per cancellare quell’immagine dalla retina; chiude gli occhi e lascia crollare la testa. Sta fermo lì dov’è, la gamba sinistra tesa, quella destra leggermente piegata, e le mani sui fianchi. Ma è solo un momento. Gli ha fatto male ma è solo un momento. Poi tutti lo vedono riguadagnare la sua posizione. L’allenatore non gli dice niente. I compagni gli dicono: non ti preoccupare. E Grossman fa quello che deve fare, riprende la partita come se non fosse successo, come se quel goal non fosse esistito. E continua a giocare fino alla fine. Fino a quando l’arbitro non fischia tre volte e le squadre non se ne vanno negli spogliatoi.
Lì Grossman si sveste, si toglie la maglia, i calzettoni, i pantaloncini. Si fa una doccia calda, bollente. Si rimette i pantaloni, la medaglietta con la Vergine di Guadalupe, si rimette la giacca, prende la sacca e saluta gli altri. Grossman sale in macchina e guida, percorre tutta la lunga circonvallazione agli ottanta all’ora, poi si infila nel parcheggio di un supermercato dove compra l’olio e il latte. Prima di uscire, vicino alla cassa, vede un mazzo di fiori. 1 $ e 95.
«Aspetti» dice alla cassiera. «Prendo anche questi.»
Li paga, esce dal supermercato e li guarda. Hanna sarà contenta, pensa.

Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 26 e ha le etichette , . Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.