Si sveglia all’improvviso alle tre e ventisette e, come ogni volta che sogna suo figlio, Teresa non riesce più a chiudere occhio. Questa notte, oltre al sogno – il suo rientro in casa e un abbraccio, discorsi molto realistici a pranzo – a stordirla c’è il rumore della grandine improvvisa che frusta i teli di plastica dei ponteggi del palazzo di fronte. Gli occhi sbarrati, l’ora nella sveglia che lampeggia e qualche goccia di Lexotan direttamente sotto la lingua.
Abbraccia il cuscino, lo stritola, piange.
Le fa male la mandibola.
Colpa del sogno e di quel rumore continuo. Ho una memoria strana, dice spesso, Una memoria rumorosa. Le persone che la ascoltano solitamente sorridono, sono scettiche, Che stronzata, pensa qualcuno, poi lei inizia a spiegare cosa le capita e quello che racconta, forse per il modo, a un certo punto sembra anche avere un senso. In pratica dice, Mi succede che se sento un rumore particolare, la stessa tonalità, la frequenza o il ritmo e quelle cose lì, si attiva qualcosa di strano e mi ricordo all’istante tutto quello che avveniva attorno a me la prima volta che l’ho sentito. Il gancio dei carrelli del mercato la riporta a una vacanza in Croazia, suo marito che attacca la roulotte alla vecchia Renault; il ventilatore malandato del macellaio ha lo stesso suono della bici di suo figlio quando era bambino, le rotelle che facevano un rumore infernale; ogni volta che sente un gufo c’è lei che entra per la prima volta nella casa di montagna che hanno venduto, l’animale appollaiato sull’enorme cipresso davanti alla porta d’ingresso. A volte sono ricordi insignificanti, semplici fotogrammi, altre sono piccole torture.
Soprattutto quando nei ricordi c’è anche lui.
Tipo oggi.
Oggi, al risveglio, la grandine ha colpito i teli nello stesso identico modo di un giorno di sei anni fa, o giù di lì, quando ancora suo figlio non aveva preso la moto dal garage, nonostante la pioggia, esagerato con la velocità e assaggiato l’asfalto e la carrozzeria delle macchine parcheggiate. Il ricordo è qualcosa che sul momento la fa sorridere: lei che lo chiama, un problema al computer, Non riesco ad aprire la mail, gli dice e così lui entra in camera già piuttosto nervoso. Smanetta un po’, Ti serve la password, dice e lei sorride, Me la sono dimenticata. Suo figlio sbuffa, fuori c’è un tuono, Ora viene giù il finimondo, dice e poi subito dopo, Devi mettere una password che puoi ricordare. Tu quale metti, gli chiede mentre si alza il vento e la pioggia aumenta. Il mio calciatore preferito e il suo numero di maglia, dice, Immobile9. Proprio in quel momento, i primi chicchi di grandine iniziano a fiondarsi su ogni superficie possibile e lei lì, mentre ancora stringe il cuscino, si ripete quella parola, Immobile9, e non riesce a chiudere occhio. Più di una volta, durante quei mesi di tristezza infinita, le era presa una voglia incontrollata di entrare nel suo computer, sapere qualcosa di più, ficcare il naso tra le sue cose, ma si era sempre trattenuta, per pudore e perché sarebbe servita una password. La memoria però è una cosa strana e ora, mentre si confonde con altre gocce di ansiolitico, il sapore di fragola marcia in bocca e le mani che tremano, è lì in camera di suo figlio, così come lui l’ha lasciata quella sera, ad accendere il suo computer e inserire la password che le aveva confidato quel giorno di grandine.
La luce dell’alba che entra da fuori e il gatto che inizia a camminare sulla scrivania, a fare le fusa allo schermo, alle sue mani che non sanno dove andare, tra le cartelle e i documenti sul desktop, la foto di una spiaggia bianchissima. Una delle prime cose che fa, intimorita, prendendo il respiro più volte, è entrare nella pagina Facebook di suo figlio. Non sa perché lo fa, forse perché lo vedeva perdere tutto quel tempo là sopra. Era stato proprio lui a convincerla ad aprirsi un profilo e ormai da un paio d’anni anche lei bazzicava Facebook alla ricerca di amici d’infanzia, compagni di liceo persi nel tempo: perdeva tempo. Non sa perché scorre le persone che gli hanno chiesto l’amicizia, perché legge tutti i messaggi degli amici e dei conoscenti che affollano la bacheca ormai da un anno, dopo quella notte, una marea nei primi giorni e poi sempre più radi. Uno solo nell’ultima settimana. Li legge tutti e intanto arrivano le dieci e mezza, gli occhi gonfi dalle lacrime e le ossa che fanno male per i singhiozzi, per tutto quell’amore. Le foto. Le scorre una a una e ci sono le feste, una quantità infinita di bicchieri e discoteche, ragazze portate al belvedere e poi le foto allo stadio, il gruppo di amici, le maglie dello stesso colore; Elisa, la ragazza che l’ha lasciato qualche mese prima di morire e che ogni tanto viene ancora a trovarla, le offre il caffè ogni volta e stanno ore a parlare, si sente così in colpa. Rimane con il volto appiccicato allo schermo per un tempo interminabile, legge anche alcuni messaggi che si è scambiato in privato con amici e ragazze, foto erotiche che subito fa sparire, vergognandosene. Poi, verso le dodici e quarantadue, quando fuori spiove definitivamente e c’è solo il ticchettio fastidioso dell’acqua che esce da un buco della grondaia, le viene l’improvvisa curiosità di controllare se qualcuno, qualche istante prima dell’incidente e della sua morte, gli aveva scritto, magari distraendolo dalla guida della moto. Così scorre i messaggi della chat e non ne trova nessuno di quella sera, prima dell’incidente. Ce n’è però uno che il figlio non ha mai letto, arrivato qualche minuto dopo l’orario esatto del suo decesso, l’una e dodici di notte.
Legge il messaggio più volte, spegne subito il computer. Una doccia calda, una passeggiata per la città che si risveglia dopo il nubifragio, e non pensa ad altro per ore, fino a sera e al mattino successivo, quando sistema la cucina e ha due occhiaie che quasi le fanno male. Rilegge mentalmente il messaggio per giorni, l’ora esatta e una risposta che non è mai arrivata. Immagina il volto di quella ragazza, il suo tono di voce e il suo sorriso. Si chiede se ha saputo della sua morte o ne è rimasta all’oscuro per qualche strana questione di privacy o impostazioni del profilo. È un dubbio che la stuzzica e massacra tanto che, senza nemmeno rendersene conto, si ritrova una notte a scriverle, Ciao Irene.
Potrebbe fermarsi, spiegarle che è la madre, raccontarle dell’incidente, ma dopo qualche secondo le scrive ancora, Scusa se ti rispondo solo ora ma non uso più questo maledetto programma, se vuoi scrivimi qui, e le lascia il suo numero di cellulare. Preme invio, si maledice all’istante. Irene, la notte dell’incidente, aveva scritto a suo figlio che si era ricordata di lui dopo quasi cinque anni, che si erano incontrati in spiaggia, a una festa di amici di amici e che avevano parlato tutta la notte e che poi non si erano più rivisti e, a lei, in tutti quegli anni, gliene sono successe di ogni colore, Nemmeno puoi immaginare, gli aveva scritto. Mi sono ricordata il tuo nome e ti ho cercato qui, gli ha scritto ancora quella notte. Nella foto profilo in braccio ha un bambino che avrà quattro anni, le guanciotte enormi e un ciuffo che gli ricade sul viso. Sorridono entrambi, lei ha qualche ruga nonostante l’età.
Teresa vorrebbe bruciare il computer, buttarlo dalla finestra, distruggerlo a morsi e ingoiare ogni minuscolo pezzo anche se sa che non servirebbe a nulla. Spera che non lo leggerà mai ma, cinque minuti dopo, quando controlla, Irene l’ha già visualizzato. Spegne il cellulare. Lo stomaco le si restringe e vomita abbracciata alla tazza del cesso, perché è da un anno o giù di lì che cerca un modo per riportarlo in vita e, ora che l’ha fatto, vorrebbe solo sparire. Beve tantissimo quella sera, stordendosi, chiudendosi in casa con le tapparelle abbassate. Osserva il cellulare spento e sorride quando, dopo averlo acceso, non trova nessuna chiamata e nemmeno un messaggio. Forse si è dimenticata di me, pensa senza rendersi conto di riferirsi a se stessa come se fosse suo figlio.
Una poltiglia vomitevole al risveglio e la testa che gira. Ci mette un po’ a riprendersi, qualche caffè e un Oki, poi si sdraia sul divano dopo aver fatto prendere un po’ di aria alle stanze. Le tremano le dita, per l’alcol e la paura, quando riaccende il cellulare ed è ancora il silenzio e tutto si risolve, senza alcun suo cenno di vita, in giornate che vanno avanti sempre uguali, col computer spento e l’idea di scrivere a quella ragazza che diventa quasi un ricordo. Tra qualche anno però il rumore di piatti che si rompono le ricorderà il momento, ormai inaspettato, in cui riceve il messaggio di Irene, Non sapevo se risponderti o meno ma, eccomi qui. Come stai? Lo legge, rilegge, affondata nella poltrona in salotto, una lacrima di sudore che le scende fino alle labbra e la gatta che miagola, affamata, che le si struscia contro le gambe mentre scrive, cancella e riscrive un’infinità di volte una frase complessa per poi essere il più banale possibile, Benissimo e tu?
Le cose iniziano ad andare meglio, scrive, Non voglio subito deprimerti ma ho imparato a non pensare. Mette qualche emoticon, la faccina che piange dal ridere, e sorride quando lui le risponde, Pensa che io non l’ho mai fatto. Teresa non riesce a capire per quale motivo stia lì a scriverle, perché tutte quelle parole e domande le escano con una facilità disarmante. Passa almeno due ore a farsi raccontare quello che le è successo in tutti questi anni, così lei gli scrive delle violenze del compagno, della malattia del figlio – fortunatamente guarito –, di quanto le sia piaciuto l’alcool per almeno quattro anni, ogni sera, senza fermarsi, Sono una collezione di sfighe, gli scrive. Lui cerca di tirarla su, prova a farle battute che Teresa non si aspettava di poter scrivere, le dita son sempre più veloci sulla tastiera, almeno fino a quando non si rende conto di quello che sta facendo, Scusa ora devo andare, le scrive. Ci sentiamo, gli chiede lei. Nessuna risposta. Buio.
Notti insonni col cellulare sempre accanto. Riceve qualche messaggio a cui non risponde, Ho scritto qualcosa di male, gli chiede lei una sera e ci mette un po’ Teresa a rispondere, Scusa non mi è stato bene il gatto, scrive, Ho avuto un po’ di contrattempi. Le manda delle foto, il gatto accoccolato sullo schienale della poltrona, lei risponde con dei cuori. C’è stato un momento in cui avrebbe voluto dirle la verità, cambiare numero, ma da quella risposta iniziano a parlare di tutti gli animali domestici che hanno avuto. Teresa le racconta del cane che aveva da bambina come se fosse stato di suo figlio, dei gatti che le hanno tenuto compagnia negli ultimi anni, mentre Irene ribatte con tutti i cani prima dell’arrivo del bambino. E poi passano a parlare proprio di lui, la sua malattia così rara, Non ti ho ancora chiesto come si chiama. Ettore, gli scrive raccontando bene quello che ha passato, il sangue malato, il suo compagno che se ne è sbattuto, abbandonandoli, i problemi coi soldi che finivano per colpa di tutte le bottiglie di gin che scolava in un attimo. Ma non voglio ammorbarti, gli scrive, Tu hai una compagna? Si inventa una relazione finita da poco, prende spunto dalle storie che le ha raccontato Elisa, le manda anche delle sue foto che prende dal social network. Ora sono libero, le scrive aggiungendo un occhiolino con il punto e virgola e la parentesi.
Si scrivono di tutto, per giorni, poi Irene comincia a mandargli dei vocali – ha un accento strano, a volte balbetta – e Teresa si deve inventare delle scuse, il lavoro, le scrive, Non mi piace la mia voce al telefono, e poi arriva il momento in cui Irene gli chiede, Perché un giorno non ci vediamo?
Le gira la testa e immagina suo figlio a un appuntamento, il profumo e una camicia appena stirata. Immagina il suo sorriso, che offre la cena e si diverte, magari un bacio. È elegante e gentile, la fa sedere per prima e commenta le portate, le sfiora la mano quando escono dal ristorante e si abbracciano. Pensa, È il momento di sparire, ma poi le risponde, Sono fuori per lavoro per qualche giorno, le scrive, Magari al ritorno. Prende tempo e intanto continuano a scriversi, capita che i messaggi si facciano particolarmente ammiccanti, quasi espliciti, e lei si trova a suo agio nonostante a volte la sorprenda la vergogna e perfino le lacrime, quando si rende conto di quello che sta facendo. Irene insiste con i messaggi vocali, lei a risponderle scrivendo. Non vedo l’ora di vederti, gli scrive. Teresa non riesce a uscire da quell’incubo e, anzi, insiste, Torno lunedì. Si butta sul letto, non si sentono per un giorno e poi riprendono con più foga ancora, lui le dice di essere solo in albergo, fuori città, qualche doppio senso, Li conosci i giardini Fausto Coppi? Vediamoci lì e poi ci prendiamo qualcosa nel bar davanti, gli scrive lei un sabato notte. Teresa non risponde subito, si fa una doccia ghiacciata nonostante il freddo e poi rimane sveglia, scorre le foto di suo figlio sul computer, di nuovo, Immobile9, c’è un antifurto che suona a intervalli regolari. Manca solo un giorno.
Non andava in chiesa dal funerale di suo figlio ma, questa domenica, senza aver chiuso occhio, si ritrova seduta ai banchi in fondo, davanti a lei quasi nessuno. Odia il profumo dell’incenso e le facce dei santi che la osservano, il corpo minuscolo di un cardinale dell’Ottocento ormai mummificato infilato dentro una bara di vetro. Mormora le frasi della messa, prega dio più forte che può. Cammina senza sosta per tutto il giorno, fino a farsi venire male alle gambe, un dolore continuo alla testa e al petto. La opprime pensare a Irene, alla delusione che proverà quando le dirà come sono andate le cose o quando sparirà. A casa, seduta sul divano, per un attimo, si rende conto che nell’ultimo periodo è stata bene solo le volte in cui ha fatto finta di essere suo figlio e ha scritto a Irene, Domani sta arrivando, sorride come non ha sorriso in tutto l’anno. È come se le fosse mancato meno del solito e vorrebbe continuare a scrivere a Irene per sempre.
Il cellulare le cade dalle mani al solo pensiero, lo raccoglie e ha lo schermo rotto. Non si riconosce nella foto che solitamente c’è sullo schermo. Valuta le varie possibilità, passano le ore e fuori inizia a fare buio, inizia il lunedì, il giorno dell’incontro, immagina Irene che si fa bella.
Si ripete in continuazione tutto quello che ha deciso di dirle. Lo recita davanti allo specchio del bagno, il gatto che la osserva infastidito perché da giorni non spegne la luce. Davanti al frigo, la mattina, quando prova a fare colazione ma il latte è andato a male e i biscotti sono secchi. Cambia ogni volta qualche frase, spera di essere ragionevole, che non se la prenda più di tanto. Si vergogna come non ha mai fatto, poi si addormenta sul divano che sono passate le dieci e rischia di fare tardi. L’ansia, la paura, il cellulare spaccato contro il muro, lo schermo che esplode e mille pezzi impossibili da riassemblare. Si veste di corsa e si spruzza un po’ di profumo, si dimentica di lavarsi i denti. Vorrebbe svenire, sparire, morire. Quasi non ricorda come si fa a camminare.
La prima cosa che vede è Ettore che gioca con una palla.
La calcia più volte contro un muretto, la rincorre se si allontana troppo. Poi vede Irene che lo richiama, Fai attenzione alla strada, gli urla quando Teresa è a una ventina di metri da loro, dall’altra parte dell’incrocio. Si fissa sui suoi capelli biondi, tenuti con un elastico, e sulla sua giacca lunga e nera che nasconde un corpo che le sembra magrissimo. La osserva da lontano per un po’, trema e suda, rivede la foto profilo che ha studiato a memoria, sente il rumore della grandine sul telo, il profumo di suo figlio, e le gira la testa fino a doversi appoggiare a un muro, ogni cosa è sul punto di sciogliersi. Dimentica all’istante tutte le parole che si era preparata e sta quasi per tornare indietro, lasciarla su quella panchina, quando la palla rotola lentissima fino a lei, le arriva fino ai piedi e lei la guarda e poi osserva Ettore che le corre incontro, Ettoreeeee, urla Irene alzandosi di scatto dalla panchina mentre il figlio attraversa la strada, e le sue ossa sono quasi sul punto di spaccarsi dalla paura, un clacson e il fischio di una frenata che non riuscirà più a dimenticare, e poi vede il suo sorriso mentre allunga le mani per riprendere la palla e il profumo di Irene, le sue gocce di saliva che sputacchia mentre urla, Ti ho detto di fare attenzione, e poi il bambino che le chiede, Perché piange signora?